venerdì 7 agosto 2009 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli
MISURE CAUTELARI – PROVVEDIMENTI DEL TRIBUNALE DELLA LIBERTA’ – RICORSO PER CASSAZIONE – P.G. PRESSO LA CORTE D’APPELLO – LEGITTIMAZIONE – ESCLUSIONE
Le Sezioni Unite hanno stabilito che il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello non è legittimato, salvo che sia stato egli stesso a chiedere l’applicazione della misura cautelare, a proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale quale giudice di appello sui provvedimenti in materia di libertà adottati dalla Corte di appello. La Corte ha in proposito precisato che, individuando l’art. 311 cod. proc. pen. in maniera espressa i soggetti legittimati al ricorso nell’incidente cautelare, l’inammissibilità dell’impugnazione presentata dal Procuratore Generale discende dall’applicazione della fondamentale norma per cui il diritto di impugnare spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce.
Sentenza n. 31011 del 28 maggio 2009 - depositata il 27 luglio 2009
(Sezioni Unite Penali, Presidente T. Gemelli, Relatore F. Fiandanese)
SVOLGIMENTO DEL PROCEDIMENTO
La Corte di Appello di Bologna, con sentenza 16 dicembre 2008, confermava la condanna pronunciata in primo grado nei confronti di Colangelo Sergio, per la vendita di due grammi di hashish, alla pena di mesi dieci di reclusione, oltre la multa; con contestuale ordinanza rigettava l’istanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere.
A seguito di appello dell’imputato ex art. 310 c.p.p., il Tribunale di Bologna, con ordinanza in data 9 gennaio 2009, revocava la misura della custodia cautelare in carcere e ordinava l’immediata scarcerazione dell’imputato.
Il Tribunale osservava che la durata della coercizione carceraria sino a quel momento subita dal Colangelo, pari a mesi otto e giorni uno, superava i quattro quinti della pena espianda, così come quantificata all’esito dei giudizi di merito, così che, non essendo imminente la conclusione del procedimento, il perdurare della custodia avrebbe comportato l’inevitabile sovrapposizione del presofferto cautelare alla sanzione espianda.
Lo stesso Tribunale argomentava dal combinato disposto degli artt. 275, comma 2, e 299, comma 2, c.p.p. nel senso che il principio di proporzione, assumendo come parametro di riferimento la norma di cui all’art. 304, comma 6, c.p.p., deve operare in via autonoma e prioritaria rispetto agli altri parametri della complessiva disciplina cautelare, fra cui i termini di custodia dettati dall’art. 303 c.p.p. ed il periculum libertatis.
Propone ricorso per cassazione il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Bologna deducendo erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione.
Il ricorrente P.G., in primo luogo, afferma la propria legittimazione ad impugnare le ordinanze emesse dal Tribunale del riesame ai sensi dell’art. 310 c.p.p., osservando che la formulazione letterale delle disposizioni di cui agli artt. 309, 310 e 311 c.p.p., che individuano il p.m. legittimato all’impugnazione in quello che ha richiesto l’applicazione della misura e in quello istituito presso il Tribunale, mal si attaglia al caso in cui il provvedimento impugnato in materia de libertate sia stato emesso dalla Corte di Appello. Infatti, in tal caso, salvo la sporadica ipotesi in cui sia stato proprio il P.G. a richiedere l’applicazione della misura, la possibilità di ricorrere avverso il provvedimento del Tribunale della libertà sarebbe affidata al solo Procuratore della Repubblica distrettuale, rimasto estraneo alla fase del procedimento in cui è stata emessa l’ordinanza appellata, poiché non sarebbe neppure astrattamente ipotizzabile l’intervento del p.m. originario che ebbe a richiedere la misura, rimasto non solo estraneo al procedimento di secondo grado, ma impossibilitato anche ad essere reso edotto del contenzioso insorto, non avendo titolo, a norma dell’art. 310, comma 2, c.p.p., a ricevere l’avviso dell’udienza camerale innanzi al Tribunale della libertà.
Pertanto, al fine di evitare conseguenze lesive dei principi costituzionali in ragione della deteriore posizione che la Corte di Appello e il suo P.M. verrebbero così a rivestire rispetto al giudice di primo grado e al corrispondente organo dell’accusa, sarebbe corretto, secondo il P.G. ricorrente, pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata del disposto dell’art. 311, comma 1, c.p.p., nel senso che il P.G. che ha reso le sue valutazioni in ordine alla conferma, modifica o revoca della misura cautelare nel procedimento innanzi alla Corte di Appello, ben possa identificarsi in quella figura del p.m. che ha richiesto l’applicazione della misura indicato dall’art. 311 citato quale organo dell’accusa legittimato alla proposizione del ricorso.
Con riferimento al contenuto dell’ordinanza impugnata, il P.G. ricorrente osserva che il Tribunale di Bologna non ha contestato la persistenza del pericolo di reiterazione criminosa da parte dell’imputato, posto a base del rigetto della richiesta di revoca da parte della Corte di Appello, e ha considerato esclusivamente il periodo di ragionevole durata della cautela ottenuto con un semplice calcolo matematico. Ma il principio di proporzionalità sancito dagli artt. 275, comma 2, e 299, comma 2, c.p.p., ad avviso del P.G. ricorrente, non può essere inteso in chiave assoluta, dovendo sempre essere raccordato alle valutazioni inerenti la sussistenza e la persistenza delle esigenze cautelari, con il solo limite del disposto dell’art. 300, comma 4, c.p.p., unico caso in cui rimane irrilevante la persistenza di esigenze cautelari. Irrilevante, infine, sarebbe il richiamo al comma sesto dell’art. 304 c.p.p., trattandosi di norma avente lo scopo di dare un preciso termine alla compressione della libertà personale nella diversa ipotesi di sospensione dei termini di durata massima della custodia cautelare, fissati con riferimento all’intero processo e non già alle singole fasi di esso.
Il ricorso è stato assegnato alla sesta sezione penale che, con ordinanza del 1° aprile 2009 (depositata il successivo 15 aprile), lo ha rimesso alle Sezioni unite sul rilievo della sussistenza di contrasti interpretativi su tre distinte questioni:
a)- se il Procuratore Generale presso la Corte d’appello sia legittimato a impugnare l’ordinanza di revoca della misura cautelare personale in carcere decisa, in difformità della pronuncia della Corte d’appello, dal tribunale quale giudice d’appello sui provvedimenti de libertate;
b)- se il criterio cronologico della durata della misura cautelare rispetto all’entità della pena ritenuta in sentenza abbia prevalenza assorbente rispetto ad altri parametri di legge;
c)- se l’annullamento con rinvio della decisione del tribunale del riesame o d’appello con la quale sia stata revocata la misura cautelare ne comporti l’automatica reviviscenza.
In particolare, sulla prima questione, l’ordinanza segnala gli orientamenti contrapposti, ponendo in evidenza che l’indirizzo contrario a riconoscere legittimazione al ricorso al Procuratore generale presso la Corte d’appello trae motivo dalla lettera dell’art. 311, comma 1, c.p.p., che non prevede il P.G. tra gli organi legittimati a ricorrere per cassazione avverso il provvedimento de libertate, salvo che non sia stato egli stesso a richiedere l’applicazione della misura (caso del tutto eccezionale e comunque non ricorrente nella specie). Per contro l’indirizzo favorevole a riconoscere tale legittimazione viene identificato dall’ordinanza in due risalenti pronunce e soprattutto in recenti sentenze che, decidendo sul ricorso del P.G., avrebbero implicitamente ritenuto la legittimazione sul punto dello stesso P.G..
In ordine alla seconda questione, l’ordinanza di rimessione segnala decisioni che hanno ritenuto non irragionevole il riferimento a un criterio aritmetico – custodia cautelare pari ai 2/3 della pena inflitta o che si ritiene possa essere inflitta – per fare cessare gli effetti della misura custodiale a prescindere dalla persistenza delle esigenze cautelari e decisioni che hanno sottolineato come il mero parametro aritmetico sia, da un lato, inidoneo a una complessiva valutazione delle condizioni necessarie a far cessare la custodia cautelare e, dall’altro, si risolva, indirettamente, in una sorta di riduzione dei termini di fase della custodia cautelare stabiliti per legge.
Quanto alla terza questione, l’ordinanza, a fronte di un orientamento che esclude che il giudice di legittimità possa disporre il ripristino della misura cautelare, indica un’unica decisione, che ha ritenuto effetto dell’annullamento con rinvio della Corte di cassazione l’immediata “reviviscenza” della misura cautelare revocata, qualora le esigenze cautelari siano state affermate sia dalla Corte di merito in sede di rigetto dell’istanza di revoca, sia dal Tribunale della libertà nell’ordinanza di accoglimento dell’appello proposto dall’imputato.
Con decreto del 23 aprile 2009 il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando per la sua discussione l’odierna udienza camerale.
Ha depositato memoria difensiva il difensore di Colangelo, il quale
- con riferimento alla prima questione osserva che la legittimazione ad impugnare si ispira ad un rigoroso criterio di tassatività, imposto dall’art. 568, comma 3, c.p.p. e che l’art. 311 c.p.p. non lascia spazio ad interpretazioni diverse da quella letterale, assumendo natura speciale anche rispetto al disposto dell’art. 570, comma 1, c.p.p. attributiva della legittimazione ad impugnare in capo alla Procura Generale;
- con riferimento alla seconda questione osserva: a) la proporzione tra regime cautelare e sanzione irrogabile o irrogata deve essere assicurata sempre anche in itinere, poiché assegnando valenza preminente alle esigenze cautelari senza alcun nesso con la gravità del fatto e con la sanzione, parametri di riferimento indicati nell’art. 275, comma 2, c.p.p., la custodia in carcere finirebbe per assumere natura preventiva, perdendo qualsiasi legame con il processo;
b) la disciplina che sancisce la perenzione ex lege della custodia cautelare non esaurisce totalmente l’ambito applicativo del criterio di proporzionalità, altrimenti non avrebbero senso né l’art. 275, comma 2, c.p.p., né l’art. 299, comma 2, c.p.p., che confermano l’attenzione da parte del legislatore circa la necessità di un costante monitoraggio della proporzionalità della misura rispetto alla gravità del fatto ed alla relativa sanzione; d’altro canto, l’art. 304, comma 4, c.p.p., è norma di chiusura destinata ad operare solo quale extrema ratio per i casi patologici;
c) il raggiungimento dei due terzi della pena inflitta in concreto viene considerato dallo stesso Tribunale non quale parametro aritmetico, ma come sintomo del raggiunto superamento del limite di proporzione, con una valutazione riconducibile alla discrezionalità del giudice;
- con riferimento alla terza questione osserva:
il Tribunale non si è pronunciato sulla persistenza delle esigenze cautelari, avendo ritenuto assorbente il canone di proporzione, e ciò non consentirebbe di dare esecuzione al provvedimento con cui la Corte di Cassazione ritenesse di annullare con rinvio l’ordinanza di scarcerazione
MOTIVI DELLA DECISIONE
La prima questione sottoposta all’esame di queste Sezioni Unite e che assume carattere pregiudiziale è quella se il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello sia legittimato ad impugnare l’ordinanza di revoca della misura cautelare della custodia in carcere, decisa, in difformità della pronuncia della Corte di Appello, dal Tribunale quale giudice di appello sui provvedimenti de libertate.
Sui contrasti relativi all’individuazione del p.m. legittimato a proporre ricorso per cassazione nei procedimenti in materia di libertà le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi con riferimento al sistema delle impugnazioni precedente all’intervento del legislatore con il d.l. 23 ottobre 1996, n. 553, convertito in legge 23 dicembre 1996, n. 652.
Infatti, subito dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, le Sezioni Unite, con sentenza 31 maggio 1991, n. 8, Faraco, rv. 187860 (confermata con sentenza 20 novembre 1996 – 29 gennaio 1997, n. 23, Bassi, rv. 206658), furono chiamate a risolvere il contrasto in ordine all’identificazione del pubblico ministero legittimato a partecipare al procedimento di riesame di cui all’art. 309 c.p.p. o a quello di appello di cui all’art. 310 c.p.p. (e conseguentemente a ricevere l’avviso di fissazione della relativa udienza camerale) e a ricorrere per cassazione ex art. 311 c.p.p. avverso i provvedimenti adottati dal Tribunale della libertà a conclusione di tali procedimenti. Il comma 8 del citato art. 309, prevedeva che l’avviso della data fissata per l’udienza fosse comunicata al “pubblico ministero”, e l’art. 311 c.p.p. attribuiva al “pubblico ministero” la legittimazione al ricorso per cassazione avverso le decisioni emesse dal Tribunale in sede di esame di provvedimenti in materia di libertà.
Erano frequenti i contrasti tra il pubblico ministero che aveva richiesto la misura cautelare e quello che esercitava le proprie funzioni presso il Tribunale del capoluogo, sull’attribuzione della titolarità del potere d’impugnazione nell’incidente cautelare.
Il conflitto era determinato, per un verso, dalla genericità del riferimento al “pubblico ministero” contenuto nelle due norme citate e per l’altro dal fatto che, all’epoca, giudice competente a decidere sulle istanze di riesame e sugli appelli cautelari era il Tribunale del capoluogo della provincia nella quale aveva sede quello che aveva emesso il provvedimento impugnato, potendo la richiesta della misura provenire dal Procuratore della Repubblica presso la Pretura ovvero da quello presso uno dei Tribunali provinciali diversi da quello del capoluogo.
Le citate Sezioni Unite affrontarono la questione con riferimento alla legittimazione del procuratore della Repubblica presso la Pretura, ma chiarirono subito che <<la questione circa l'organo del pubblico ministero legittimato a partecipare ai procedimenti di riesame e di appello si può porre oltre che per il procuratore della Repubblica presso la pretura, per il procuratore della Repubblica presso un tribunale diverso da quello del capoluogo della provincia e per il procuratore generale presso la corte d'appello, quando sono i provvedimenti di questa corte a formare oggetto di riesame o di appello>>; ritennero, quindi, che dovesse essere disatteso l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale <<naturale destinataria dell'avviso sia la parte pubblica interessata alla trattazione delle procedure e che sia nelle condizioni di utilmente interloquire>> ed affermarono la esclusiva legittimazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale della libertà a proporre impugnazione avverso i provvedimenti emessi da quest’ultimo, richiamando il principio <<basilare del nostro sistema processuale, che vuole la competenza del pubblico ministero strettamente collegata con quella del giudice presso il quale il primo è costituito. Si tratta di un principio tradizionale che, (…), trova conferma nel senso complessivo dell’art. 51 c.p.p. e degli art. 2 e 70 dell’ordinamento giudiziario (come sostituiti dagli art. 2 e 20 d.p.r. 22 settembre 1988 n. 449) e rispetto al quale non sono previste deroghe per il riesame e l’appello in materia di misure cautelari>>.
Sulla stessa linea interpretativa, la giurisprudenza successiva ha affermato la legittimazione esclusiva del Procuratore della Repubblica presso l’organo decidente a impugnare i provvedimenti emessi dal tribunale ai sensi degli artt. 309 e 310 c.p.p.; mentre, però, si rinvengono decisioni che esplicitamente traggono da tale affermazione di principio, la esclusione anche della concorrente legittimazione del Procuratore generale presso la Corte d’Appello (esclusione già affermata, sia pure incidentalmente, dalla citata sentenza delle Sezioni Unite) (Sez. I, 28 ottobre 1993, n. 4528, Dell’Asta, rv. 195912), altre pronunce si sono espresse, in modo, peraltro, del tutto incidentale e apodittico, nel senso che <<ovviamente>> resta ferma <<la generale legittimazione del procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello ad impugnare ogni provvedimento emesso dai giudici del distretto>> (Sez. I, 25 ottobre 1993 – 8 marzo 1994, n. 4425, Recchia, rv. 196798; Sez. I, 28 gennaio 1994, n. 581, Gentile, rv. 196850).
A seguito dell’intervento legislativo (D.L. 23 ottobre 1996, n. 553, convertito in legge 23 dicembre 1996, n. 652) che ha concentrato in sede distrettuale le funzioni di giudice del riesame e dell’appello cautelare, è stato previsto che anche il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura cautelare, se diverso da quello presso il Tribunale della libertà, possa partecipare all’udienza davanti al medesimo Tribunale (art. 309, comma 8 bis, c.p.p.) e possa presentare ricorso per cassazione (art. 311, comma 1, c.p.p.).
Nel mutato assetto normativo le decisioni di questa Suprema Corte, che hanno esaminato espressamente la problematica in esame, hanno escluso la legittimazione del Procuratore Generale presso la Corte di Appello a ricorrere per cassazione avverso le ordinanze del Tribunale della libertà, anche in fattispecie identica a quella oggetto del presente procedimento, in cui il Procuratore generale aveva presentato ricorso per cassazione avverso ordinanze del Tribunale della libertà che riguardavano provvedimenti di rigetto della richiesta della revoca della misura emessi dalla Corte d’appello, circostanza che aveva fatto ritenere al ricorrente la propria legittimazione all’impugnazione in quanto organo dell’accusa istituito presso il giudice dinanzi al quale pendeva il procedimento principale cui accedeva quello incidentale in materia di libertà personale.
Si afferma, infatti, che l'allargato riconoscimento della legittimazione a ricorrere per cassazione anche al p.m. che ha richiesto l'applicazione della misura, in espressa deroga al principio tradizionale della competenza di ordine derivato del pubblico ministero, non consente affatto di estendere ulteriormente siffatta legittimazione anche al procuratore generale presso la corte d'appello, perché l'art. 568, comma 3, c.p.p. stabilisce che "il diritto d'impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce"; né si ritiene applicabile per analogia il disposto dell'art. 608, primo comma, c.p.p. che, nell'attribuire al procuratore generale il potere di ricorrere per cassazione, si riferisce esclusivamente ad "ogni sentenza di condanna o di proscioglimento pronunciata in grado di appello o inappellabile" (Sez. I, 19 gennaio 1998, n. 266, Venturini, rv. 209849; Sez. VI, 22 dicembre 1997 – 3 febbraio 1998, n. 5190, Nasrale, rv. 210827; Sez. VI, 21 maggio 1997 n. 2015, Antonelli, rv. 209328; Sez. V, 11 febbraio 1997, Hoummadi Belgacem, rv. 207176; Sez. VI, 20 maggio 1997, n. 2002, Dakone, rv. 208008; Sez. VI, 2 maggio 1997, n. 1860, Colelli, rv. 208290).
In contrasto con tali affermazioni di principio possono citarsi molteplici decisioni che hanno deciso ricorsi per cassazione presentati dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello avverso ordinanze adottate dal Tribunale della libertà. Si tratta, peraltro, di decisioni le quali non affrontano in alcun modo, neppure incidentalmente, la questione della legittimazione del P.G. ricorrente (Sez. I, 3 febbraio 2009, n. 9233, Zochlami; Sez. I, 14 gennaio 2009, n. 4436, Arda; Sez. II, 12 dicembre 2008 – 9 gennaio 2009, n. 531, Zaki; Sez. I, 18 novembre 2008, n. 44364, Monfardini; Sez. VI, 9 ottobre 2008, n. 38868, Abdali,; Sez. V, 11 luglio 2007, n. 36685, Mandakie; Sez. VI, 28 maggio 2008, n. 25181, Look; Sez. I, 19 settembre 2007, n. 36417, Alvarado Gallegos; Sez. IV, 10 luglio 2007, n. 35713, Mohamed; Sez. II, 7 giugno 2007 n. 35587, Khelifi).
Soltanto una recentissima decisione (Sez. I, 19 marzo 2009, n. 20789, Iyere) si esprime motivatamente in senso favorevole alla legittimazione del Procuratore Generale, affermando che la norma di cui all’art. 311, comma 1, c.p.p., non può ritenersi tassativa e derogatoria di un principio generale dell’ordinamento processuale penale, che interpreta di regola il termine “pubblico ministero” con riferimento sia al Procuratore della Repubblica che al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello. Tale sentenza ravvisa, poi, una “evidente incongruenza” nell’escludere la legittimazione del P.G. e nel ritenere legittimato, invece, <<il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura>> (art. 311 cit.), il quale, una volta pervenuto il procedimento alla fase del giudizio, ignorerà del tutto le vicende della misura dallo stesso domandata, allorché la revoca di essa venga eventualmente adottata da autorità giudiziaria diversa da quella che ha emesso la misura.
Queste Sezioni Unite ritengono che quest’ultimo orientamento giurisprudenziale non possa essere accolto, per ragioni sia di carattere testuale che di ordine logico – sistematico.
La tematica concernente la questione all’esame risulta già affrontata, come si è detto, dalla citata sentenza n. 8 del 1991 delle Sezioni Unite, ma con riferimento al principio, considerato tradizionale nel nostro ordinamento, in quanto già affermato sotto il vigore del precedente sistema processuale (Sez. Un. 20 giugno 1990, n. 5, Corica, rv. 185283) secondo il quale la competenza del p.m. è strettamente collegata con quella del giudice presso cui è costituito, fino a ritenere necessario che tra giudice dell’appello e pubblico ministero debba esistere un rapporto di “simmetria”, sul quale si innesta anche la titolarità del potere di impugnazione.
Nel valutare la attuale portata del principio tradizionale, le Sezioni Unite hanno preso in considerazione anche gli interventi legislativi che hanno introdotto deroghe abbastanza consistenti al principio generale. In particolare il D.L. 20 novembre 1991 n. 367, convertito con modificazioni, dalla L. 20 gennaio 1992 n. 8, ha istituito le Procure distrettuali, per alcuni reati di criminalità organizzata, ma non anche i corrispettivi tribunali distrettuali. Così, mentre la competenza del G.I.P. risulta collegata a quella del P.M., con l'introduzione del comma 1 bis all'art. 328 c.p.p. (ad opera dell'art. 12 del D.L. 20 novembre 1991, n. 367), è previsto che il p.m. della Procura distrettuale svolga le funzioni in giudizio per i procedimenti di propria competenza ed il meccanismo dell'applicazione risulta invertito: la presenza in dibattimento di un p.m. dell'ufficio costituito presso il giudice competente (che sarebbe "naturalmente" competente per quel giudizio) deve essere richiesta dal procuratore distrettuale e disposta dal procuratore generale presso la Corte di Appello solo in presenza di giustificati motivi (art. 51 comma 3 ter c.p.p.). Rilevano in materia anche le innovazioni legislative introdotte dalla legge 23 dicembre 1996 n. 652, che ha convertito con modificazioni il D.L. 23 ottobre 1996 n. 553, di cui sopra si è detto.
Tuttavia, queste innovazioni legislative sono state ritenute dalle Sezioni Unite (Sez. Un., 30 aprile 1997, n. 6402, Dessimone, rv. 207941) deroghe circoscritte a materie e ispirate a finalità particolari, che non intaccano significativamente il principio basilare del nostro sistema processuale penale, in virtù del quale gli uffici requirenti di norma costituiscono una sorta di simbiosi con quelli giudicanti, restando attribuite dall'art. 51, comma 3, in via generale le funzioni del p.m. in via di azione all'"ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente a norma del capo II del titolo I" (e cioè all'ufficio presso il giudice investito della domanda, ex artt. 4-16 c.p.p.). L’applicazione di tale principio ha portato ad escludere la legittimazione all'impugnazione della sentenza di appello del rappresentante del p.m. autorizzato a partecipare al successivo grado di giudizio quale sostituto del procuratore generale presso la corte di appello (art. 51, comma 3 ter, c.p.p.).
Le Sez. Un. 19 gennaio 2000, n. 3, Zurlo, rv. 215213, richiamando la citata sentenza n. 6402 del 1997, conferiscono, peraltro, particolare rilievo al principio di tassatività in tema di impugnazioni (art. 568 c.p.p.) nel riconoscere la esclusiva legittimazione al ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 311 c.p.p., al P.M. presso il Tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente, escludendo la concorrente legittimazione del P.M. presso il giudice territorialmente competente a conoscere uno dei delitti indicati nell'art. 51, comma 3-bis, c.p.p., a nulla rilevando che quest'ultimo sia stato designato a svolgere le funzioni di pubblico ministero nel dibattimento a norma dell'art. 51, comma 3-ter c.p.p.
L’ultimo intervento delle Sezioni Unite in tema di individuazione del p.m. legittimato all’impugnazione è quello della sentenza 31 maggio 2005, n. 22531, Campagna, rv. 231056, la quale, riconoscendo anche al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello del relativo distretto la legittimazione ad impugnare le sentenze del giudice di pace, afferma che l'art. 570 c.p.p., che disciplina le "impugnazioni del Pubblico Ministero", usa una formula onnicomprensiva, riferibile sia al Procuratore della Repubblica che al Procuratore Generale, attribuendo al secondo il potere di proporre impugnazione contro i provvedimenti emessi dai giudici del distretto, anche quando il Pubblico Ministero del circondario abbia già compiuto in merito la sua valutazione positiva o negativa. Il fondamento della legittimazione del Procuratore Generale viene ravvisato in un complesso normativo, esplicativo del disposto dell’art. 570 c.p.p., contenuto negli artt. 548, comma 3, 585, comma 2, lett. d, e 608, comma 4, c.p.p., che precisa le modalità di esercizio del diritto d'impugnazione, prescrivendo gli adempimenti necessari a far conoscere al suo titolare "i provvedimenti emessi in udienza da qualsiasi giudice" della circoscrizione diverso dalla Corte d'Appello.
La ricostruzione dei principali orientamenti giurisprudenziali in materia di impugnazioni del p.m. consente di affermare che il sistema, complesso e variegato, è dominato sopra tutti gli altri da un principio fondamentale, quello di tassatività, sancito dall'art. 568 c.p., che disciplina non solo "i casi nei quali i provvedimenti del giudice sono soggetti a impugnazione e ... il mezzo con cui possono essere impugnati" ma anche i soggetti cui è espressamente conferito dalla legge il diritto di impugnazione; principio al quale bisogna fare riferimento, sia pure nel quadro di quello tradizionale della competenza del p.m. “derivata” da quello del giudice presso il quale è costituito, che assume un valore tendenziale in assenza di specifiche diverse disposizioni.
E’ proprio il dato testuale dell’espressa indicazione dei pubblici ministeri legittimati a proporre ricorso per cassazione avverso le ordinanze del Tribunale della libertà, in sede di riesame o di appello, che esclude, in applicazione del suddetto principio, la possibilità di impugnazione da parte del Procuratore Generale presso la Corte di Appello.
Né vale osservare che di regola il termine “pubblico ministero” è interpretato con riferimento sia al Procuratore della Repubblica che al Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello, poiché, nel caso di specie, il testo normativo non fa riferimento generico al “pubblico ministero”, ma specifica espressamente che legittimati all’impugnazione sono “il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura” e “il pubblico ministero presso il Tribunale indicato nel comma 7 dell’art. 309” (tribunale del luogo nel quale ha sede la corte di appello o la sezione distaccata di corte di appello nella cui circoscrizione è compreso l’ufficio del giudice che ha emesso l’ordinanza): la volontà del legislatore è stata in tal modo chiaramente circoscritta con l’indicazione perentoria dei soggetti legittimati all’impugnazione e non può essere consentita alcuna interpretazione estensiva, che non troverebbe, inoltre, alcun fondamento logico – sistematico.
Infatti, la interpretazione sistematica del termine “pubblico ministero” adottata dalla citata sentenza delle Sezioni Unite n. 22531 del 2005 esaurisce il suo ambito di applicabilità con riferimento all’ordinario processo di cognizione, e non si estende, come del resto espressamente specificato dalla stessa sentenza, ai procedimenti incidentali, che per le loro spiccate peculiarità impongono delle deroghe alle regole generali con riflessi anche sul regime delle impugnazioni; proprio a tali procedimenti può riferirsi l’inciso “nei casi stabiliti dalla legge” contenuto nel disposto dell’art. 570, comma 1, c.p.p.
Alle stesse conclusioni la giurisprudenza è pervenuta in materia esecutiva, affermando che la legittimazione ad impugnare i provvedimenti adottati dal giudice dell'esecuzione spetta, in via esclusiva, per espressa designazione del legislatore, al P.M. che ha assunto il ruolo di parte nel procedimento, non potendosi riconoscere al P.G. presso la Corte d'appello un potere di surroga assimilabile a quello attribuitogli dall'art. 570 c.p.p. nel giudizio di cognizione (da ultimo, Sez. I, 27 ottobre 2006, n. 38846, Raffaelli, riv. 235981; Sez. I, 13 giugno 2003, n. 30168, Vincis, rv. 225060; Sez. III, 19 febbraio 2003, n. 20242, Morgana, rv. 224471; Sez. IV 21 giugno 2001, n. 30200, Benzi, rv. 219587).
La legge, in tema di impugnazioni, non concede al Procuratore Generale un ampio e indeterminato potere che gli consenta di proporre impugnazione in ogni e qualsiasi ipotesi; pertanto, risulta evidente che anche nei suoi riguardi deve trovare applicazione la fondamentale norma per cui il diritto di impugnare spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce. D’altro canto, gli uffici del p.m. hanno autonomia processuale propria e distinta e l’esigenza di certezza nell’attribuzione del diritto di impugnazione se vale rispetto alle singole parti private non vale meno nei riguardi dei singoli organi per mezzo dei quali il pubblico ministero può agire.
Neppure sussiste una “evidente incongruenza” nell’escludere la legittimazione del P.G, che ha reso le sue valutazioni in ordine alla conferma, modifica o revoca della misura cautelare innanzi alla Corte di Appello, e nel ritenere legittimato, invece, <<il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura>>, incongruenza segnalata dalla giurisprudenza che sostiene l’opposta tesi interpretativa; così come non è configurabile alcuna violazione di principi costituzionali, come sembra sostenere il P.G. ricorrente, senza, peraltro, indicare le norme costituzionali che si assumerebbero violate.
Occorre, infatti, osservare, che la soluzione adottata dal legislatore non intacca in alcun modo il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, poiché le norme in ipotesi censurabili attengono ad un procedimento di impugnazione che consegue ad un’azione penale già esercitata, né è tale da determinare alcun grave squilibrio informativo a danno dell'accusa, in quanto il pubblico ministero presso il tribunale competente per la decisione dispone di tutti gli atti su cui si fonda il provvedimento oggetto di impugnazione, mentre un efficace coordinamento informativo tra uffici del P.M. può pur sempre essere realizzato anche alla luce del criterio adottato nell'art. 371 c.p.p., che, nell'ipotesi, sia pure diversa, di indagini collegate, prevede forme di coordinamento, cooperazione e scambio di atti e di informazioni tra i diversi uffici del pubblico ministero (in tal senso, Corte Costituzionale sent. n. 432 del 1992), in tal modo esprimendo un principio generale di collaborazione istituzionale, che può attuarsi anche con segnalazioni e sollecitazioni del Procuratore Generale presso la Corte di appello, al quale, a norma dell’art. 6 del D.Lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, è attribuito il potere - dovere di <<verificare il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale ed il rispetto delle norme sul giusto processo>>.
Né consegue che i rilievi critici mossi dal P.G. ricorrente sollevano soltanto problemi di opportunità della soluzione legislativa prescelta, la cui valutazione è affidata esclusivamente alla sfera discrezionale del legislatore.
Deve, dunque, essere affermato il seguente principio di diritto: il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello non è legittimato, salvo che sia stato egli stesso a chiedere l’applicazione della misura cautelare, a proporre ricorso per cassazione avverso l’ordinanza del Tribunale quale giudice di appello sui provvedimenti in materia di libertà adottati dalla Corte di appello.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile per mancanza di legittimazione a proporlo del P.G. ricorrente.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.