domenica 13 aprile 2008 - Pubblicazione a cura di Angela Lorusso
Se il datore di lavoro non esercita il suo potere sanzionatorio nei termini previsti dal contratto collettivo, decade da tale potere.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Sentenza 19 dicembre 2007 – 18 marzo 2008, n. 7295
(Presidente Ciciretti – Relatore Monaci)
Svolgimento del processo
Il signor A. D. ha convenuto in giudizio la società O. I. s.p.a., alle cui dipendenze aveva lavorato dal 1985 al 2002, per impugnare il licenziamento per giusta causa irrogatogli il 5 novembre 2002, con le conseguenze reintegratone e risarcitone.
Esponeva che prima del licenziamento gli erano state contestate una serie di irregolarità relative, tra l'altro, a spese effettuate con la carta di credito aziendale, cui erano seguiti due provvedimenti disciplinari conservativi, impugnati davanti ad un collegio arbitrale, che aveva ridotto la sanzione irrogata con il primo e confermato il secondo.
Successivamente gli erano state contestate altre irregolarità relative ad acquisti di carburante, e a seguito di queste ultime era stato intimato il licenziamento per giusta causa. Premesso questo, il D. impugnava i lodi arbitrali, per mancanza di motivazione ed il licenziamento per mancanza di giusta causa e per violazione del criterio della proporzionalità, genericità ed intempestività della contestazione. Il primo giudice respingeva l'impugnazione dei lodi arbitrali; concludeva, invece, per l'illegittimità del licenziamento, contenendo in cinque mensilità l'indennità risarcitoria. Con sentenza n. 784/04, in data 19 maggio / primo giugno 2004, la Corte d'appello di Torino andava parzialmente in contrario avviso.
Riteneva, infatti, che il datore di lavoro fosse decaduto dal potere disciplinare e, di conseguenza, in accoglimento dell'appello incidentale del D., dichiarava l'illegittimità del licenziamento che gli era stato intimato, e condannava la società a corrispondergli una indennità commisurata alle retribuzione globale di fatto maturate a partire dal licenziamento, con gli accessori.
Riteneva, invece, che non dovesse essere esaminata l'impugnazione principale della D..
Avverso la sentenza di appello, che non risulta notificata, la società D. O. I. s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi di impugnazione, notificata, in termine, il 6 maggio 2005.
Resiste l'intimato D. con controricorso, notificato, in termine, il 14 giugno 2005.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di impugnazione la società ricorrente lamenta l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia. Secondo il ricorrente sussisteva una netta differenza, due situazioni distinte, quella a monte e quella a valle della contestazione disciplinare.
Nella prima il dipendente si trovava in una situazione di incertezza sull'esercizio del potere disciplinare da parte del datore di lavoro, e perciò era giustificata una particolare tutela del dipendente a protezione sia della certezza dei rapporti giuridici, sia del diritto di difesa del lavoratore, e di conseguenza che potesse operare una decadenza convenzionale.
Nella seconda, invece, questi interessi erano venuti meno.
Il datore di lavoro aveva già fatto la sua scelta.
Il ragionamento della sentenza in proposito non poteva considerarsi completo e coerente.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la società denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e seguenti c.c., in relazione all'art. 68 del Ccnl delle industrie alimentari del primo giugno 1999, nonché l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia.
Critica l'interpretazione data a questa normativa dalla Corte d'appello secondo cui la norma contrattuale collettiva, nel disporre che i provvedimenti disciplinari dovessero essere irrogati entro trenta giorni dal ricevimento delle giustificazioni, prevedesse un termine perentorio.
Il testo, invece, non assegnava alcuna conseguenza all'inosservanza del termine.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denunzia l'omessa ed insufficiente motivazione su di un punto decisivo della controversia.
Da un lato la Corte d'appello aveva affermato che l'esito delle due procedure arbitrali anteriori alla contestazione cui si riferisce questa controversia poteva rilevare ai fini della recidiva e, dall'altro lato, invece, che il datore di lavoro avrebbe errato nell'attendere l'esito delle procedure arbitrali. Il giudice non aveva tenuto conto delle circostanze in cui si trovava il datore di lavoro al tempo dell'esercizio del diritto, vale a dire in presenza di un giudizio arbitrale pendente, il cui esito sarebbe stato decisivo per determinare la sanzione da applicare al dipendente per una nuova infrazione commessa successivamente.
4. Il ricorso non è fondato.
E' infondato, innanzi tutto il primo motivo.
Le considerazioni svolte dalla ricorrente sono generiche e non risolutive.
Se è vero che prima della contestazione disciplinare è giustificata una particolare tutela del lavoratore, e perciò la possibile esistenza di termini perentori per l'inizio dell'azione disciplinare, anche dopo la contestazione, e la presentazione da parte del dipendente delle proprie giustificazioni, una simile tutela, e perciò, ancora una volta, l'esistenza di termini perentori, può essere ugualmente giustificata perché, dopo un certo termine, il predetto potrebbe ritenere le sue giustificazioni accettate e l'azione disciplinare non proseguita.
La materia, in realtà, è regolata dai contratti collettivi di lavoro, che sono contratti di diritto privato stipulati dalle parti collettive: spetta a loro stabilire, nella mediazione delle diverse posizioni e dei contrapposti interessi, se debbano esserci, o meno, dei termini per l'inizio, la prosecuzione e la definizione dell'azione disciplinare, e quali.
5. Il secondo motivo è parzialmente inammissibile, e comunque infondato.
E' parzialmente inammissibile là dove denunzia la violazione e la falsa applicazione di norme contrattuali collettive Il ricorso è stato proposto contro una sentenza depositata nel giugno del 2004, e perciò non è applicabile la nuova formulazione del numero 3 dell'art. 360 c.p.c, introdotta dall'art. 2 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40, che estende l'ambito della ricorribilità per cassazione alla violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro, ma si applica soltanto ai ricorsi proposti avverso le sentenze e gli altri provvedimenti depositati dopo l'entrata in vigore del decreto medesimo.
L'interpretazione dei contratti collettivi è riservata al giudice del merito, e perciò non può essere oggetto di ulteriore esame in questa fase di legittimità, se non sotto il profilo del vizio di motivazione e/o della violazione delle regole ermeneutiche.
Il motivo, in ogni caso, è anche infondato.
Non sussiste vizio di motivazione, perché quella della Corte d'appello di Torino appare adeguata.
La sentenza riporta il termine (di trenta giorni dal momento in cui sono pervenute le giustificazioni del lavoratore) indicato dalla norma contrattuale, e ne fornisce una interpretazione logica.
In realtà il punto contestato dalla società D. è il carattere perentorio del termine.
Per la verità la Corte d'appello lo considera presupposto una volta che il termine era indicato, ma questo non significa che fosse tenuta, a motivare più ampiamente.
La ricorrente contesta questa interpretazione, ma la sua critica non è convincente, se non altro perché non indica una spiegazione alternativa dell'inserimento del termine all'interno del testo contrattuale.
La ricorrente non contesta che nel testo fosse contenuto il termine, ma sostiene che non era previsto alcun tipo di conseguenza in caso di inosservanza di esso.
In realtà in qualsiasi scritto, e tanto più in un testo destinato ad assumere valore legale, come quello in questione che è parte di un contratto collettivo nazionale di lavoro, fino a prova contraria ogni singola locuzione ha un suo specifico significato.
L'indicazione di un termine per il compimento di un'attività giuridicamente rilevante non rientra tra le cosiddette clausole di stile, e neanche la ricorrente lo afferma.
Perciò deve avere, nel contesto di riferimento, una qualche conseguenza.
Nel caso di specie, nell'ambito di quel contesto, non appaiono ipotizzabili conseguenze diverse da quello dell'obbligo di procedere a quella specifica attività entro il termine di esso, e della decadenza da tale potestà se l'attività non viene posta in essere entro il termine.
Né la stessa ricorrente indica conseguenze alternative possibili.
Risulta dimostrata così, a contrario, la perentorietà del termine, e con riferimento specifico al motivo d'impugnazione, l'infondatezza dell'argomentazione della ricorrente.
6. Il terzo motivo è anch'esso infondato.
Può essere vero che la datrice di lavoro avesse un certo interesse pratico alla definizione in sede arbitrale delle precedenti contestazioni disciplinari per addebiti del medesimo genere prima di procedere all'irrogazione della sanzione per l'episodio che ha dato origine al licenziamento, ma è un dato di fatto - non contestato dalla ricorrente stessa che non allega il contrario - che il contratto collettivo non prevedeva la sospensione del procedimento disciplinare in ipotesi di questo genere.
Questo significa, inevitabilmente, che quell'interesse specifico non era tutelato.
D'altra parte la pendenza dei giudizi arbitrali per i fatti precedenti non impediva l'irrogazione delle sanzioni,licenziamento compreso, per i fatti successivi.
In particolare la ricorrente non allega che il licenziamento potesse essere irrogato soltanto in caso di recidiva.
D'altra parte, fino a quando non fossero state annullate da un collegio arbitrale (oppure da un giudice ordinario), le precedenti sanzioni rimanevano in essere.
Perciò la datrice di lavoro avrebbe potuto tenerne conto come precedenti ai fini della recidiva nell'adozione del nuovo provvedimento disciplinare, salvo essere tenuta a ridurre l'entità della sanzione in caso di mancata conferma di quelle precedenti, oppure prevedere fin dall'inizio quale sarebbe stata la riduzione nel caso di mancata conferma dei precedenti, oppure non menzionarli affatto.
In sostanza l'esercizio del potere disciplinare per il fatto successivo poteva incontrare modeste difficoltà pratiche, ma non era impedito, né reso eccessivamente difficile.
7. In conclusione dunque il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Nel corso del giudizio sono succedute decisioni di contenuto opposto: quest'alternanza di valutazioni è indice delle oggettive difficoltà delle questioni trattate, e costituisce perciò giustificato motivo per la compensazione delle spese.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa le spese.