Reati tributari: è costituzionalmente legittimo l’art. 13, comma 2 bis, d.lgs. n. 74/2000, che subordina, per i reati tributari disciplinati dal decreto, la possibilità di ricorrere al patteggiamento della pena all’estinzione dei debiti con il Fisco.
mercoledì 3 giugno 2015 - Pubblicazione a cura di Dott. Giorgio Gammarota
Sentenza della Corte Costituzionale, sentenza 14 – 28 maggio 2015, n. 95 Presidente Criscuolo – Redattore Frigo
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 3 dicembre 2013 il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di La Spezia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale:
a) dell’art. 12, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, per contrasto con gli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione;
b) dell’art. 13, comma 2-bis, del medesimo d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dell’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del d.l. n. 138 del 2011, per asserita violazione degli artt. 3 e 24 Cost.
Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di cinque persone, imputate del reato di associazione per delinquere costituita allo scopo di commettere reati tributari e fallimentari, nonché, in concorso tra loro e con altri soggetti, dei delitti tributari di cui agli artt. 2, 4, 8 e 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000 e del delitto di bancarotta fraudolenta impropria.
Il rimettente riferisce, altresì, che nel corso dell’udienza preliminare i difensori degli imputati avevano chiesto l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, subordinando la richiesta alla concessione della sospensione condizionale. Il pubblico ministero aveva negato, peraltro, il proprio consenso: quanto a tre degli imputati, perché aveva ritenuto non congrua la pena richiesta in considerazione della gravità e pluralità delle contestazioni e, comunque, per le preclusioni stabilite dagli artt. 12, comma 2-bis, e 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000; quanto agli altri due imputati, perché, pur apparendo la pena congrua, la richiesta trovava ostacolo nelle predette preclusioni.
Recependo l’eccezione formulata dai difensori, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale delle citate disposizioni.
Ad avviso del rimettente, le questioni sarebbero rilevanti, dovendo egli fare applicazione delle norme censurate al fine di decidere sulle richieste di “patteggiamento”.
Quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva che il comma 2-bis dell’art. 12 del d.lgs. n. 74 del 2000 vieta di concedere la sospensione condizionale della pena per i delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto legislativo, quando l’ammontare dell’imposta evasa sia superiore – congiuntamente – al trenta per cento del volume d’affari e a tre milioni di euro.
In questo modo, il legislatore avrebbe stabilito una rigida preclusione alla fruizione di un istituto che «assume un ruolo centrale nelle scelte repressive». La sospensione condizionale avrebbe, infatti, da tempo perduto le sue originarie connotazioni “clemenziali”, per trasformarsi in uno strumento che permette di valutare la necessità o meno di applicare, nel caso concreto, la pena inflitta, nella prospettiva di garantire le migliori condizioni per il recupero sociale del condannato. Al tempo stesso, la perpetuazione della minaccia di detta pena (attraverso la previsione della possibile revoca della sospensione) e i contenuti positivi della misura (costituiti dalle condizioni cui la sospensione può essere assoggettata) conferirebbero alla sospensione condizionale i tratti di una vera e propria «pena alternativa».
Con la norma censurata, il legislatore avrebbe inteso sostituire le proprie valutazioni alla discrezionalità giudiziale, nella prospettiva di far apparire certa l’esecuzione della pena nei confronti degli autori di delitti tributari che implichino un’evasione di imposta di ammontare superiore ai due limiti stabiliti (proporzionale e fisso).
Per tal verso, la disposizione censurata violerebbe anzitutto l’art. 3 Cost., giacché la scelta di sottoporre i reati tributari ad un trattamento più rigoroso di quello riservato alla generalità degli altri reati si paleserebbe irragionevole.
Se pure è vero che la «diffusa pratica dell’evasione fiscale» genera un notevole allarme sociale, l’illecito penale tributario non presenterebbe comunque caratteristiche tali da giustificare un regime differenziato, quanto alle condizioni ostative della sospensione condizionale. Si tratterebbe, infatti, di un reato contro il patrimonio, qualificato dell’ulteriore disvalore connesso alla violazione di un dovere che rappresenta un aspetto di rilievo dell’«appartenenza sociale», quale quello di osservanza degli obblighi tributari. Non per questo solo, tuttavia, i reati tributari risulterebbero meritevoli di un trattamento più severo di quello che la legge riserva ad altri reati contro il patrimonio pubblico, parimenti caratterizzati da un tratto di infedeltà, semmai ancora più pregnante: quali, ad esempio, i delitti di peculato o di malversazione, per i quali non sono previste analoghe disposizioni.
La disposizione censurata violerebbe, altresì, l’art. 25, secondo comma, Cost., imponendo l’adozione di un trattamento punitivo suscettibile di infrangere il rapporto di proporzione tra la pena e il fatto commesso.
Il legislatore avrebbe, infatti, attribuito «una rilevanza preponderante e vincolante», ai fini dell’accesso alla sospensione condizionale, ad alcuni soltanto tra i criteri di adeguamento della pena al caso concreto enunciati dall’art. 133 del codice penale e richiamati dall’art. 164, primo comma, del medesimo codice (il rapporto tra evasione e volume d’affari rientrerebbe tra le «modalità della condotta», mentre l’entità dell’evasione atterrebbe alla misura del danno). Al contrario, solo tenendo conto di tutti gli elementi di cui al citato art. 133 cod. pen. sarebbe possibile apprezzare il disvalore del singolo episodio criminoso. Potrebbe accadere, di conseguenza – come nel caso di specie – che soggetti i quali hanno agito in circostanze di tempo o di luogo del tutto peculiari, o ai quali si può comunque muovere un «rimprovero [...] minimo» sul piano della colpevolezza, si vedano preclusa la concessione della sospensione condizionale della pena, che pure tutti gli altri fattori indicherebbero come la soluzione più adeguata.
La norma denunciata si porrebbe in contrasto, ancora, con il principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), in quanto collegherebbe il trattamento punitivo, sotto il profilo della concessione della sospensione condizionale, alla sola rilevanza del danno, anziché al «rimprovero soggettivo» che può essere mosso all’agente. La soluzione legislativa apparirebbe particolarmente censurabile in casi quale quello di specie, nel quale sarebbe la stessa imputazione a rivelare come alcuni degli imputati meritino un rimprovero solo «marginale», avendo agito come prestanomi inconsapevoli di un altro soggetto (imputato in un procedimento separato), che avrebbe determinato i contenuti delle dichiarazioni fiscali sfruttando la propria posizione dominante.
Impedendo l’esecuzione penitenziaria di una pena pure rientrante nei limiti che ne consentirebbero la sospensione condizionale ed inflitta ad un soggetto incensurato, nei cui confronti sia possibile formulare una prognosi favorevole sul piano dell’astensione dalla reiterazione delle condotte criminose, la disposizione sottoposta a scrutinio comprometterebbe, infine, la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.). Essa sancirebbe, in sostanza, una presunzione assoluta non rispondente all’id quod plerumque accidit e, perciò, irrazionale e arbitraria: presunzione che colliderebbe, altresì, con le costanti indicazioni della giurisprudenza costituzionale, al lume delle quali la funzione rieducativa della pena e la risocializzazione del condannato devono esplicarsi sulla base di criteri individualizzanti e non di rigidi automatismi.
Per quanto attiene, poi, al comma 2-bis dell’art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000, detta disposizione stabilisce che, per i delitti di cui al medesimo decreto legislativo, «l’applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra la circostanza attenuante di cui ai commi 1 e 2» dello stesso art. 13, e cioè solo nel caso di estinzione mediante pagamento dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti.
A parere del giudice a quo, la norma violerebbe l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti imputati del medesimo reato, a seconda delle rispettive condizioni economiche.
Violerebbe, altresì, l’art. 24 Cost., limitando il diritto di difesa dell’imputato non abbiente, il quale si vedrebbe precluso l’accesso al rito speciale esclusivamente per motivi legati alla propria condizione di impossidenza.
2.– È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
Secondo la difesa dello Stato, le questioni sarebbe inammissibili per difetto di rilevanza. Nella specie, il pubblico ministero non ha prestato il proprio consenso al “patteggiamento”: circostanza che priverebbe il giudice rimettente, in quanto giudice dell’udienza preliminare, di un autonomo potere di valutazione della richiesta formulata dall’imputato. Ai sensi dell’art. 448 cod. proc. pen., tale potere compete, infatti, unicamente al giudice del dibattimento, davanti al quale la richiesta potrà essere reiterata; detto giudice, inoltre, ove il pubblico ministero ribadisca il proprio dissenso, potrà provvedere solo all’esito del dibattimento stesso.
Le questioni sarebbero comunque inammissibili per «difetto di autosufficienza» dell’ordinanza di rimessione e omessa motivazione sulla rilevanza, non avendo il rimettente chiarito con riferimento a quali degli imputati e delle numerose imputazioni l’applicazione delle norme in esame sia indispensabile ai fini della decisione.
In relazione a tre degli imputati, il pubblico ministero non ha, infatti, prestato il consenso perché ha ritenuto non congrua la pena richiesta, richiamando solo in aggiunta la preclusione stabilita dalle norme censurate. Riguardo agli altri due imputati, il giudice a quo non avrebbe, d’altra parte, valutato se e a quali delle plurime condotte criminose loro ascritte le norme in esame siano applicabili ratione temporis. Ai sensi del comma 36-vicies bis dell’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011, dette norme si applicano solo ai fatti successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del medesimo decreto, ossia al 16 (recte: 17) settembre 2011: laddove, invece, molte delle imputazioni indicano una data di commissione del reato anteriore.
Da ultimo, il rimettente avrebbe omesso di verificare se, nelle fattispecie concrete, risulti effettivamente superata la doppia soglia di applicabilità prevista dalla prima delle due norme denunciate (art. 12, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000).
Nel merito, le questioni sarebbero comunque infondate.
Quanto alla questione relativa al citato art. 12, comma 2-bis, insussistente risulterebbe, anzitutto, la dedotta violazione dell’art. 3 Cost.
Rigettando una questione di legittimità costituzionale formulata in modo analogo, concernente le esclusioni oggettive dal cosiddetto “patteggiamento allargato” (art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen.), la Corte costituzionale ha già avuto modo di rilevare che il legislatore, per ragioni di politica criminale, può bene riconnettere al titolo del reato – e non (o non soltanto) al livello della pena edittale – l’applicabilità di un trattamento sostanziale o processuale più rigoroso. In tali ipotesi, l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare alla disciplina più severa – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati – «resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione» (ordinanza n. 455 del 2006).
Nella specie, la previsione di un trattamento più rigoroso per i reati tributari, in un momento di congiuntura economica «particolarmente drammatico», non risulterebbe affatto irrazionale o arbitraria. Lo stesso rimettente dà atto, del resto, del particolare allarme sociale generato da tale categoria di reati, cui andrebbe ad aggiungersi la rilevanza del danno da essi arrecato al sistema economico nazionale nel suo complesso: fattori che giustificherebbero un trattamento differenziato rispetto ad un istituto, quale la sospensione condizionale della pena, che conserverebbe comunque una connotazione “clemenziale”.
Infondata sarebbe anche la censura di violazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., sotto il profilo dell’asserita rottura del rapporto di proporzione tra risposta punitiva e fatto commesso.
La disposizione denunciata preclude, infatti, la concessione della sospensione condizionale della pena in presenza di due condizioni economicamente significative, la cui ricorrenza congiunta consentirebbe ragionevolmente di presumere che la condotta illecita non rappresenti una «devianza occasionale» del reo, ma «una percentuale importante del complesso degli affari da questo gestiti, o alla cui gestione concorre». La soglia di tipo proporzionale, ragguagliata all’incidenza dell’imposta evasa sul volume di affari, garantirebbe, in specie, l’adeguamento del trattamento sanzionatorio al fatto commesso, con riguardo alle condizioni soggettive del colpevole.
L’applicazione della sospensione condizionale non è, d’altra parte, rimessa alla totale discrezionalità del giudice, ma ad una discrezionalità da esercitare nel rispetto di parametri prefissati dal legislatore. Tali parametri possono essere indicati con maggiore o minore grado di dettaglio: nella stessa disciplina codicistica, a fianco di disposizioni molto generali, quale l’art. 133 cod. pen., che indica gli elementi da cui desumere la gravità del reato, ve ne sono altre maggiormente puntuali, quali quelle che precludono la concessione del beneficio al delinquente o contravventore abituale o professionale (art. 164, secondo comma, cod. pen.). La disposizione speciale in esame non farebbe, in effetti, che individuare con maggior dettaglio gli elementi per desumere la gravità del reato presi in considerazione dal citato art. 133 cod. pen., ponendosi, con ciò, quale espressione del normale rapporto tra la discrezionalità dell’organo giudiziario e quella del legislatore.
Quanto, poi, alla dedotta violazione del principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, primo comma, Cost.), la questione sarebbe inammissibile, in quanto il rimettente avrebbe omesso di «contestualizzare» il dubbio di costituzionalità, specificando quali fra gli imputati nel giudizio a quo avrebbero assunto il ruolo di «prestanome inconsapevole»: evenienza che apparirebbe, peraltro, smentita dalle indicazioni contenute nei capi di imputazione.
La censura sarebbe, ad ogni modo, infondata. Un soggetto che abbia agito in modo «inconsapevole» non potrebbe essere, infatti, condannato per i reati tributari previsti dagli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, i quali richiedono tutti il dolo specifico di evasione delle imposte. Inoltre, le elevate soglie quantitative previste dalla norma censurata renderebbero altamente improbabile che possa ipotizzarsi una situazione di partecipazione inconsapevole o di «rimprovero marginale» dell’autore del fatto.
Le precedenti considerazioni escluderebbero, da ultimo, anche la configurabilità della dedotta violazione della finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.).
Parimenti infondata sarebbe la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000, che subordina l’accesso al rito speciale di cui all’art. 444 cod. proc. pen. al pagamento dei debiti tributari.
Tanto la disposizione generale dell’art. 165 cod. pen. che numerose norme speciali – in particolare, in materia ambientale – prevedono che la sospensione condizionale sia subordinata alla riparazione del danno, senza per ciò essere ritenute contrastanti con il principio di eguaglianza. In base al citato art. 165, d’altra parte, l’imposizione della condizione dell’adempimento degli obblighi di restituzione e risarcimento del danno è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice solo in occasione della prima concessione del beneficio, divenendo obbligatoria ove esso sia accordato una seconda volta: e ciò senza neppure il temperamento precedentemente insito nella formula «salvo che ciò sia impossibile», soppressa dalla legge 11 giugno 2004, n. 145 (Modifiche al codice penale e alle relative disposizioni di coordinamento e transitorie in materia di sospensione condizionale della pena e di termini per la riabilitazione del condannato).
La disposizione risponde pacificamente ad una finalità specialpreventiva sia sotto il profilo negativo, dissuadendo l’autore del fatto dalla commissione di ulteriori reati sotto la minaccia di oneri personali o patrimoniali, sia sotto il profilo positivo, giacché l’onere imposto al reo contribuisce a ricostituire il rapporto di fiducia tra il soggetto e la collettività. La norma contribuisce, così, a rafforzare l’efficacia preventiva e rieducativa della pena sottesa alla disciplina della sospensione condizionale, realizzando il principio costituzionale di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.
La Corte costituzionale ha, d’altra parte, escluso che la norma violi il principio di eguaglianza, osservando come le disposizioni che impongono un onere economico per il raggiungimento di determinati fini comportano, inevitabilmente, una diversa possibilità di utilizzazione secondo la diversa condizione economica dei soggetti che quei fini si propongono di conseguire. L’interesse all’eliminazione del danno e al ravvedimento del reo rappresentano, peraltro, valori costituzionali atti a giustificare ragionevolmente la disparità di trattamento (sentenza n. 49 del 1975).
In materia di reati tributari, vi sarebbe, poi, una diretta correlazione tra entità del danno cagionato e potenzialità economiche del reo, posto che l’arricchimento degli autori del reato è esattamente corrispondente all’imposta sottratta al fisco. Sarebbe, dunque, ragionevole ipotizzare, in via generale, che l’evasore disponga, o abbia avuto la possibilità di disporre, delle risorse economiche per il risarcimento del danno.
D’altro canto, subordinare la condizione dell’adempimento dell’obbligo tributario alla valutazione delle disponibilità economiche del reo equivarrebbe a rendere inapplicabile la norma. L’evasione di imposta è, infatti, sempre più spesso realizzata da soggetti «avveduti», che non risultano formalmente proprietari di beni, e con modalità che prevedono lo svuotamento del «veicolo societario» utilizzato. L’autorità giudiziaria non sarebbe, quindi, in grado di accertare la reale consistenza del patrimonio del reo, se non a mezzo di ulteriori indagini: con la conseguenza che, nell’accesso al rito speciale, rimarrebbero avvantaggiati proprio i soggetti più callidi, che presentano una maggiore pericolosità sociale.
Considerato in diritto
1.– Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di La Spezia dubita della legittimità costituzionale di due disposizioni in materia penale tributaria, introdotte dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in sede di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo).
I dubbi investono, in primo luogo, l’art. 12, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del citato d.l. n. 138 del 2011, come convertito, in forza del quale l’istituto della sospensione condizionale della pena non si applica ai delitti previsti dagli articoli da 2 a 10 del medesimo decreto legislativo, quando l’ammontare dell’imposta evasa superi – congiuntamente – il trenta per cento del volume d’affari e tre milioni di euro.
La norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione, sottoponendo i reati tributari considerati ad un trattamento irragionevolmente più severo di quello riservato alla generalità degli altri reati, ivi compresi taluni delitti contro il patrimonio pubblico con tratti di infedeltà ancora più accentuati, quali il peculato e la malversazione, per i quali non sono previste analoghe preclusioni.
La disposizione denunciata si porrebbe, altresì, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., in quanto impedirebbe al giudice di valutare la concreta gravità del reato, ai fini della concessione della sospensione condizionale, sulla base di tutti gli elementi indicati dall’art. 133 del codice penale, rompendo così il rapporto di proporzionalità fra la risposta punitiva e il fatto commesso.
Violerebbe, ancora, l’art. 27, primo comma, Cost., perché collegherebbe il trattamento sanzionatorio alla sola rilevanza del danno causato dal reato, anziché al «rimprovero soggettivo» che può essere mosso all’agente, in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale.
Comprometterebbe, infine, la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), imponendo un trattamento punitivo che può risultare, in concreto, inadeguato e desocializzante.
Il rimettente censura, in secondo luogo, l’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del d.l. n. 138 del 2011, ove si stabilisce che, per i delitti di cui al medesimo decreto legislativo, l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale può essere chiesta dalle parti solo qualora ricorra la circostanza attenuante di cui ai commi 1 e 2 dello stesso art. 13, e cioè solo nel caso di estinzione, mediante pagamento, dei debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei predetti delitti.
La previsione violerebbe tanto l’art. 3 Cost., determinando una irragionevole disparità di trattamento tra soggetti imputati del medesimo reato, a seconda delle loro condizioni economiche; quanto l’art. 24 Cost., limitando il diritto di difesa dell’imputato non abbiente, il quale vedrebbe precluso l’accesso al rito speciale esclusivamente per motivi legati alla propria condizione di impossidenza.
2.– Invertendo l’ordine di prospettazione del rimettente, deve essere esaminata per prima – in quanto logicamente pregiudiziale – la questione afferente alla limitazione del “patteggiamento” prevista dall’art. 13, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000.
Nel caso di specie, il giudice a quo si trova, infatti, a dover decidere sulla richiesta di applicazione della pena formulata dagli imputati di plurimi reati tributari (oltre che di altri delitti): richiesta subordinata alla concessione della sospensione condizionale (art. 444, comma 3, cod. proc. pen.). Il primo punto da chiarire, perciò, è se il “patteggiamento” sia ammesso in relazione ai reati per cui si procede. Solo se si risponda affermativamente a tale quesito ci si potrà interrogare sulla realizzabilità della condizione cui la richiesta è subordinata.
3.– Con riguardo alla questione concernente il citato art. 13, comma 2-bis, le eccezioni di inammissibilità formulate dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.
Quanto all’eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza – connessa al fatto che, nella specie, il pubblico ministero non ha prestato il consenso alla richiesta di applicazione della pena – vale il rilievo che, alla luce di quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, almeno rispetto a due dei cinque imputati nel giudizio a quo, il dissenso è stato motivato unicamente con le preclusioni stabilite dalle norme censurate. Rimosse queste ultime, l’opposizione del rappresentante della pubblica accusa – non sindacabile dal rimettente, in quanto giudice dell’udienza preliminare – verrebbe automaticamente meno e la richiesta potrebbe essere quindi accolta.
Egualmente infondata è l’eccezione di difetto di motivazione sulla rilevanza, per non avere il rimettente specificato a quali, fra i numerosi reati contestati, le norme censurate siano applicabili ratione temporis. La richiesta di applicazione della pena proposta dagli imputati investe, infatti, tutte le imputazioni cumulativamente formulate nei loro confronti. Basta, perciò, che la preclusione censurata operi in rapporto ad una sola di esse perché la richiesta divenga inaccoglibile. E tale condizione certamente sussiste, posto che – alla luce dei capi di imputazione riprodotti nell’ordinanza di rimessione – buona parte dei reati tributari per cui si procede risultano commessi dopo il 17 settembre 2011 (data a partire dalla quale la denunciata limitazione del “patteggiamento” è divenuta operante, ai sensi dell’art. 2, comma 36-vicies bis, del d.l. n. 138 del 2011).
4.– Nel merito, la questione è infondata.
Con la norma sottoposta a scrutinio, il legislatore ha introdotto una esclusione oggettiva dal “patteggiamento”, riferita alla generalità dei delitti in materia tributaria previsti dal d.lgs. n. 74 del 2000: esclusione che si affianca alle numerose esclusioni oggettive dal cosiddetto “patteggiamento allargato” – ossia dal patteggiamento per una pena detentiva compresa tra i due e i cinque anni – già previste dall’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen.
Nel negare l’illegittimità costituzionale di tali esclusioni, questa Corte ha rilevato come rientri nella discrezionalità del legislatore riconnettere al titolo del reato, e non (o non soltanto) al livello della pena edittale, un trattamento più rigoroso, quanto all’accesso al rito alternativo: discrezionalità il cui esercizio – in quanto basato su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati – è sindacabile solo ove decampi nella manifesta irragionevolezza e nell’arbitrio, come avviene quando le scelte operate determinino inaccettabili sperequazioni tra figure criminose omogenee (ordinanza n. 455 del 2006). Censura, questa, peraltro non mossa dal rimettente alla norma in esame.
Nel frangente, il legislatore ha inteso rimuovere la preclusione solo quando ricorra una circostanza attenuante speciale collegata alla riparazione dell’offesa causata dal reato, qual è quella delineata dai commi 1 e 2 dello stesso art. 13 del d.lgs. n. 74 del 2000: vale a dire, solo se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti considerati siano stati «estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie».
Il giudice a quo reputa tale soluzione normativa incompatibile con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto generativa di una disparità di trattamento fra imputati del medesimo reato in ragione delle loro condizioni economiche e, al tempo stesso, di una limitazione del diritto di difesa dei non abbienti. Solo chi abbia la “forza economica” per pagare – tempestivamente e compiutamente – il debito tributario ha, infatti, la possibilità di accedere al rito alternativo e al connesso sconto di pena.
L’assunto – sulla cui base il rimettente chiede la rimozione integrale della norma preclusiva – non può essere condiviso.
Questa Corte ha già escluso – con risalente decisione – i vulnera costituzionali denunciati in rapporto alla circostanza attenuante comune del risarcimento del danno, di cui all’art. 62, numero 6), prima parte, del codice penale, rispetto alla quale quella tributaria si pone in rapporto di specialità (sentenza n. 111 del 1964, le cui affermazioni sono state successivamente ribadite dalla sentenza n. 49 del 1975, con riguardo alla possibilità di subordinare la sospensione condizionale della pena alla riparazione del danno).
Nell’occasione, la Corte ha rilevato che qualunque norma che imponga oneri patrimoniali per il raggiungimento di determinati fini risulta diversamente utilizzabile a seconda delle condizioni economiche dei soggetti interessati a conseguirli. Non per questo solo, tuttavia, essa è costituzionalmente illegittima. Ciò avviene esclusivamente in due ipotesi: da un lato, quando ne risulti compromesso l’esercizio di un diritto che la Costituzione garantisce a tutti paritariamente (quale il diritto di azione e difesa in giudizio, come avveniva per i vecchi istituti del solve et repete e della cautio pro expensis: sentenze n. 21 del 1961 e n. 67 del 1960); dall’altro, quando gli oneri imposti non risultino giustificati da ragioni connesse a circostanze obiettive, così da determinare irragionevoli situazioni di vantaggio o svantaggio.
È del tutto evidente come questa seconda ipotesi non ricorra nel caso in esame. Il generale interesse pubblico (oltre che della persona offesa) all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato, anche per il suo valore sintomatico del processo di ravvedimento del reo – interesse che giustifica le disparità di trattamento indotte dal citato art. 62, numero 6), prima parte, cod. pen. (sentenza n. 111 del 1964) – si coniuga, infatti, nel frangente, allo specifico interesse alla integrale riscossione dei tributi evasi.
Ma neppure ricorre la prima ipotesi: e ciò ancorché l’onere patrimoniale imposto dalla norma censurata incida – tramite il richiamo all’anzidetta circostanza attenuante – sulla fruizione di un istituto che, a differenza di questa, non ha natura esclusivamente sostanziale, ma “ibrida” (processuale-sostanziale), quale il “patteggiamento”; rito alternativo cui si collega, in funzione incentivante, la possibilità di beneficiare di una consistente riduzione della pena (fino a un terzo: art. 444, comma 1, cod. proc. pen.).
È ben vero che, per reiterata affermazione di questa Corte, la facoltà di chiedere i riti alternativi – quando è riconosciuta – costituisce una modalità, tra le più qualificanti ed incisive (sentenze n. 237 del 2012 e n. 148 del 2004), di esercizio del diritto di difesa (ex plurimis, sentenze n. 273 del 2014, n. 333 del 2009 e n. 219 del 2004).
Ma è altrettanto vero che la negazione legislativa di tale facoltà in rapporto ad una determinata categoria di reati non vulnera il nucleo incomprimibile del predetto diritto. La facoltà di chiedere l’applicazione della pena non può essere evidentemente considerata una condicio sine qua non per un’efficace tutela della posizione giuridica dell’imputato, tanto è vero che essa è esclusa per un largo numero di reati: tutti quelli per i quali non può essere inflitta, in concreto, una pena detentiva contenuta entro il limite generale di fruibilità dell’istituto (cinque anni di pena detentiva, ovvero due, rispetto ai reati esclusi dal “patteggiamento allargato”); tutti quelli di competenza del tribunale per i minorenni e del giudice di pace (art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448, recante «Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni», e art. 2, comma 1, lettera g, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»: sulla legittimità costituzionale di tali esclusioni, sentenza n. 135 del 1995; ordinanze n. 28 del 2007, n. 312 e n. 228 del 2005).
La stessa attenuante comune del risarcimento del danno può, del resto, condizionare la fruibilità del “patteggiamento”, quante volte il suo riconoscimento risulti concretamente indispensabile per far scendere la pena detentiva al di sotto del limite dei cinque anni (ovvero dei due anni, quanto ai reati esclusi dal “patteggiamento allargato”).
Si aggiunga che, come evidenziato dalla difesa dello Stato, con riguardo ai reati tributari vi è, di regola – anche se non immancabilmente – una diretta correlazione tra entità del danno cagionato e risorse economiche del reo (ove questi si identifichi nel contribuente persona fisica), o da lui comunque gestite (ove si tratti dell’amministratore o del liquidatore di società o enti), posto che il profitto conseguente al reato corrisponde all’imposta sottratta al fisco. Si tratta di una situazione analoga, mutatis mutandis, a quella riscontrabile in rapporto al delitto di insolvenza fraudolenta, di cui all’art. 641 cod. pen., rispetto al quale l’adempimento dell’obbligazione ha addirittura effetti estintivi del reato.
5.– La riscontrata infondatezza della questione inerente alla preclusione del “patteggiamento” rende inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione relativa al divieto di concessione della sospensione condizionale della pena per i delitti di cui agli articoli da 2 a 10 del d.lgs. n. 74 del 2000, sancita dal censurato art. 12, comma 2-bis, del medesimo decreto.
La richiesta presentata dagli imputati nel giudizio a quo va, infatti, comunque disattesa per la pregiudiziale ragione che il “patteggiamento” non è consentito in rapporto ai reati per cui si procede: di modo che l’eventuale rimozione dell’ostacolo alla concessione della sospensione condizionale, cui la richiesta è subordinata, rimarrebbe del tutto ininfluente sulla decisione che il rimettente è chiamato ad adottare.
Resta con ciò assorbita l’eccezione di inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in correlazione all’asserita mancata verifica, da parte del rimettente, dell’avvenuto superamento, nelle singole fattispecie contestate, delle soglie quantitative cui è subordinata l’applicabilità della norma censurata.
Per Questi Motivi
la Corte Costituzionale
1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera m), del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di La Spezia con l’ordinanza indicata in epigrafe;
2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 2-bis, del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall’art. 2, comma 36-vicies semel, lettera h), del d.l. n. 138 del 2011, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 148 del 2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di La Spezia con la medesima ordinanza.
Studio Legale Sugamele
Fonte: http://www.lalegge.org/
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