mercoledì 2 dicembre 2009 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli
Ordinanza con la quale il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani, Dr.ssa Maria Antonietta La Notte Chirone, ha sollevato una questione di pregiudizialità comunitaria in ordine all'art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001 (in tema di contratto a termine).
TRIBUNALE DI TRANI
SEZIONE LAVORO
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani, dott.ssa Maria Antonietta La Notte Chirone, a scioglimento della riserva del 23/11/2009, nella causa iscritta al numero 4105/A/2009 R.G., pendente tra VINO Cosimo Damiano (avv. Domenico Carpagnano) e la s.p.a. Poste Italiane (Prof. Avv. Raffaele De Luca Tamajo), ha pronunciato la seguente ordinanza:
FATTO
1. Con domanda del 29/7/2009, VINO Cosimo Damiano ha convenuto in giudizio la s.p.a. Poste Italiane ed ha richiesto l’accertamento dell’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro sottoscritto il 28 marzo 2008, “ai sensi dell’art. 2 comma 1 bis del D.lgs. n. 368/2001 così come modificato dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266”, in forza del quale ha lavorato presso l’Ufficio Postale di Trani, con la qualifica di portalettere junior, dal 1° aprile 2008 al 31 maggio 2008, deducendo, a sostegno della sua domanda, l’inapplicabilità di quella disposizione di legge, perché non conforme alla normativa interna e comunitaria.
2. Costituitasi in giudizio, la società convenuta ha contestato la fondatezza del ricorso, concludendo per il rigetto dello stesso.
DIRITTO
3. La s.p.a. Poste Italiane ha assunto a termine il ricorrente e l’ha adibito a mansioni di portalettere junior presso l’Ufficio Postale di Trani “ai sensi dell’art. 2 comma 1 bis del D. Lgs. n. 368/2001 così come modificato dalla legge 23 dicembre 2005, n. 266”.
4. Detta norma, introdotta dall’art. 1, comma 558, della L. n. 266/2005, ha esteso, a partire dal 1° gennaio 2006, alle “imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste”, la possibilità di apporre “un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato” (già prevista dal 1° comma per le “aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ...per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci”), “per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono”), dispensando, in tal modo, la società convenuta (quale impresa concessionaria di servizi nel settore delle poste) dall’onere di indicare (tanto nel contratto, quanto nel processo), le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” richieste, in via generale, dall’art. 1 del D. Lgs. 368/2001 (che, in esecuzione della legge comunitaria n. 422 del 29/12/2000, ha dato attuazione alla Direttiva 1999/70/CE, relativa all’Accordo Quadro per la stipula dei contratti di lavoro a tempo determinato concluso dall’UNICE, dal CEEP e dal CES): in sostanza, l’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001 ha introdotto, nell’ordinamento giuridico interno, una fattispecie di contratto a termine “acausale”, legata alla mera qualità del datore di lavoro.
5. Lo scrivente ritiene che questa disposizione costituisca una palese violazione della clausola n. 8.3 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE, secondo cui “gli Stati membri e/o le parti sociali” possono “mantenere o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle stabilite nel presente accordo” e “l’applicazione del(l‘) …accordo non” può mai costituire “un motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell’ambito coperto dall’accordo stesso” (c.d. clausola di non regresso).
6. Per meglio intendere le ragioni di siffatto convincimento, questo giudice ritiene opportuno, per quel che qui rileva, ricostruire il quadro normativo di riferimento.
7. Originariamente, l’assunzione a tempo determinato, nell’ordinamento italiano, era disciplinata dalla L. n. 230/1962, che, all’art. 1, dopo aver affermato che “il contratto di lavoro si reputa(va) a tempo indeterminato” (1° comma), si premurava di indicare in maniera dettagliata le eccezioni a questa regola, specificando che sarebbe stata “consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto” solo:
“a ) quando ciò” fosse stato “richiesto dalla speciale natura dell'attività lavorativa derivante dal carattere stagionale della medesima;
b) quando l'assunzione” avesse avuto “luogo per sostituire lavoratori assenti e per i quali sussiste(sse) il diritto alla conservazione del posto, semprechè nel contratto di lavoro a termine” fosse stato “indicato il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione;
c) quando l'assunzione” avesse avuto “luogo per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario od occasionale;
d) per le lavorazioni a fasi successive che” avessero richiesto “maestranze diverse, per specializzazioni, da quelle normalmente impiegate e limitatamente alle fasi complementari od integrative per le quali non vi” fosse stata “continuità di impiego nell'ambito dell'azienda;
e) nelle scritture del personale artistico e tecnico della produzione di spettacoli” (2° comma).
8. Punti salienti della L. n. 230/1962 erano, inoltre, quelli per cui:
a) “l'apposizione del termine” era “priva di effetto se non” fosse “risulta(ta) da atto scritto” (art. 1, comma 3);
b) “copia dell'atto scritto” dovesse “essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore” (art. 1, comma 4), salvo che “la durata del rapporto di lavoro puramente occasionale non” fosse stata “superiore a dodici giorni lavorativi” (nel qual caso non sarebbe stata neppure necessaria “la scrittura”) (art. 1, comma 5);
c) “il termine del contratto a tempo determinato” avrebbe potuto “essere, con il consenso del lavoratore, eccezionalmente prorogato, non più di una volta e per un tempo non superiore alla durata del contratto iniziale, quando la proroga” fosse stata “richiesta da esigenze contingenti ed imprevedibili e si” fosse riferita “alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto” era “stato stipulato a tempo determinato, ai sensi del secondo comma dell'articolo precedente” (art. 2, 1° comma);
d) “se il rapporto di lavoro” fosse “continua(to) dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, il contratto” sarebbe stato “considera(to) a tempo indeterminato fin dalla data della prima assunzione del lavoratore” e “il contratto” sarebbe stato “considera(to) egualmente a tempo indeterminato quando il lavoratore” fosse stato “riassunto a termine entro un periodo di quindici ovvero trenta giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi e, in ogni caso, quando si” fosse trattato “di assunzioni successive a termine intese ad eludere le disposizioni della presente legge” (art. 2, 2° comma);
e) “l'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle condizioni che giustifica(va)no sia l'apposizione di un termine al contratto di lavoro sia l'eventuale temporanea proroga del termine stesso” era “a carico del datore di lavoro” (art. 3);
f) era “consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purchè di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti amministrativi e tecnici, i quali” avrebbero potuto, “comunque, recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione dell'art. 2118 del Codice civile” (art. 4);
g) “al prestatore di lavoro, con contratto a tempo determinato, spetta(va)no le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori regolamentati con contratto a tempo indeterminato, in proporzione al periodo lavorativo prestato, sempre che non” fosse stato “obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine” e, “alla scadenza del contratto”, avrebbe dovuto essere “corrisposto al lavoratore un premio di fine lavoro proporzionato alla durata del contratto stesso, e pari alla indennità di anzianità prevista dai contratti collettivi” (art. 5);
h) erano, infine, “esclusi dalla disciplina della presente legge i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e salariati fissi comunque denominati, regolati dalla legge 15 agosto 1949, n. 533, e successive modificazioni” (art. 6).
9. Per completezza di disamina (in quanto qui non rileva, se non nei ristretti limiti di cui si dirà appresso), va aggiunto che, successivamente, in forza dell’art. 23 della L. n. 56 del 28 febbraio 1987:
a) “l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro” è stata anche “consentita nelle ipotesi individuate nei contratti collettivi di lavoro stipulati con i sindacati nazionali o locali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” (che, a loro volta, avrebbero dovuto, però, stabilire “il numero in percentuale dei lavoratori che” avrebbero potuto “essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”) (comma 1);
b) “i lavoratori che” avessero “prestato attività lavorative con contratto a tempo determinato nelle ipotesi previste dall'art. 8- bis del decreto-legge 29 gennaio 1983, n. 17, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 marzo 1983, n. 79”, avrebbero avuto “diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda, con la medesima qualifica quando per questa” fosse stata “obbligatoria la richiesta numerica e a condizione che” avessero manifestato “la volontà di esercitare tale diritto entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro” (2° comma).
10. Come risulta dalle produzioni attoree, all’atto della stipula dei contratti collettivi del 26/11/1994 e dell’11/1/2001, le parti sociali, se, da un lato, hanno autorizzato le Poste ad assumere a tempo determinato anche in ipotesi non riconducibili alle fattispecie disciplinate dall’art. 1 della L. n.230/1962, dall’altro, hanno ritenuto equo, però, limitare il ricorso al contratto a termine ad una percentuale massima, pari, nel primo CCNL, al “10% rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato” e, nel secondo, su base regionale, addirittura al “5% del numero dei lavoratori in servizio alla data del 31 dicembre dell’anno precedente”, ritenendo queste percentuali assolutamente sufficienti a rispondere alle esigenze di flessibilità aziendale.
11. Così, in forza del combinato disposto della normativa legale e contrattuale innanzi richiamata, le Poste italiane, per assumere personale a tempo determinato, erano assoggettate ad un doppio sbarramento: non solo, infatti, ai fini della legittimità del termine, erano tenute ad osservare le regole valevoli per ogni altro datore di lavoro, ma anche quando c’erano le condizioni, legali e/o contrattuali, per fare ricorso a tale tipologia contrattuale, non erano abilitate a farne un uso eccessivo, dovendo comunque rimanere al di qua delle percentuali concordate con le OO.SS., in base ad una condivisa valutazione del grado di tollerabilità del lavoro flessibile, che tenesse parimenti (e giustamente) conto sia delle esigenze datoriali che di quelle dei lavoratori.
12. Con sentenza n. 4588 del 2/3/2006 (quando, cioè, come vedremo, questa normativa non era più in vigore), la Suprema Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha chiarito che l’art. 23 della L. n. 56/1987 aveva assegnato al sindacato un ruolo di primo piano nella “politica dell’impiego”, consentendogli di individuare delle ipotesi aggiuntive (rispetto a quelle già previste dalla legge) di legittima apposizione del termine ed ha concluso nel senso che “le assunzioni disposte ai sensi della L 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, che demanda(va) alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962 n. 230, art. 1 e successive modifiche, nonché dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis, convertito, con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizioni di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura(va) una vera e propria a favore dei sindacati, i quali, pertanto, senza essere vincolati alla individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste dalla legge”, potevano “legittimare il ricorso al contratto di lavoro a termine per causali di carattere ed anche - ... – per ragioni di tipo meramente , consentendo (vuoi in funzione di promozione dell’occupazione o anche di tutela delle fasce deboli di lavoratori) l’assunzione di speciali categorie di lavoratori, costituendo anche in questo caso l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i suddetti lavoratori e per una efficace salvaguardia dei loro diritti”.
13. In seguito, in attuazione della Direttiva 1999/70/CE e della legge delega n. 422 del 29/12/2000, è entrato in vigore il D. Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, il cui art. 11 ha abrogato espressamente “la Legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, …, l’articolo 23 della Legge 28 febbraio 1987, n. 56” (e cioè le norme di cui si è dato sintetico conto nei paragrafi che precedono), “nonché tutte le disposizioni di legge che” fossero state “comunque incompatibili e non ...espressamente richiamate nel presente decreto legislativo”.
14. Le Sezioni Unite della Cassazione, nella già richiamata sentenza n. 4588 del 2/3/2006, hanno precisato che, per effetto di siffatto mutato quadro normativo, si è tornati “a limitare le assunzioni a termine soltanto a quelle connesse a ragioni di carattere oggettivo ( ...)”, di tal che, se nella vigenza dell’art. 23 della L. 56/1987, “la fonte contrattuale” era “stata affiancata a quella legale per disciplinare l’attività imprenditoriale nella gestione della forza lavoro”, provocando un “rafforzamento del sindacato”, questo “ruolo” era “stato poi drasticamente ridotto dal D. Lgs. n. 368 del 2001, con relativa perdita di un effettivo controllo sul livello di flessibilizzazione presente in azienda”.
15. Dovendosi accertare come e se le regole del contratto a termine siano mutate per effetto della riforma dettata dal D. Lgs. 368/2001, è bene ribadire che questo provvedimento è stato adottato in attuazione della Direttiva 1999/70/CE del 28 giugno 1999, relativa all’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEP, nonché della Legge Delega 29/12/2000, n. 422.
16. Prima ancora che lo Stato italiano si conformasse alla direttiva comunitaria, la Corte costituzionale, con sentenza n. 41/2000, chiamata a pronunciarsi sulla legittimità di un referendum “radicale”, inteso a cancellare ogni tutela nella materia de qua, ha colto l’occasione per sottolineare che “la …direttiva concerne(va) specificamente il rapporto di lavoro a tempo determinato, e” recepiva“l'accordo-quadro stipulato al riguardo dalle parti sociali”; che “tale accordo richiede(va) che il termine apposto al contratto di lavoro” fosse “determinato da condizioni oggettive, quali il raggiungimento di una certa data, il completamento di un compito specifico o il verificarsi di un evento specifico” e “nel contempo dispone(va) che gli Stati membri, ove nella loro legislazione non” avessero “già (avuto) una normativa equivalente”,avrebbero dovuto, “non oltre il 10 luglio 2001, dettarne una diretta ad evitare l'abuso del contratto di lavoro a termine, mediante l'adozione di misure idonee ad individuare le ragioni obbiettive che” giustificassero “la sua rinnovazione, la durata massima dei contratti successivi, ed il numero di rinnovi possibili; nonché a stabilire quando i contratti a termine” dovessero “considerarsi e quando” dovessero convertirsi “in contratti a tempo indeterminato”.
17. “La menzionata direttiva” – secondo il giudice delle leggi – “dispone(va inoltre) che gli Stati membri” avrebbero dovuto “introdurre nei propri ordinamenti misure idonee a prevenire abusi in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, solo ”, con la conseguenza che, “negli Stati in cui tali norme” fossero già esistite, si sarebbe determinata “una situazione di anticipata conformazione dell'ordinamento interno a quello comunitario”.
18. Così, tenuto conto della normativa all’epoca vigente e di cui si è già dato sintetico conto, la Corte costituzionale perveniva alla conclusione che “l'ordinamento italiano risulta(va) anticipatamente conformato agli obblighi ...derivanti” dalla Direttiva 1999/70/CE.
19. Sebbene in forza di tale pronuncia del Giudice delle Leggi lo Stato italiano non fosse tenuto ad “intervenire” sulla normativa interna in tema di contratto di lavoro a tempo determinato, il Parlamento, con la legge n. 422 del 29 dicembre 2000 (“Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2000”), ha delegato il Governo a dare attuazione alla Direttiva comunitaria, stabilendo che, “salvi gli specifici princípi e criteri direttivi stabiliti negli articoli seguenti ed in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare, i decreti legislativi di cui all'articolo 1” avrebbero dovuto assicurare “in ogni caso che, nelle materie trattate dalle direttive da attuare, la disciplina disposta” fosse “pienamente conforme alle prescrizioni delle direttive medesime” (art.2).
20. Con il successivo D. Lgs. n. 368 del 9/9/2001, come si è già avuto modo di anticipare, l’Esecutivo ha abrogato “la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, l'articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l'articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56, nonché tutte le disposizioni di legge che” fossero state “comunque incompatibili e non” fossero state “espressamente richiamate nel ... decreto legislativo” (art. 11, 1° comma) ed ha ridisciplinato – nella sua intierezza - tale tipologia contrattuale, prevedendo:
all’art. 1 (“apposizione del termine”) che fosse “consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” (comma 1), che “l'apposizione del termine” sarebbe stata ritenuta “priva di effetto se non” fosse risultata, “direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale” fossero “specificate le ragioni di cui al comma 1” (comma 2), che “copia dell'atto scritto” dovesse “essere consegnata dal datore di lavoro al lavoratore entro cinque giorni lavorativi dall'inizio della prestazione” (comma 3) e che “la scrittura non” dovesse ritenersi “tuttavia necessaria quando la durata del rapporto di lavoro, puramente occasionale, non” fosse stata “superiore a dodici giorni” (comma 4);
all’art. 2 (“Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali”) che sarebbe stata “consentita l'apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato quando l'assunzione” fosse stata “effettuata da aziende di trasporto aereo o da aziende esercenti i servizi aeroportuali ed” avesse avuto “luogo per lo svolgimento dei servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri e merci, per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al quindici per cento dell'organico aziendale che, al 1 gennaio dell'anno a cui le assunzioni si” riferivano, fosse risultato “complessivamente adibito ai servizi sopra indicati. Negli aeroporti minori detta percentuale” avrebbe potuto “essere aumentata da parte delle aziende esercenti i servizi aeroportuali, previa autorizzazione della direzione provinciale del lavoro, su istanza documentata delle aziende stesse” e che, “in ogni caso, le organizzazioni sindacali provinciali di categoria” avrebbero dovuto riceversi “comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente articolo”;
all’art. 3 (“Divieti”) che “l'apposizione di un termine alla durata di un contratto di lavoro subordinato non” dovesse ritenersi “ammessa: a) per la sostituzione di lavoratori che” avessero esercitato “il diritto di sciopero”; “b) salva diversa disposizione degli accordi sindacali, presso unità produttive nelle quali si” fosse “proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, che” avessero “riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si” fosse riferito “il contratto di lavoro a tempo determinato, salvo che tale contratto” fosse stato “concluso per provvedere a sostituzione di lavoratori assenti, ovvero ...ai sensi dell'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, ovvero” avesse avuto “una durata iniziale non superiore a tre mesi”; “c) presso unità produttive nelle quali” fosse stata “operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell'orario, con diritto al trattamento di integrazione salariale, che” avesse interessato “lavoratori adibiti alle mansioni cui si” fosse riferito “il contratto a termine”; “d) da parte delle imprese che non” avessero “effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni”;
all’art. 4 (“Disciplina della proroga”) che “il termine del contratto a tempo determinato” avrebbe potuto “essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto” fosse stata “inferiore a tre anni. In questi casi la proroga” sarebbe stata “ammessa una sola volta e a condizione che” fosse stata “richiesta da ragioni oggettive e si” fosse riferita “alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto” era “stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non” avrebbe potuto “essere superiore ai tre anni” (comma 1) e che “l'onere della prova relativa all'obiettiva esistenza delle ragioni che giustifica(va)no l'eventuale proroga del termine stesso” avrebbe dovuto ritenersi “a carico del datore di lavoro” (comma 2);
all’art. 5 (“Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti”) che “se il rapporto di lavoro” fosse “continua(to) dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato ai sensi dell'articolo 4, il datore di lavoro” sarebbe stato “tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al venti per cento fino al decimo giorno successivo, al quaranta per cento per ciascun giorno ulteriore” (comma 1); che “se il rapporto di lavoro” fosse “continua(to) oltre il ventesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, ovvero oltre il trentesimo giorno negli altri casi, il contratto si” sarebbe “considera(to) a tempo indeterminato dalla scadenza dei predetti termini” (comma 2); che “qualora il lavoratore” fosse stato “riassunto a termine, ai sensi dell'articolo 1, entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto si” sarebbe “considera(to) a tempo indeterminato” (comma 3); che “quando si” fosse “tratta(to) di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si” sarebbe “considera(to) a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto” (comma 4);
all’art. 6 (“Principio di non discriminazione”) che “al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spetta(va)no le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell'impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non” fosse stato “obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine”;
all’art. 7 (“Formazione”) che “il lavoratore assunto con contratto a tempo determinato” avrebbe dovuto “ricevere una formazione sufficiente ed adeguata alle caratteristiche delle mansioni oggetto del contratto, al fine di prevenire rischi specifici connessi alla esecuzione del lavoro” (comma 1) e che “i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi” avrebbero potuto “prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l'accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale” (comma 2);
all’art. 8 (“Criteri di computo”) che, “ai fini di cui all'articolo 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, i lavoratori con contratto a tempo determinato” avrebbero dovuto ritenersi “computabili ove il contratto” avesse avuto “durata superiore a nove mesi”;
all’art. 9 (“Informazioni”) che “i contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi” avrebbero definito “le modalità per le informazioni da rendere ai lavoratori a tempo determinato circa i posti vacanti che si” fossero resi “disponibili nell'impresa, in modo da garantire loro le stesse possibilità di ottenere posti duraturi che” avevano “gli altri lavoratori” (comma 1) e che “i medesimi contratti collettivi nazionali di lavoro” avrebbero definito “modalità e contenuti delle informazioni da rendere alle rappresentanze dei lavoratori in merito al lavoro a tempo determinato nelle aziende” (comma 2);
all’art. 10 (“Esclusioni e discipline specifiche”) che avrebbero dovuto ritenersi “esclusi dal campo di applicazione del ...decreto legislativo in quanto già disciplinati da specifiche normative: a) i contratti di lavoro temporaneo di cui alla legge 24 giugno 1997, n. 196, e successive modificazioni; b) i contratti di formazione e lavoro; c) i rapporti di apprendistato, nonché le tipologie contrattuali legate a fenomeni di formazione attraverso il lavoro che, pur caratterizzate dall'apposizione di un termine, non” costituivano “rapporti di lavoro” (comma 1), nonché “i rapporti di lavoro tra i datori di lavoro dell'agricoltura e gli operai a tempo determinato così come definiti dall'articolo 12, comma 2, del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 375” (comma 2); che “nei settori del turismo e dei pubblici esercizi” avrebbe dovuto ritenersi “ammessa l'assunzione diretta di manodopera per l'esecuzione di speciali servizi di durata non superiore a tre giorni, determinata dai contratti collettivi stipulati con i sindacati locali o nazionali aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale” (comma 3); che era “consentita la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato, purché di durata non superiore a cinque anni, con i dirigenti, i quali” avrebbero potuto “comunque recedere da essi trascorso un triennio e osservata la disposizione dell'articolo 2118 del codice civile. Tali rapporti” avrebbero dovuto ritenersi “esclusi dal campo di applicazione del ...decreto legislativo, salvo per quanto concerne(va) le previsioni di cui agli articoli 6 e 8” (comma 4); che erano “esclusi i rapporti instaurati con le aziende che esercita(va)no il commercio di esportazione, importazione ed all'ingresso di prodotti ortofrutticoli” (comma 5); che “resta(va)no in vigore le discipline di cui all'articolo 8, comma 2, della legge 23 luglio 1991, n. 223, all'articolo 10 della legge 8 marzo 2000, n. 53, ed all'articolo 75 della legge 23 dicembre 2000, n. 388” (comma 6); che “la individuazione, anche in misura non uniforme, di limiti quantitativi di utilizzazione dell'istituto del contratto a tempo determinato stipulato ai sensi dell'articolo 1, comma 1”, sarebbe stata “affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi” e che sarebbero stati “in ogni caso esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato conclusi: a) nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che ... definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici; b) per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell'elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni; c) per l'intensificazione dell'attività lavorativa in determinati periodo dell'anno; d) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi”, nonché “i contratti a tempo determinato stipulati a conclusione di un periodo di tirocinio o di stage, allo scopo di facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo del lavoro, ovvero stipulati con lavoratori di età superiore ai cinquantacinque anni, o conclusi quando l'assunzione” avesse avuto “luogo per l'esecuzione di un'opera o di un servizio definiti o predeterminati nel tempo aventi carattere straordinario o occasionale” (comma 7); che sarebbero stati “esenti da limitazioni quantitative i contratti a tempo determinato non rientranti nelle tipologie di cui al comma 7, di durata non superiore ai sette mesi, compresa la eventuale proroga, ovvero non superiore alla maggiore durata definita dalla contrattazione collettiva con riferimento a situazioni di difficoltà occupazionale per specifiche aree geografiche. La esenzione di cui al precedente periodo non si” sarebbe “applica(ta) a singoli contratti stipulati per le durate suddette per lo svolgimento di prestazioni di lavoro che” fossero state “identiche a quelle che” avessero “formato oggetto di altro contratto a termine avente le medesime caratteristiche e scaduto da meno di sei mesi” (comma 8); che sarebbe stata “affidata ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi, la individuazione di un diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori che” avessero “prestato attività lavorativa con contratto a tempo determinato per le ipotesi già previste dall'articolo 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56. I lavoratori assunti in base al suddetto diritto di precedenza non” avrebbero concorso “a determinare la base di computo per il calcolo della percentuale di riserva di cui all'articolo 25, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223” (comma 9); che, “in ogni caso il diritto di precedenza si” sarebbe estinto “entro un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ed il lavoratore” avrebbe potuto “esercitarlo a condizione che” avesse manifestato “in tal senso la propria volontà al datore di lavoro entro tre mesi dalla data di cessazione del rapporto stesso” (comma 10).
21. A partire dall’entrata in vigore del D. Lgs. 368/2001, tanto in dottrina, quanto in giurisprudenza, ci si è posti il problema del se ed in quale misura la novella avesse modificato le regole interne in tema di contratto a tempo determinato e, prima ancora, se ed in che misura il Governo fosse stato abilitato dalla Legge delega a ridisciplinare per intiero tale istituto.
22. Detto dibattito ha trovato impegnata anche la Corte costituzionale, la quale ha reso, in argomento, due importanti pronunzie.
23. In una prima sentenza (la n. 44/2008), il giudice delle leggi ha ritenuto “che l'abrogazione - ... – del’art. 23, comma 2, della legge n. 56 del 1987 non” rientrasse “né nell'area di operatività della direttiva comunitaria, definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 22 novembre 2005, nella causa C-144/04 Mangold, né nel perimetro tracciato dal legislatore delegante”, posto che, “con riferimento al primo àmbito, detta sentenza” aveva “sottolineato (punti da 40 a 43) che la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE” andava “circoscritta alla «prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato»” e “pertanto non opera(va) laddove, come nella specie, vi” fosse stata “una successione di contratti a termine alla quale non si” fosse riferita “alcuna delle misure previste dalla direttiva medesima al fine di prevenire quegli abusi (giustificazione del rinnovo; durata massima totale dei contratti; numero massimo di contratti)”.
24. Secondo il giudice delle leggi, infatti, “l'art. 1, comma 1, di tale legge” aveva “delegato, ..., il Governo ad emanare «i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B.» e, per quanto concerne(va) la direttiva 1999/70/CE relativa al caso in esame non” aveva “dettato - a differenza di altre ipotesi - specifici criteri o principi capaci di ampliare lo spazio di intervento del legislatore delegato”.
25. In esito a tale ragionamento, la Consulta ha dichiarato “l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 77, primo comma, Cost., dell'art. 10, commi 9 e 10, nonché dell'art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella parte in cui abroga(va) l'art. 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56, in quanto emanati in assenza di delega”, nonché, “conseguentemente, il comma 2 dell’art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, il quale” conteneva “una disposizione meramente transitoria, come tale funzionalmente collegata al precedente comma”.
26. Nella seconda sentenza (la n. 214/2009), la Corte Costituzionale - chiamata a pronunziarsi da questo Giudice (che proprio dalla pronunzia n. 44/2008 aveva tratto argomenti a conforto del suo convincimento) circa l’illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 11 del D. Lgs. n. 368/2001, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., perché, nei contratti di lavoro sottoscritti per ragioni di carattere sostitutivo, per effetto della Novella, non sarebbe stata più richiesta, a differenza che nel passato, l’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito, né la ragione per la quale questi fosse rimasto assente dal lavoro, ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale perché “l’art. 1 del d.lgs. n. 368 del 2001, dopo aver stabilito, al comma 1, che l’apposizione del termine al contratto di lavoro è consentita a fronte di ragioni di carattere (oltre che tecnico, produttivo e organizzativo, anche) sostitutivo,” ha aggiunto, “al comma 2, che «l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma 1»”.
27. Secondo il Giudice delle Leggi, “l’onere di specificazione previsto da quest’ultima disposizione” imporrebbe “che, tutte le volte in cui l’assunzione a tempo determinato” dovesse avvenire “per soddisfare ragioni di carattere sostitutivo”, debba risultare “per iscritto anche il nome del lavoratore sostituito e la causa della sua sostituzione. Infatti, considerato che per “ragioni sostitutive” si” devono “intendere motivi connessi con l’esigenza di sostituire uno o più lavoratori, la specificazione di tali motivi” implicherebbe “necessariamente anche l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori da sostituire e delle cause della loro sostituzione; solamente in questa maniera, infatti, l’onere che l’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle parti che intendano stipulare un contratto di lavoro subordinato a tempo determinato” potrebbe “realizzare la propria finalità, che è quella di assicurare la trasparenza e la veridicità della causa dell’apposizione del termine e l’immodificabilità della stessa nel corso del rapporto”.
28. Nella sentenza n. 214/2009, la Corte Costituzionale ha aggiunto che, “non avendo gli impugnati artt. 1, comma 1, ed 11 del d.lgs. n. 368 del 2001 innovato, sotto questo profilo, rispetto alla disciplina contenuta nella legge n. 230 del 1962, non sussiste(va) la denunciata violazione dell’art. 77 della Costituzione. Invero, l’art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega n. 422 del 2000 consentiva al Governo di apportare modifiche o integrazioni alle discipline vigenti nei singoli settori interessati dalla normativa da attuare e ciò al fine di evitare disarmonie tra le norme introdotte in sede di attuazione delle direttive comunitarie e, appunto, quelle già vigenti. In base a tale principio direttivo generale, il Governo era autorizzato a riprodurre, nel decreto legislativo di attuazione della direttiva 1999/70/CE, precetti già contenuti nella previgente disciplina del settore interessato dalla direttiva medesima (contratto di lavoro a tempo determinato). Infatti, inserendo in un unico testo normativo sia le innovazioni introdotte al fine di attuare la direttiva comunitaria, sia le disposizioni previgenti che, attenendo alla medesima fattispecie contrattuale, erano alle prime intimamente connesse, si sarebbe garantita la piena coerenza della nuova disciplina anche sotto il profilo sistematico, in conformità con quanto richiesto dal citato art. 2, comma 1, lettera b), della legge di delega”.
29. Il Giudice delle Leggi, infine, “non” ha ritenuto “sussiste(re) neppure la denunciata lesione dell’art. 76 Cost., poiché le norme censurate, limitandosi a riprodurre la disciplina previgente, non” avrebbero determinato “alcuna diminuzione della tutela già garantita ai lavoratori dal precedente regime e, pertanto, non si” sarebbero poste “in contrasto con la clausola n. 8.3 dell’accordo-quadro recepito dalla direttiva 1999/70/CE, secondo la quale l’applicazione dell’accordo non avrebbe potuto costituire un motivo per ridurre il livello generale di tutela già goduto dai lavoratori”.
30. In sostanza, sembrerebbe che la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 214/2009, abbia valutato come sostanziale riproduzione della precedente disciplina l’intero (o quantomeno la parte più significativa del) D. Lgs. n. 368/2001, e per questo lo abbia ritenuto immune da vizi di legittimità. L’opzione interpretativa così individuata permette di comprendere perché la stessa Corte non abbia proceduto ad esaminare il problema della mancanza di una delega specifica nella legge comunitaria n. 422/2000, carenza che avrebbe poi dovuto condurre ad espungere la normativa in questione dall’ordinamento interno, così ripristinando le “vecchie” e più garantiste regole dettate dalla L. 230/1962.
31. E’ in questo “contesto” normativo che, all’art. 2 del D. Lgs. 368/2001, è stato aggiunto (dall'articolo 1, comma 558, della legge 23 dicembre 2005, n. 266), il comma 1 bis (e cioè la norma in virtù della quale è stato assunto il lavoratore ricorrente), che ha previsto che “le disposizioni di cui al comma 1” (richiamate al precedente paragrafo 20) “si applicano anche quando l'assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell'organico aziendale, riferito al 1° gennaio dell'anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma”.
32. Il Tribunale di Roma, con ordinanza n. 217 del 2008, ha dubitato della legittimità costituzionale di questa disposizione, in quanto, a suo avviso, consentendo alle aziende concessionarie di servizi nei settori delle poste di stipulare contratti di lavoro a tempo determinato (oltre che per le causali e nelle forme previste dall’art. 1 dello stesso d.lgs. n. 368 del 2001) anche liberamente entro i limiti temporali e quantitativi in essa indicati sarebbe incorsa in una duplice violazione: a) avrebbe violato l’art. 3, primo comma, Cost., introducendo, ai danni dei lavoratori operanti nel settore delle poste, una disciplina differenziata del lavoro a termine, priva di ragionevolezza e di valide ragioni giustificatrici; b) avrebbe violato gli artt. 101, 102 e 104 Cost., perché l’introduzione di una «acasualità» per le assunzioni a termine nel settore postale avrebbe sottratto ingiustificatamente al Giudice ordinario il potere di verifica delle effettive ragioni oggettive e temporanee poste alla base di dette assunzioni.
33. La Corte Costituzionale, con la più volte richiamata sentenza n. 214/2009, ha ritenuto non fondata tale questione, perché “non” ha ravvisato “alcuna lesione dell’art. 3 della Costituzione”, costituendo, “la norma censurata ...la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine”.
34. Secondo il Giudice delle Leggi, “il legislatore, in base ad una valutazione – operata una volta per tutte in via generale e astratta – delle esigenze delle imprese concessionarie di servizi postali di disporre di una quota (15 per cento) di organico flessibile, ha previsto che tali imprese possano appunto stipulare contratti di lavoro a tempo determinato senza necessità della puntuale indicazione, volta per volta, delle ragioni giustificatrici del termine. Tale valutazione preventiva ed astratta operata dal legislatore non” sarebbe stata “manifestamente irragionevole. Infatti, la garanzia alle imprese in questione, nei limiti indicati, di una sicura flessibilità dell’organico”, sarebbe stata “direttamente funzionale all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica i quali «costituiscono attività di preminente interesse generale», ai sensi dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 (Attuazione della direttiva 1997/67/CE concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio). In particolare, poi, in esecuzione degli obblighi di fonte comunitaria derivanti dalla direttiva 1997/67/CE, l’Italia deve assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale” (cioè la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione degli invii postali fino a 2 chilogrammi; la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione dei pacchi postali fino a 20 chilogrammi; i servizi relativi agli invii raccomandati ed agli invii assicurati: art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 261 del 1999); tale servizio universale «assicura le prestazioni in esso ricomprese, di qualità determinata, da fornire permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti» (art. 3, comma 1); l’impresa fornitrice del servizio deve garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall’autorità di regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica (art. 3, comma 4); il servizio deve esser prestato in via continuativa per tutta la durata dell’anno (art. 3, comma 3)”.
35. “Non” sarebbe, “dunque, manifestamente irragionevole che ad imprese tenute per legge all’adempimento di simili oneri sia riconosciuta una certa flessibilità nel ricorso (entro limiti quantitativi comunque fissati inderogabilmente dal legislatore) allo strumento del contratto a tempo determinato”.
36. A ciò la Corte Costituzionale ha aggiunto “che l’art. 2, comma 1-bis, del d.lgs. n. 368 del 2001 impone alle aziende di comunicare ai sindacati le richieste di assunzioni a termine, prevedendo così un meccanismo di trasparenza che agevola il controllo circa l’effettiva osservanza, da parte datoriale, dei limiti posti dalla norma”.
37. Sempre per Corte Cost. n. 214/2009, inoltre, “la questione non” sarebbe stata “fondata neppure sotto il profilo della pretesa violazione degli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione”, in quanto “la norma censurata si” limiterebbe “a richiedere, per la stipula di contratti a termine da parte delle imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste, requisiti diversi rispetto a quelli valevoli in generale (non già l’indicazione di specifiche ragioni temporali, bensì il rispetto di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo). Pertanto il giudice ben” potrebbe “esercitare il proprio potere giurisdizionale al fine di verificare la ricorrenza in concreto di tutti gli elementi di tale dettagliata fattispecie legale”.
38. Questa decisione del Giudice delle Leggi, ad avvisodel Giudicante, potrebbe non eliminare completamente la necessità di ulteriori approfondimenti sollecitati dalla riflessione sui contenuti della “sentenza Kiriaki Angelidaki”, resa dalla Corte di Giustizia Europea il 23 aprile 2009 (e cioè ancor prima che la Consulta si pronunciasse), nei procedimenti riuniti da C-387/07 a C-380/07.
39. In particolare, nella valutazione della questione se l’art. 2, comma 1
bis, del D. Lgs. 368/2001 avesse violato la c.d. “
clausola di non regresso”, la Corte Costituzionale pare non aver dato il rilievo che a questo Giudice sembra imprescindibile alla sentenza cit. del Giudice Comunitario, la quale stabilisce: “
...la clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro deve essere interpretata nel senso che occorre valutare la contemplata da tale clausola in rapporto al livello generale di tutela che era applicabile, nello Stato membro interessato, sia ai lavoratori con contratti di lavoro a tempo determinato successivi, sia a quelli con un primo ed unico contratto a tempo determinato” (paragrafo 121) e “
una riduzione della tutela offerta ai lavoratori nel settore dei contratti di lavoro a tempo determinato non è, in quanto tale, vietata dall’accordo quadro, ma ..., per rientrare nel divieto sancito dalla clausola 8, n. 3, ... deve, da un lato, essere collegata con l’ dell’accordo quadro, e, dall’altro, avere ad oggetto dei lavoratori a tempo determinato (v., in tal senso, sentenza Mangold, ..., 52)” (paragrafo 126).
40. La Corte di Giustizia – pur affidando ai Giudici nazionali il compito di “
determinare in quale misura le ... modifiche, ...rispetto al diritto nazionale preesistente” abbiano “
comportato una riduzione della tutela dei lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato, a tal fine comparando il livello di tutela rispettivamente accordato da ciascuna di queste disposizioni nazionali” (paragrafo 129) – si è riconosciuta pur sempre competente a “
fornire al giudice del rinvio indicazioni utili a guidarlo nella sua valutazione sul punto di sapere se detta eventuale riduzione della tutela dei lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato costituisca una ai sensi della clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro”, con la precisazione che “
occorre esaminare in quale misura le modifiche introdotte dalla normativa nazionale volte a recepire la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro siano tali, da un lato, da essere considerate collegate con l’ dell’accordo quadro, e, dall’altro, da riguardare il
dei lavoratori ai sensi della sua clausola 8, n. 3” (paragrafo 130).
41. Così, per la C.G.E., l’espressione “
collegamento con l’ dell’accordo quadro ... non riguarda la sola iniziale trasposizione della direttiva 1999/70 ..., ma copre ogni misura nazionale intesa a garantire che l’obiettivo da questa perseguito possa essere raggiunto, comprese le misure che, successivamente alla trasposizione propriamente detta, completino o modifichino le norme nazionali già adottate (sentenza Mangold, ..., punto 51)” (paragrafo 131).
42. “Nondimeno, una siffatta normativa non potrebbe essere considerata contraria a detta clausola nel caso in cui la reformatio in peius che essa comporta non fosse in alcun modo collegata con l’applicazione dell’accordo quadro. Ciò avverrebbe qualora detta reformatio in peius fosse giustificata non già della necessità di applicare l’accordo quadro, bensì quella di promuovere un altro obiettivo, da esso distinto (v., in tal senso, sentenza Mangold, punti 52 e 53)” (paragrafo 133).
43. Sempre in forza della “sentenza Kiriaki Angelidaki”, “per quanto concerne”, invece, “la condizione secondo cui la reformatio in peius deve riguardare il
dei lavoratori a tempo determinato
”:
a) “essa implica che soltanto una reformatio in peius di ampiezza tale da influenzare complessivamente la normativa nazionale in materia di contratti di lavoro a tempo determinato può rientrare nell’ambito applicativo della clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro” (paragrafo 140), con la conseguenza che “fintanto che” i destinatari del trattamento peggiorativo “non rappresentano una porzione significativa dei lavoratori impiegati a tempo determinato nello Stato membro in questione, ..., la riduzione della tutela di cui gode una siffatta, ristretta, categoria di lavoratori non è di per sé tale da influenzare complessivamente il livello di tutela applicabile nell’ordinamento giuridico interno ai lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato” (paragrafo 142);
b) “... l’adozione di ...misure di prevenzione degli abusi, fintanto che esse costituiscano, in tutto o in parte, una novità nell’ordinamento giuridico interno, ..., è” in grado di “compensare la riduzione di tutela derivante dall’abrogazione oppure dalla limitazione della sanzione precedentemente applicabile in caso di abuso, consistente nella conversione del contratto di lavoro in questione in contratto a tempo indeterminato” (paragrafo 144).
44. Insomma, per dirla con la C.G.E., “le modifiche introdotte da una normativa nazionale tesa , ..., a recepire la direttiva 1999/70 e l’accordo quadro, non sembrano costituire una del livello generale di tutela dei lavoratori a tempo determinato ai sensi della clausola 8, n. 3, dell’accordo quadro nei limiti in cui esse riguardino una categoria circoscritta di lavoratori con un contratto di lavoro a tempo determinato oppure siano idonee ad essere compensate dall’adozione di misure preventive dell’utilizzo abusivo di contratti di lavoro a tempo determinato successivi, ...” (paragrafo 146).
45. Ebbene, come già anticipato, siffatti principi portano questo Giudice a dubitare della conformità dell’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. n. 368/2001 alla clausola n. 8 punto 3 dell’Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE (c.d. clausola di non regresso), visto che tale disposizione:
a) sebbene introdotta dalla L. n. 266 del 23/12/2005 e, quindi, successivamente “alla trasposizione propriamente detta” (intervenuta con il D. Lgs. n. 368/2001)è, da un lato, pacificamente collegata all’applicazione dell’Accordo Quadro, nella misura in cui è andata a <completare> e a <modificare> “le norme nazionali già adottate” [v. sentenze “Mangold” (punto 51) e “Angelidaki” (punto 131)]; dall’altro lato, non risulta diretta a “promuovere un altro obiettivo, ... distinto” da quello “di applicare l’accordo quadro” [v. sentenze “Mangold” (punti 52 e 53) e “Angelidaki” (punto 133)]. Se poi si volesse mettere in dubbio quest’ultima affermazione ignorando l’evidenza che nella legge non vi è alcuna traccia del perseguimento di un qualche “altro obiettivo”da parte del legislatore, rimarrebbe pur sempre il fatto che, a giustificare l’arretramento di tutela, non di un obiettivo qualsiasi si sarebbe dovuto trattare, bensì di un obiettivo meritevole di una “tutela” quantomeno equivalente a quello “sacrificato”;
b) non richiedendo, per l’apposizione del termine, diversamente che per il passato, alcuna “valida” ed “oggettiva” ragione giustificativa, ha certamente ridotto “il livello generale di tutela” dei dipendenti della S.p.a Poste Italiane senza, peraltro, la necessaria contestuale introduzione di una misura adeguatamente compensativa. Ed è appena il caso di evidenziare, a proposito di “livello generale di tutela”, che i dipendenti di cui si tratta non possono certamente considerarsi una categoria circoscritta di lavoratori”. Infatti la Società convenuta, alla stregua della documentazione prodotta negli atti di causa dalla sua stessa difesa, nel 2008, avrebbe avuto nel suo organico 147.130 dipendenti a tempo indeterminato ed avrebbe assunto, solo in quell’anno, ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001, ben 21.732 lavoratori a tempo determinato;
c)con la sua previsione “di una durata massima e di una quota percentuale dell’organico complessivo”, non è in grado di compensare l’arretramento di tutela subito dai dipendenti della Società convenuta, per il venir meno della necessità delle ragioni “oggettive” previste dalla previgente normativa, considerato che, come si è avuto modo di anticipare ai paragrafi 9, 10 e 11 di questa stessa ordinanza, le parti sociali (autorizzate dall’art. 23, comma 1, della L. n. 56 del 28 febbraio 1987, a stabilire “il numero in percentuale dei lavoratori che” avrebbero potuto “essere assunti con contratto di lavoro a termine rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato”), all’atto della stipula dei contratti collettivi del 26/11/1994 e dell’11/1/2001, senza liberare le Poste italiane dall’onere di giustificare l’apposizione del termine e di richiamare nel documento negoziale una delle causali richieste dalla legge o dal contratto, avevano già ritenuto equo limitare il ricorso al contratto a tempo determinato ad una percentuale massima, pari, nel primo CCNL, al “10% rispetto al numero dei lavoratori impegnati a tempo indeterminato” e, nel secondo, su base regionale, addirittura al “5% del numero dei lavoratori in servizio alla data del 31 dicembre dell’anno precedente”, considerando queste percentuali assolutamente sufficienti a rispondere alle esigenze di flessibilità aziendale. Così, le Poste italiane - mentre prima dell’art. 2, comma 1 bis, cit., per poter assumere personale a tempo determinato, erano tenute non solo a richiamare le causali valevoli per ogni altro datore di lavoro, ma anche a rispettare le percentuali concordate con le OO.SS. (in base ad una condivisa valutazione del grado di accettabilità del lavoro flessibile, che tenesse parimenti conto sia delle esigenze datoriali che di quelle dei lavoratori) - a partire ed in conseguenza di tale disposizione di legge, non sono più soggette al rispetto di alcuna “causale”, potendo fare ricorso a tale tipologia contrattuale sempre e comunque, a condizione che rispettino la clausola di contingentamento (pari ad una percentuale del 15% del personale a tempo indeterminato, come si è visto di gran lunga superiore a quelle previgenti ed addirittura esimente le Poste dall’onere di giustificare l’apposizione del termine con il riferimento ad una delle causali legali e/o contrattuali).
46. Si è detto supra che la Corte Costituzionale, considerandolo una sostanziale riproduzione della previgente disciplina, è giunta alla conclusione che il D.Lgs. 368/2001 dovesse considerarsi legittimo nel suo complesso.
47. Ma proprio tale orientamento interpretativo, ad avviso di questo Giudicante, avrebbe poi dovuto avere come conseguenza quella di portare il Giudice delle Leggi a ritenere illegittimo l’art. 2, comma 1 bis, al D. Lgs. 368/2001. Certo, una simile conclusione non avrebbe potuto fondarsi sulla mancanza di delega, visto che ad introdurre il comma 1 bis era stato direttamente il Parlamento con l’art. 1, comma 558, della L. n. 266/2005. Ma la medesima conclusione sarebbe stata comunque inevitabile, considerando che quella disposizione - per una significativa porzione di lavoratori e senza, peraltro, la contestuale previsione di misure adeguatamente “compensative” – ha introdotto una eccezione alla regola della natura a tempo indeterminato dei rapporti di lavoro e ai principi di eccezionalità, temporaneità ed obiettività delle ragioni giustificanti l’apposizione del termine al contratto di lavoro. E’ dunque evidente che la disposizione in parola determina un importante arretramento di tutela rispetto a quanto previsto dalla previgente L. n. 230/1962 – che, come già detto, non prevedeva alcun trattamento di minor favore per i dipendenti delle Poste Italiane – e questo risultato si pone in palese violazione della clausola n. 8.3 dell’Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE, così come letta dalla C.G.E. nelle richiamate sentenze Mangold ed Angelidaki.
48. La Corte Costituzionale – come si è detto – ha giustificato la norma di cui all’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001 facendo riferimento ad una sorta di meccanismo “premiale” per le “imprese tenute per legge all’adempimento di ...oneri”. Questo Giudice osserva, però, che un aspetto non è sembrato degno di considerazione alla Corte: quella norma è stata utilizzata dalle Poste italiane anche per l’assunzione di lavoratori (si pensi agli operatori di sportello) da adibire (ed effettivamente adibiti) a mansioni meramente amministrative, per nulla funzionali “all’onere gravante su tali imprese di assicurare lo svolgimento dei servizi relativi alla raccolta, allo smistamento, al trasporto ed alla distribuzione degli invii postali, nonché la realizzazione e l’esercizio della rete postale pubblica”. E, del resto, lo stesso art. 2 comma 1 bis non fa riferimento a concreti servizi ma ad imprese concessionarie, il che sembrerebbe escludere distinzioni interne circa le mansioni da dedurre nei contratti di assunzione a tempo determinato.
49. Ebbene, stando così le cose, se si condividesse la “giustificazione” addotta dalla Consulta per mantenere ferma, nell’ordinamento interno, la norma di cui all’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001, non si potrebbe poi evitare di legittimare l’estensione di quell’arretramento di tutela anche ad altri lavoratori, purchè appartenenti a settori che svolgano “attività di preminente interesse generale” (si pensi alle aziende che operano nell’ambito dei trasporti pubblici, dell’energia elettrica, dell’acqua, ecc.), con il consequenziale ampliamento della platea dei soggetti destinatari di quella disposizione e la progressiva erosione del principio secondo cui il rapporto di lavoro è di regola a tempo indeterminato.
50. Il “desiderio di flessibilità” del lavoro – che è un dato comune a tutte le aziende (e non solo di quelle “pubbliche”) – ad avviso di questo Giudice deve necessariamente confrontarsi con la normativa comunitaria e con i diritti che questa intende salvaguardare (e, tra questi, non solo quelli trasfusi nella Direttiva 1999/70/CE, ma anche quelli che, per es., vietano ogni discriminazione o l’abuso di posizione dominante). Dal che consegueche un’azienda, pubblica o non pubblica, se ed in quanto operi (come le Poste Italiane) nel mercato, non ha titolo per beneficiare di trattamenti differenziati e, soprattutto, privilegiati rispetto ad altre imprese (dello stesso, come anche di altro settore).
51. Peraltro, il meccanismo “premiale”, inaugurato dal Giudice delle leggi, finisce per porre a carico dei soli lavoratori (e non già sull’intera collettività) l’onere di compensare le Poste del sacrificio loro richiesto di “assicurare lo svolgimento del c.d. “servizio universale” ... permanentemente in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti» (...)”, di “garantire tutti i giorni lavorativi, e come minimo cinque giorni a settimana, salvo circostanze eccezionali valutate dall’autorità di regolamentazione, una raccolta ed una distribuzione al domicilio di ogni persona fisica o giuridica (....)” e di prestare “il servizio ...in via continuativa per tutta la durata dell’anno (...)”. D’altro canto questa ricostruzione sembra anche parziale nella misura in cui pare non dare alcun rilievo al fatto che, in realtà, l’azienda convenuta, specie da quando è diventata una società per azioni, nel determinare (in ossequio ai principi di economicità che valgono per l’agire di ogni impresa) il corrispettivo dei suoi servizi, tiene certamente conto anche dei compiti sopra qualificati come “oneri aggiuntivi”. Né potrebbe essere diversamente, stando sul mercato, e comunque non risulta dimostrato il contrario.
52. L’attivo del bilancio della Poste italiane S.p.a., nell’anno 2005, documentato dalla produzione attorea, dà anche motivo di dubitare dell’esigenza reale che questa Società avrebbe, per rimanere sul mercato, di una libertà di assunzione del personale a tempo determinato, anche in ragione della sua posizione dominante (se non proprio monopolistica), pur dandosi atto che tale constatazione non influenza gli aspetti strettamente giuridici della questione come sopra sviluppati.
53. A questo punto, l’ art. 4-bis del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, introdotto dall’ art. 21, comma 1-bis, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 ( dichiarato illegittimo costituzionalmente con sentenza n. 214/2009 della Corte Cost.), a mente del quale, “ con riferimento ai soli giudizi in corso alla data di entrata in vigore della presente disposizione, e fatte salve le sentenze passate in giudicato, in caso di violazione delle disposizioni di cui agli articoli 1,2 e 4, il datore di lavoro è tenuto unicamente ad indennizzare il prestatore di lavoro con un’ indennità di importo compreso tra un minimo di 2,5 ed un massimo di sei mensilità dell’ ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’ articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni”, costituisce utile elemento di oggettivo conforto, nel consentire di ritenere che se mai, con l’ art. 2, co. 1-bis cit., c’è stato un obiettivo diverso da quello di “completare” e “modificare” “le norme nazionali già adottate”, questo potrebbe non essere stato esclusivamente quello di ricompensare le Poste per il sacrificio di dover garantire il servizio postale “in tutti i punti del territorio nazionale, incluse le situazioni particolari delle isole minori e delle zone rurali e montane, a prezzi accessibili a tutti gli utenti”, bensì, soprattutto, quello di arginare un contenzioso prodotto non già dai lavoratori, ma da un uso piuttosto disinvolto, da parte della Società convenuta, della normativa dettata in tema di lavoro a tempo determinato e di estendere progressivamente, anche all’impiego privatizzato, il divieto di stabilizzazione (e cioè di conversione del rapporto) previsto per il lavoro pubblico.
54. Diversamente, risulta difficile comprendere come mai non sia stata avvertita dal legislatore la necessità di estendere quella deroga anche ad altri settori, parimenti “di preminente interesse generale” e, soprattutto, che non lo si sia fatto anche in precedenza, visto che la giustificazione di quel “premio” già sussisteva alla data di entrata in vigore del D. Lgs. 368/2001.
55. A quanto sopra, questo Giudice ritiene di dover aggiungere, con specifico riferimento alle misure compensative, che queste non avrebbero potuto – né possono - riferirsi alla generalità dei lavoratori, bensì a quei soggetti che da quella norma siano rimasti danneggiati: diversamente, la discriminazione tra gli uni e gli altri, già di per sé molto forte, lo sarebbe (se possibile) ancor di più.
56. A parere di questo Giudice, inoltre, la norma di cui all’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001, oltre alla clausola n. 8.3 (di non regresso), ha anche violato (e viola) la clausola n. 3.1 dell’Accordo Quadro, posto che – data per definitivamente acquisita la riferibilità dei principi minimi fissati dalla Direttiva comunitaria anche al primo ed unico contratto di lavoro a tempo determinato (v. pag. 121 della “sentenza Angelidaki”) – in tale tipologia contrattuale non può, per definizione, essere consentita l’<acausalità>, essendo richiesto, per espressa previsione normativa, che l’apposizione del termine sia giustificata dal “raggiungimento di una data certa”, dal “completamento di un compito specifico” o dal “verificarsi di un evento specifico”.
57. A ciò va aggiunto che la norma di cui all’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. n.368/2001 risulta essere anche contraria ai principi generali di non discriminazione e di uguaglianza comunitari (già enunciati in molte direttive europee e destinati ad una migliore tutela per effetto dell’imminente entrata in vigore del Trattato di Lisbona), non essendo ravvisabile alcuna ragionevolezza nella disparità di trattamento che provoca non solo fra i lavoratori, ma anche tra imprese ed imprese. E la discriminazione tra i lavoratori, non è solo quella tra chi venga assunto a tempo determinato dalla S.p.a. Poste Italiane e chi lo sia da altri datori di lavoro, ma anche tra gli stessi lavoratori della odierna Società convenuta ed in particolare tra quelli che vengano assunti a termine senza una causale (ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis) e quelli che, invece, siano assunti in forza dell’art. 1 del D. Lgs. 368/2001 e, quindi, per una causale obiettiva, solo perché, per es., sia stata superata la c.d. clausola di contingentamento.
58. Se si tiene conto, poi, del fatto che la s.p.a. Poste Italiane ha un capitale azionario sottoscritto dal Ministero del Tesoro, nella misura del 65%, e della Cassa Depositi e Prestiti s.p.a., per il residuo 35%, e che, a buon diritto, questa società può, quindi, considerarsi un’impresa pubblica, appare evidente come l’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001, più che rispondere agli obiettivi indicati dalla Corte costituzionale nella richiamata sentenza n. 214/2009, sia la logica conseguenza di un vero e proprio sfruttamento di posizione dominante, in palese violazione degli artt. 82, comma 1, e 86, commi 1 e 2, del trattato CE.
59. Questa situazione di incertezza ermeneutica, induce questo Giudicea ritenere opportuno un ulteriore pronunciamento chiarificatore del Giudice Comunitario, in maniera che si pervenga ad un’interpretazione uniforme ed unitaria delle disposizioni dettate dalle clausole nn. 8.3 e 3.1 dell’Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE e dei principi di non discriminazione e di uguaglianza comunitari.
60. Oltre che “seria”, la pregiudiziale comunitaria innanzi illustrata è da ritenere anche rilevante nel giudizio a quo, “in quanto” – come ricordato nella sentenza n. 44/2008 dalla Corte Costituzionale – “l’invocata giurisprudenza della Corte di Giustizia, pronunziatasi in ordine alla portata della cosiddetta ”, essendo “applicabile alla fattispecie in esame”, incide chiaramente “sulla legittimità della norma censurata sotto il profilo della” sua “contrarietà ai principi enunciati dalla direttiva sopra indicata”.
61. Del resto, l’eventuale accoglimento della sollevata pregiudiziale comunitaria ed il conseguente accertamento dell’illegittimità dell’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. n. 368/2001, rileverebbe certamente nel giudizio promosso dal sig. VINO Cosimo Damiano, essendo in grado, ex se, di produrre l’illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro per cui è causa, in ragione della mancata indicazione, nel documento negoziale, delle “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, richieste dall’art. 1 del D. Lgs. 368/2001.
P.Q.M.
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani, visto l’art. 234 del Trattato C.E. e l’art. 295 c.p.c., chiede alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee di pronunciarsi sulle seguenti questioni pregiudiziali:
a) se la clausola n. 8.3 dell’Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEP”, abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie “acausale” per l’assunzione a termine dei dipendenti della s.p.a. Poste Italiane;
b) se per giustificare una reformatio in peius della precedente normativa in tema di contratto a tempo determinato e perché non operi il divieto di cui alla clausola n. 8.3 dell’accordo quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE sia sufficiente il perseguimento – da parte del legislatore interno - di un qualsiasi obiettivo, purché diverso da quello di dare attuazione alla richiamata Direttiva, o se sia necessario che questo obiettivo non solo sia meritevole di una tutela quantomeno equivalente a quello penalizzato, ma sia anche espressamente “dichiarato”;
c) se la clausola n. 3.1 dell’Accordo Quadro recepito dalla Direttiva 1999/70/CE osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEP”, abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie “acausale” per l’assunzione a termine dei dipendenti della S.p.a. Poste Italiane;
d) se il principio generale di non discriminazione e di uguaglianza comunitario osta ad una disciplina interna (come quella dettata dall’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEP”, abbia introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie “acausale” che penalizzi i dipendenti della S.p.a. Poste Italiane, nonché, rispetto a questa Società, anche altre imprese dello stesso o di altro settore;
e) se gli artt. 82, comma 1, e 86, commi 1 e 2, del Trattato CE ostano ad una disciplina interna (come quella dettata dall’art. 2, comma 1 bis, del D. Lgs. 368/2001), che, in attuazione della direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEP”, ha introdotto nell’ordinamento interno una fattispecie “acausale” a beneficio della sola S.p.a. Poste Italiane (impresa con capitale interamente pubblico), realizzando un’ipotesi di sfruttamento di posizione dominante;
f) nel caso in cui le precedenti questioni vengano risolte affermativamente, se il Giudice nazionale sia tenuto a disapplicare (o a non applicare) la normativa interna contrastante con il diritto comunitario.
Ordina la sospensione del processo e che, previa comunicazione alle parti, copia della presente ordinanza sia trasmessa alla Cancelleria della Corte di Giustizia.
Così deciso in Trani, nella Camera di consiglio, il 23/11/2009
Il Giudice del Lavoro del Tribunale di Trani
Dr.ssa Maria Antonietta La Notte Chirone