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Sezione di Barletta

 
   
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Cassazione Civile, Sez. lavoro, sentenza del 14/08/2008, n. 21680
martedì 18 novembre 2008 - Pubblicazione a cura di Angela Lorusso

"Nella controversia concernente la validità di un licenziamento intimato per insubordinazione del lavoratore consistita nel rifiuto di svolgere le nuove mansioni affidategli dal datore di lavoro, ove il dipendente deduca l'illegittimo esercizio dello "ius variandi" in relazione all'art. 2103 c.c., con ciò formulando una eccezione di inadempimento nei confronti della controparte, il giudice adito deve procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando in primo luogo la correttezza dell'operato del datore di lavoro in relazione all'eventuale illegittimità dell'esercizio dello "ius variandi" e tenendo conto della rispondenza a buona fede del comportamento del lavoratore, occorrendo valutare alla luce dell'obbligo di correttezza ex art. 1460 c.c., il rifiuto di quest'ultimo (Cass. 12 luglio 2002 n. 10187). Nel caso in esame, la Corte d'appello, dopo avere dato atto dell'eccedenza del personale impiegatizio addetto al magazzino, denunciata nella lettera di apertura della procedura di mobilità e confermata nell'Accordo Sindacale del 20 settembre 2000, ha osservato come il rifiuto dell' A. di svolgere le nuove mansioni assegnatele, rese necessarie dalle rinnovate esigenze aziendali, fosse del tutto ingiustificato, essendo dette mansioni dello stesso livello, sotto il profilo dell'inquadramento contrattuale, di quelle originariamente svolte dalla lavoratrice."


Svolgimento del processo
 
Con sentenza del 21 gennaio - 21 febbraio 2002 il Tribunale di Milano accoglieva il ricorso di P. CAVI E SISTEMI ENERGIA ITALIA S.p.A. diretto all'accertamento della legittimità del licenziamento intimato alla dipendente A.M.L. e disposto a seguito del rifiuto della lavoratrice al mutamento delle mansioni, senza neppure aderire alla richiesta di sottoporsi a visita medica per l'accertamento della idoneità specifica alla mansione.
 
Affermava il Tribunale che il rifiuto aprioristico dello ius variandi del datore di lavoro non era legittimo, mentre in via di exceptio inadimplendi poteva diventare lecito a fronte della accertata grave inferiorità o eterogeneità delle nuove mansioni.
 
Avverso tale sentenza proponeva appello l'A. che rimproverava al primo Giudice di avere trascurato i fatti e le circostanze "a monte" del rifiuto al cambiamento di mansioni, che, almeno soggettivamente, giustificavano quel rifiuto. Inoltre, secondo l'appellante, il Tribunale aveva errato per avere giudicato la lavoratrice inadempiente senza esaminare se l'esercizio dello ius variandi fosse o meno legittimo e, specificatamente, altre circostanze decisive, quale il fatto che la mansione di arrivo si identificava con una funzione appena abolita e che il preteso esubero di personale del reparto magazzino era stato negato dal Tribunale di Ascoli Piceno in occasione del giudizio relativo al primo licenziamento. L'appellata si costituiva, resistendo al gravame.
 
Con sentenza del 21 gennaio - 15 settembre 2004, l'adita Corte d'appello di Milano rigettava l'impugnazione. A sostegno del decisum osservava che il rifiuto della A. di svolgere le nuove mansioni assegnatele era privo di giustificazione sia perchè il mutamento era avvenuto in dipendenza dell'eccedenza di tutto il personale impiegatizio addetto al magazzino, tra cui l'appellante, sia perchè le nuove mansioni assegnatele erano del medesimo livello di quelle in precedenza svolte.
 
Per la cassazione di tale pronuncia ricorre A.M.L. con due motivi. Resiste la P. Cavi e Sistemi Energia Italia Srl, già P. Cavi e Sistemi Energia Italia spa con controricorso proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo.
 
Motivi della decisione
 
Va preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza (art. 335 c.p.c.).
 
Con il primo motivo di ricorso, l' A., denunciando violazione e falsa applicazione degli artt 2103 e 1460 c.c., nonché vizio di motivazione in ordine ad un punto essenziale della controversia ed alla mancata ammissione di mezzi di prova, lamenta che la Corte d'appello abbia ritenuto illegittimo di per se il proprio rifiuto di espletare nuove mansioni alle quali il datore di lavoro l'aveva destinata, benché ella ritenesse che l'adibizione fosse stata disposta illegittimamente e con violazione dell'art. 2103 c.c., o, quanto meno, che fosse prima necessario l'effettivo disbrigo delle mansioni stesse, onde poter, poi, invocare l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., ed astenersi da ulteriore prestazione di servizio. Corretto doveva, invece, ritenersi l'opposto principio secondo cui nessuno è responsabile di inadempimento per il fatto in sé di aver rifiutato la propria prestazione, se, poi, la sua denunzia di inadempimento, dall'altra parte, risulti, comunque, fondata. Sia il Tribunale di Milano che la Corte d'Appello di Milano dovevano, dunque, - prosegue la ricorrente - verificare la fondatezza e legittimità del rifiuto, consentendole di fornire la dimostrazione della stessa. La ricostruzione fattuale della fattispecie, quale risultante dall'espletamento delle prove richieste - sostiene ancora la ricorrente, con il secondo motivo, invocando la violazione e falsa applicazione della L. 20 aprile 1970, n. 3000, art. 7, e vizio di motivazione - avrebbe consentito di valutare l'illegittimità del licenziamento anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo, ossia di una giustificabile percezione, da parte della lavoratrice, di una pretestuosità, almeno apparente, del provvedimento datoriale; ma a tale profilo nessuna attenzione sarebbe stata dedicata nella motivazione della sentenza.
 
Il ricorso, pur valutato nelle sue diverse articolazioni, è privo di fondamento. Giova premettere che il Giudice d'appello è pervenuto alle contestate conclusioni muovendo da un principio più volte affermato da questa Corte, secondo cui nella controversia concernente la validità di un licenziamento intimato per insubordinazione del lavoratore consistita nel rifiuto di svolgere le nuove mansioni affidategli dal datore di lavoro, ove il dipendente deduca l'illegittimo esercizio dello "ius variandi" in relazione all'art. 2103 c.c., con ciò formulando una eccezione di inadempimento nei confronti della controparte, il giudice adito deve procedere ad una valutazione complessiva dei comportamenti di entrambe le parti, verificando in primo luogo la correttezza dell'operato del datore di lavoro in relazione all'eventuale illegittimità dell'esercizio dello "ius variandi" e tenendo conto della rispondenza a buona fede del comportamento del lavoratore, occorrendo valutare alla luce dell'obbligo di correttezza ex art. 1460 c.c., il rifiuto di quest'ultimo (Cass. 12 luglio 2002 n. 10187). Nel caso in esame, la Corte d'appello, dopo avere dato atto dell'eccedenza del personale impiegatizio addetto al magazzino, denunciata nella lettera di apertura della procedura di mobilità e confermata nell'Accordo Sindacale del 20 settembre 2000, ha osservato come il rifiuto dell' A. di svolgere le nuove mansioni assegnatele, rese necessarie dalle rinnovate esigenze aziendali, fosse del tutto ingiustificato, essendo dette mansioni dello stesso livello, sotto il profilo dell'inquadramento contrattuale, di quelle originariamente svolte dalla lavoratrice. Né poteva avere rilevanza l'assunto della stessa A. secondo cui le nuove mansioni, ancorché appartenenti al medesimo livello di inquadramento contrattuale rispetto alle prime, non avrebbero consentito l'utilizzazione della professionalità acquisita, poiché - come lascia intendere il Giudice a quo in maniera implicita, ma non per questo poco chiara - tale equiparazione non giustificava in alcun modo un rifiuto aprioristico della lavoratrice di loro svolgimento, senza che questa neppure si adoperasse ad acclarare, nella concreta attuazione delle stesse, la fondatezza dell'assunto. Il rifiuto, pertanto, in questo contesto doveva ritenersi sproporzionato e non conforme a buona fede, dettato "più dai sospetto di un comportamento del datore di lavoro elusivo degli obblighi di legge, che non da motivi obiettivi che, neppure in appello vengono sostenuti da argomentazioni convincenti".
 
Devesi, in proposito, ancora rammentare, costituendo specifico motivo di gravame, unitamente a quello ricondotto al vizio di violazione di legge, che la denuncia di un vizio di motivazione, nella sentenza impugnata con ricorso per cassazione (ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5) non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico - formale, le argomentazioni - svolte dal giudice del merito, al quale spetta in via esclusiva l'accertamento dei fatti, all'esito della insindacabile selezione e valutazione della fonti del proprio convincimento - con la conseguenza che il vizio di motivazione deve emergere - secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte (v., per tutte, Cass. S.U. n. 13045/97) - dall'esame del ragionamento svolto dal giudice di merito, quale risulta dalla sentenza impugnata, e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico- giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato, attribuiti dallo stesso giudice di merito agli elementi da lui vagliati, ed il valore e significato diversi che, agli stessi elementi, siano attribuiti dal ricorrente ed, in genere, dalle parti.
 
In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto - consentito al giudice di legittimità (dall'art. 360 c.p.c., n. 5) - non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio", ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata: invero una revisione siffatta si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto, riservato al giudice del merito, e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità. Nella specie, non ravvisandosi nell'iter argomentativo del Giudice d'appello violazioni di legge ed incongruenze o deficienze motivazionali, il motivo deve essere disatteso. Va disatteso anche il secondo motivo con cui si sostiene una violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in considerazione di una soggettiva percezione "putativa", da parte dell' A., di una "pretestuosità, almeno apparente, del provvedimento datoriale". Invero, come precisato da questa Corte in analoghe occasioni, nell'ipotesi di licenziamento disciplinare incombe al lavoratore di dimostrare che l'inadempimento accertato non è imputabile ad una sua volontà di sottrarsi ingiustamente alla prestazione o al comportamento dovuto e a tal fine non rilevano le rappresentazioni soggettive che l'obbligato, sia pure in buona fede, si faccia della giustificazione della propria condotta (Cass. 27 novembre 1997 n. 11998).
 
Per quanto esposto, il ricorso principale va rigettato con assorbimento di quello incidentale condizionato. La peculiarità della fattispecie induce a compensare le spese del presente giudizio.
 
P.Q.M.
 
La Corte: Riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e dichiara sorbito l'incidentale. Compensa le spese del presente giudizio. Depositato in Cancelleria il 14 agosto 2008.