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Consiglio di Stato, sez. VI, decisione 20/11/2007 (dep. 8/2/2008), n. 415
domenica 13 aprile 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli

Lo spaccio di sostanze stupefacenti da parte dell'immigrato è condizione ostativa al rinnovo del permesso di soggiorno.

Consiglio di Stato
Sezione VI
Decisione 20 novembre 2007 – 8 febbraio 2008, n. 415
(Presidente Ruoppolo – Relatore De Michele)
Fatto

Con atto di appello notificato il 20.10.2006 si impugna la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Emilia Romagna, sede di Bologna, n. 1140/06 del 28.6.2006, con la quale veniva respinto il ricorso del sig. Z. E. S. avverso il diniego di rinnovo del proprio permesso di soggiorno, emesso con decreto del Questore di Bologna in data 21.3.2006 e notificato il 31.3.2006, diniego giustificato da sentenze di condanna riportate dallo straniero interessato. Nella citata sentenza, emessa in forma semplificata ex art. 9 L. n. 205/2000 si rilevava, in particolare, la sufficienza dell’ultima delle sentenze in questione – emessa ex art. 444 c.p.p. – quale causa ostativa del rinnovo, a norma dell’art. 4, comma 3 (come modificato dalla legge n. 189/02) e dell’art. 5, comma 5 del D.Lgs. n. 286/98, senza necessità di valutazione della pericolosità sociale del diretto interessato. Avverso detta sentenza, nonché avverso il contestato diniego, nell’atto di appello vengono ribaditi i seguenti motivi di gravame:

- in via preliminare, illegittimità costituzionale degli articoli 4, comma 3 e 5, comma 5 del D.Lgs. n. 286/98, come modificato dalla legge n. 189/2002, per violazione degli articoli 2, 3, 4, 13, 16, 25 comma 3, 27 comma 3 e 35 della Costituzione, nella parte in cui le predette norme introducono un automatismo nel negare il rilascio del permesso di soggiorno per motivi di lavoro, a fronte di una condanna per determinati reati, sottraendo all’Autorità amministrativa il potere di valutazione della pericolosità sociale del cittadino extracomunitario;

- illegittimità della sentenza impugnata per violazione o erronea interpretazione di legge, oltre che per irragionevolezza, eccesso di potere, carenza e vizio di motivazione, in relazione all’omessa valutazione della pericolosità sociale e alla corretta applicazione della disciplina (ancora una volta art. 4, comma 3 e art. 5, comma 5 del D.Lgs. n. 286/98) in materia di rilascio di permesso di soggiorno, in quanto le condanne inflitte in sede penale non dovrebbero dare luogo ad una presunzione assoluta di pericolosità sociale, indipendentemente dalle “risultanze di un’adeguata istruttoria, riguardante l’intera personalità del soggetto in tutte le manifestazioni della sua vita”; nella fattispecie, inoltre, non sarebbero state considerate diverse circostanze, che avrebbero giustificato conclusioni diverse: l’esistenza con certezza di un’unica condanna (mentre altri precedenti penali, emersi dal casellario giudiziale di Roma corrisponderebbero a casi di omonimia o ad errori), la lunga permanenza in Italia (almeno dal 1995) e la documentata sussistenza di un rapporto di lavoro in corso.

L’Amministrazione non si è costituita in giudizio in sede di appello.
Diritto

La duplice questione sottoposta all’esame del Collegio è quella (in ordine di priorità logica) dell’avvenuta emanazione, o meno, dell’atto impugnato in primo grado in conformità alle norme vigenti e, in caso affermativo, della possibilità di sollevare riguardo a dette norme questione di costituzionalità, previo giudizio di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione stessa. Sotto il primo profilo, il diniego di permesso di soggiorno appare emesso in conformità al dettato dell’art. 5, comma 5 del D.Lgs. 25.7.1998, n. 286 (Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione), in base al quale “il permesso di soggiorno o il suo rinnovo sono rifiutati e, se il permesso di soggiorno è stato rilasciato, esso è revocato, quando mancano o vengono a mancare i requisiti richiesti per l’ingresso e il soggiorno nel territorio dello Stato…sempre che non siano sopraggiunti nuovi elementi che ne consentano il rilascio e che non si tratti di irregolarità amministrative sanabili”.

Tra le circostanze che precludono il rilascio del permesso di soggiorno (e quindi, in base alla norma sopra riportata, anche il rinnovo del medesimo) l’art. 4, comma 3 del medesimo D.Lgs. – nel testo introdotto dall’art. 4, comma 1, della legge 30.7.2002, n. 189 – pone infatti espressamente il caso in cui lo straniero “risulti condannato, anche a seguito di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, per reati previsti dall’art. 380, commi 1 e 2 del codice penale, ovvero per reati inerenti gli stupefacenti, la libertà sessuale, il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina verso l’Italia e dall’emigrazione clandestina dall’Italia verso altri Stati, o per reati diretti al reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione o di minori da impiegare in attività illecite”.

Nella situazione in esame, dunque, correttamente il Giudice di primo grado ha ritenuto che – anche in presenza di contestazioni, circa la riferibilità al ricorrente di altri precedenti penali, risultanti dal casellario giudiziale – fosse sufficiente giustificazione del diniego impugnato anche la sola ultima condanna inflitta al medesimo, a seguito di patteggiamento, per detenzione e spaccio di stupefacenti.

La norma sopra riportata, d’altra parte, non lascia margini di discrezionalità, circa l’entità della pena, la gravità e la segnalata occasionalità della condotta sanzionata e la valutazione della personalità complessiva dell’imputato, essendo presupposto del diniego la mera sussistenza di determinate tipologie di condanne penali (come, per quanto qui interessa, quelle relative a reati in materia di possesso e commercio di sostanze stupefacenti) e ponendosi come unico elemento giustificativo di eventuali deroghe la “sopravvenienza di nuovi elementi”, evidentemente da valutare caso per caso ove emergente dagli atti (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. St., sez. VI, 20.4.2006, n. 2199; 17.5.2006, n. 2866, 27.6.2006, n. 4108; 17.5.2006, n. 2866).

Nel caso di specie, la condanna riportata nel 2005 dall’attuale appellante rientra fra quelle ostative, ex se, del rilascio o del successivo rinnovo del permesso di soggiorno, senza che siano evidenziati dall’interessato – o ravvisabili in base alla documentazione in atti – quei “nuovi elementi” sopravvenuti, che in base alla citata normativa avrebbero potuto consentire, in via eccezionale, il rinnovo stesso: la condotta penalmente sanzionata, infatti, risulta posta in essere quando l’interessato soggiornava già da tempo sul territorio nazionale, dove il medesimo attesta di avere sempre svolto regolare attività lavorativa, tanto da non potersi ricondurre la condotta stessa a circostanze straordinarie, o a ragioni (poi venute meno) di assenza di mezzi di sostentamento.

In tale contesto, il diniego deve essere ritenuto atto vincolato, non annullabile per violazione di norme sul procedimento o sulla forma, ai sensi dell’art. 21 octies della legge 7.8.1990, n. 241, nel testo introdotto dall’art. 14 della legge 11.2.2005, n. 15, con conseguente irrilevanza del mancato preavviso di diniego e della omessa traduzione del provvedimento nella lingua dell’attuale appellante (fermo restando, sotto quest’ultimo profilo, che non si afferma nel caso di specie che l’appellante stesso, soggiornante sul territorio nazionale dal 1995, non conoscesse l’italiano, ma solo che non avesse conoscenze sufficienti per avere piena consapevolezza del significato della terminologia giuridica: circostanza, questa, rapportabile più al livello di scolarizzazione che alla nazionalità e che, comunque, impone nei giudizi una difesa professionale, di cui l’appellante ha in effetti usufruito).

Resta da valutare se le norme, nella fattispecie applicate, possano suscitare dubbi di costituzionalità, nei termini prospettati dall’appellante o, comunque, rilevabili anche d’ufficio dal Collegio.

La questione sarebbe indubbiamente rilevante per la soluzione (altrimenti negativa) della questione sottoposta a giudizio, ma il Collegio stesso ritiene di doverne ravvisare la manifesta infondatezza, anche a prescindere dal fatto che la Corte Costituzionale si sia già espressa per l’inammissibilità di diverse eccezioni di incostituzionalità, sollevate in ordine sia all’art. 4, comma 3 nel testo attualmente vigente, sia all’art. 5, comma 5 del più volte citato D.Lgs. n. 286/98, alla luce degli articoli 2, 3, 4, 13, 16, 27, 29 e 35 della Costituzione (Corte Cost. 11.1.2005, ordinanza n. 9, 6.12.2006, ordinanza n. 431 e 4.12.2006, sentenza n. 414).

Non può essere posta in dubbio, infatti, la discrezionalità del legislatore nel valutare le esigenze di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini, in rapporto a fenomeni di vasta portata che, in un determinato momento storico, possono porre problematiche eccezionali: l’ampiezza del fenomeno immigratorio, la registrata crescita di condotte devianti, con conseguente allarme sociale e l’oggettiva difficoltà di controllo capillare del territorio possono, dunque, porre su una base di ragionevolezza (nei limiti rilevanti sotto il profilo in esame), anche disposizioni molto rigide, che vedano preclusa la permanenza sul territorio nazionale di chi sia stato condannato per determinati reati.

Le norme di cui si discute, pertanto, appaiono frutto di bilanciamento di interessi, fra una “politica dell’accoglienza” (che privilegi il lato personale ed umano, ovvero l’indubbia possibilità di recupero sociale di chi sia incorso in vicende anche penalmente rilevanti) ed una “politica del rigore”, che punti ad inserire nel tessuto sociale solo i numerosissimi lavoratori stranieri che offrano le migliori garanzie di positivo apporto e migliore inserimento nella collettività, senza che l’una o l’altra di tali scelte trovino ostacolo nella Carta Costituzionale, non essendo imposta – anche nell’ottica della legislazione restrittiva, attualmente vigente – alcuna presunzione assoluta di pericolosità sociale del singolo, ma solo una esigenza di condotta irreprensibile per l’ingresso e la permanenza dello straniero sul territorio nazionale, peraltro non senza possibilità di valutare nuove circostanze sopravvenute (non ravvisate nel caso di specie), che possano in via eccezionale giustificare anche singole condotte devianti.

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto; quanto alle spese giudiziali, tuttavia, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello; compensa le spese giudiziali.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità amministrativa.