domenica 2 novembre 2008 - Pubblicazione a cura di Roberto Cerasaro
TRIBUTI ERARIALI INDIRETTI - I.V.A. - ABUSO DEL DIRITTO - LOCAZIONE FINANZIARIA
In tema di IVA, la Suprema Corte, facendo applicazione dei principi enunciati dalla Corte di Giustizia CE nella recente sentenza 21 febbraio 2008, in causa C-425/06, Part Service S.r.l., ha ritenuto che possa configurare un abuso del diritto (o di forme giuridiche), in quanto avente come scopo principale il conseguimento di un risparmio d'imposta, il frazionamento di un contratto di leasing in una pluralità di contratti distinti, aventi ad oggetto rispettivamente la concessione dell'utilizzazione di un bene, il procacciamento della provvista finanziaria necessaria e l'assicurazione contro i rischi della perdita o del deperimento economico del bene fornito, affermando che tale frazionamento, in quanto volto a ridurre l'importo del corrispettivo soggetto ad imposta, è inopponibile all'Amministrazione finanziaria, la quale può pertanto qualificare la fattispecie come un'unica operazione, as-sumendo come base imponibile la sommatoria dei corrispettivi contrattuali pagati dall'utilizzatore. Al riguardo, è stato tuttavia precisato che l'onere di individuare l'impiego abusivo di forme giuridiche incombe all'Amministrazione, la quale non può limitarsi a generiche affermazioni, ma è tenuta a precisare gli aspetti e le particolarità che inducono a ritenere l'operazione priva di un reale contenuto economico.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ALTIERI Enrico - rel. Presidente -
Dott. D'ALONZO Michele - Consigliere -
Dott. BOGNANNI Salvatore - Consigliere -
Dott. CARLEO Giovanni - Consigliere -
Dott. MELONCELLI Achille - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MINISTERO DELLE FINANZE, attualmente MINISTERO DELL'ECONOMIA E DELLE FINANZE, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi, 12, è per legge domiciliato;
- ricorrente -
contro
PART SERVICE s.r.l. (già ITALSERVICE s.r.l.) in liquidazione, in persona del liquidatore, con sede in (OMISSIS), elettivamente domiciliata in Roma, Via Po n. 8, presso l'avv. TAVERNA Salvatore, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
- controricorrente e ricorrente incidentale -
avverso la sentenza della corte d'appello di Bologna depositata il 12 gennaio 1999;
udita la relazione svolta in Camera di consiglio il 24 settembre 2008 dal Presidente Dott. Enrico Altieri;
sentite le conclusioni del Procuratore Generale, Dott. Riccardo Fuzio, il quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale e il rigetto del ricorso incidentale;
sentito per la Part Service l'Avv. Salvatore Taverna, il quale ha chiesto l'inammissibilità o il rigetto del ricorso principale e l'accoglimento del ricorso incidentale.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO<
Ad esito di verifiche compiute nei confronti della Italservice s.p.a.
(poi Part Service s.p.a.), con sede in (OMISSIS), la Guardia di Finanza riferiva, con processo verbale di constatazione, che la società aveva partecipato, insieme ad altra società di leasing dello stesso gruppo (Ifim s.a.s.), ad operazioni di locazione finanziaria e di costituzione di usufrutto aventi ad oggetto, per la maggior parte, autoveicoli. La partecipazione della società consisteva nell'assicurare il bene contro rischi diversi dalla responsabilità civile e nel garantire, con cauzione pari al costo del bene non coperto dai canoni e con fideiussione illimitata, l'adempimento degli obblighi assunti dall'utilizzatore verso la società concedente. Ciò verso un corrispettivo pagato anticipatamente dall'utilizzatore alla Italservice. A tale corrispettivo taceva riscontro una compressione dell'importo globale dei canoni convenuti dall'utilizzatore con la società di leasing, fino a ridurre, nella maggior parte dei casi, i canoni ad importi di poco superiori al costo del bene, oltre ad una provvigione dell'1% corrisposta ad un consulente. Il ricavo della società di leasing veniva integrato da un compenso a titolo di intermediazione corrisposto da Italservice; in caso d'inadempimento dell'utilizzatore, l'integrazione era costituita da una somma promessa dalla società a quest'ultimo a titolo di sconto condizionato al puntuale pagamento verso la concedente. Secondo i verbalizzanti, le operazioni conseguivano il risultato pratico di contrarre la base imponibile I.V.A. dell'operazione di leasing a causa della riduzione dei canoni, mentre i corrispettivi che l'Italservice riceveva dall'utilizzatore e quelli che a sua volta pagava alla società di leasing venivano fatturati in esenzione da I.V.A., ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10. Tali pattuizioni, anche se contenute in distinti contratti tra Italservice e la società di leasing (convenzione generale), tra la prima e l'utilizzatore (convenzione assicurativa, riguardante anche le garanzie) e tra società di leasing e utilizzatore (contratto di locazione finanziaria), costituivano, nel loro complesso, un negozio unitario a tre parti: il corrispettivo pagato dall'utilizzatore per la locazione finanziaria veniva artificiosamente frazionato per ridurre l'imponibile, mentre il ruolo di concedente il leasing veniva ripartito tra la società di leasing e la Italservice.
Sulla base di tale verbale l'ufficio I.V.A. di Modena notificava alla società Italservice, in data 1 settembre 1992, un avviso di accertamento in rettifica, con irrogazione di sanzioni, per il 1987, richiedendo una maggiore imposta di L. 3.169.519.000, oltre ad interessi e sanzioni per L. 9.496.469.000. L'accertamento veniva impugnato dalla società dinanzi alla commissione tributaria di primo grado di Modena, deducendo che non ricorreva un unico contratto, ma una pluralità di contratti collegati, adottata non a fini elusivi, ma per valide ragioni economiche attinenti al marketing (lancio di un nuovo prodotto finanziario con premi compressi), all'organizzazione (divisione delle funzioni di gestione del rischio: assicurazione, fideiussioni e finanziamenti affidati alla Italservice; gestione dell'autoparco: acquisto delle autovetture, immatricolazione, gestione e controllo bolli, reimmatricolazioni, affidata alle società operative; alla garanzia (il finanziamento fungeva da deposito cauzionale per l'adempimento dell'utilizzatore).
La commissione accoglieva il ricorso, osservando che la stipulazione, da parte dell'utilizzatore, del contratto di leasing e di quello di finanziamento con diversi soggetti, oltre che la difformità fra le funzioni economiche attribuite alle parti, ai due contratti (al primo, di finanziamento e di messa a disposizione del bene mobile; al secondo, la funzione di garanzia) portavano ad escludere la presenza di una causa unica. Nè era consentito all'Amministrazione finanziaria disattendere la configurazione civilistica della disciplina contrattuale voluta dai contraenti, basandosi esclusivamente sugli effetti economici concreti dell'operazione.
L'ufficio impugnava la decisione, ma la commissione tributaria di secondo grado rigettava il gravame.
L'Amministrazione finanziaria ricorreva, quindi, alla corte d'appello di Bologna, la quale rigettava il ricorso con sentenza 13 novembre 1998 - 12 gennaio 1999, con la seguente motivazione:
- vi era da premettere che il giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale si strutturava come giudizio di accertamento negativo della pretesa tributaria, nel quale l'Amministrazione assumeva la posizione di convenuta, per cui le sue difese, configuratesi come eccezioni, potevano essere proposte anche per la prima volta in appello;
- l'Amministrazione finanziaria aveva dedotto la contraddittorietà della decisione, avendo essa riconosciuto che l'attività contrattuale delle parti era rivolta ad un unico risultato economico - sociale e, nei contempo, negato l'esistenza di una fattispecie contrattuale unica. Riproponendo censure già dedotte, sosteneva la non conformità alle norme sull'I.V.A. del preteso smontaggio del canone del leasing finanziario con scorporo della componente finanziaria, connesso alla ripartizione del ruolo del concedente in leasing fra la Italservice e la società di leasing;
- la società, trasformatasi in Part Service s.r.l., insisteva sull'originaria versione, ribadendo la necessità di una diversa organizzazione, finalizzata a contenere il rischio dell'insolvenza dei clienti: il ricorso a due distinti contratti era necessario per ovviare alle inadempienze degli utilizzatori che non potevano essere più rivolte alla concedente, in quanto i locatori si trovavano di fronte un soggetto diverso dal locatore. Di qui l'utilità dei due distinti ed autonomi contratti, che mantenevano intatta la loro autonomia giuridica, non rilevando, quindi, che al contratto di locazione mancasse quasi del tutto la componente finanziaria. In conclusione, i contratto doveva esser considerato con riferimento, non solo all'utilizzatore, ma alla comune volontà dei contraenti;
secondo la corte di merito, attraverso il leasing finanziario un soggetto si procura la disponibilità di un bene di proprietà di terzi, ma che viene acquistato da una società di leasing, che glielo concede per un certo tempo verso un canone periodico. Alla scadenza il concessionario può optare fra l'acquisto del bene per il prezzo residuo, la proroga della locazione o la restituzione del bene. Il contratto contiene normalmente elementi della locazione, della vendita con riserva della proprietà e del finanziamento. Poichè esso costituisce attività cui si dedicano imprese che esercitano abitualmente intermediazione finanziaria, queste possono imbattersi in concessionari inadempienti, che danneggino il bene o ritardino il pagamento dei canoni. Da ciò la necessità di stipulare con società assicurative contratti che sollevino da tale rischio. Di qui la necessità di concludere, accanto al contratto di leasing, un contratto di assicurazione, il cui risultato economico ricade sull'utilizzatore, che corrisponderà un prezzo più elevato del puro canone. Quando è la stessa società finanziaria a stipulare il contratto direttamente con l'assicuratore, essa si rivarrà sui clienti mediante traslazione di una quota del premio. A fianco del canone si costituisce, quindi, una componente autonoma rappresentata dall'equivalente economico della garanzia assicurativa. Poichè nel leasing il canone rappresenta il corrispettivo del godimento del bene, cui si aggiunge una quota del valore del bene, la voce "assicurazione" non può entrare nella causa del leasing, avendo una propria e indipendente funzione economica; la sostanza del problema non muta se, come nel caso di specie, concedente e utilizzatore si accordano nel senso che il premio assicurativo sia corrisposto direttamente dal conduttore ad un terzo. Anche in questo caso i negozi non si trasformano in un unico negozio complesso. Tale figura ricorre, infatti, soltanto quando più rapporti vengono costituiti in vista di uno scopo unitario e sono contrassegnati da unica causa, mentre nel caso in esame le singole convenzioni mantenevano una propria autonomia, anche perchè l'assicurazione del concedente non è requisito indispensabile del leasing;
- applicando i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, la corte di merito osservava che le parti possono effettuare collegamenti fra negozi diversi, in modo da perseguire un risultato economico unitario, attraverso il collegamento dei vari negozi. Tale collegamento non esclude che i singoli contratti si caratterizzino ciascuno in funzione di una propria causa: in altre parole, il collegamento tra i negozi non è indice di una unicità di negozio. Nella specie ciascuno dei contraenti perseguiva un proprio, autonomo interesse: le parti, pur attraverso contratti collegati, avevano voluto concedere il bene in locazione finanziaria verso un corrispettivo (la Ifim s.a.s.), ricevere la cosa locata (utilizzatore) e garantire il buon andamento dell'affare. Le varie clausole aggiunte, volte a rendere più sicura l'operazione, pur in presenza, per alcuno, di un minore utile, non erano di tale portata da fondere le pattuizioni in una causa unica;
- non aveva alcun rilievo il fatto che il contratto - definito come locazione finanziaria - non ricalcasse completamente lo schema dell'usuale contratto di leasing, mancando quasi del tutto nei canoni la componente remunerativa del capitale impiegato nell'acquisto dei beni. Esso costituiva pur sempre un autonomo contratto di locazione, ed assicurava un'apprezzabile redditività anche senza tener conto delle provvigioni corrisposte ad Italservice. Pertanto, avendo le parti regolato univocamente il loro assetto d'interessi, nell'esercizio della loro autonomia contrattuale regolata dall'art. 1322 cod. civ., attraverso distinti e autonomi contratti, pur teleologicamente collegati, tale vincolo non valeva a sottrarre ciascun contratto al proprio regime giuridico e fiscale;
- poichè le imposte sono applicate secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti, non è consentito all'Amministrazione finanziaria prescindere dallo schema negoziale validamente scelto dalle parti. Solo in casi eccezionali e per operazioni tassativamente indicate la normativa tributaria consente al fisco di disconoscere i vantaggi tributari conseguiti in determinate operazioni, ma solo se le stesse siano state poste in essere senza valide ragioni economiche, e all'esclusivo scopo di realizzare fraudolentemente un risparmio d'imposta.
Avverso tale sentenza l'Amministrazione ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di due mezzi d'annullamento. La Part Service s.r.l. resiste con controricorso ed ha, altresì, proposto ricorso incidentale.
p. 2. I motivi del ricorso principale.
2.1. Col primo motivo il Ministero delle Finanze, trasformatosi in Ministero dell'Economia e delle Finanze, denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10; della L. n. 408 del 1990, art. 10; art. 1322 cod. civ.; art. 132 cod. proc. civ.; artt. 1321 e 1322 cod. civ.; degli artt. da 1362 a 1371 cod. civ. e artt. da 2727 a 2729 cod. civ.; art. 2697 cod. civ.; art. 28909 cod. civ.;
artt. 115 e 116 cod. proc. civ.; dei principi generali in materia di contratto, di autonomia contrattuale, di locazione, di locazione finanziaria; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia.
1. La difesa dell'Amministrazione deduce, preliminarmente, che la sentenza impugnata è affetta da nullità radicale, avendo affermato che la causa s'identificava in opposizione ad ingiunzione fiscale, laddove si trattava di opposizione avverso un avviso di accertamento.
Ove dovesse superarsi tale rilievo, viene denunciato, come errore di diritto, t'avere la corte di merito qualificato il contratto di leasing come distinti contratti di locazione e di finanziamento, che invece andavano riguardati unitariamente, come operazione di locazione finanziaria, sicchè il finanziamento non rientrava nella previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 1, essendo parte della locazione finanziaria. Nel caso di specie era incontroverso che Italservice e le imprese di leasing appartenevano al medesimo gruppo finanziario, l'Ifim, essenzialmente dedito all'esercizio del leasing. Dal complesso delle prestazioni derivava per il cliente la normale prestazione di cui gode chi prende in leasing un bene e derivandone al l'Italservice e all'impresa di leasing il corrispettivo spettante al concedente. L'operazione economica era unitaria, e i negozi, pur se distinti, erano inscindibilmente connessi.
Secondo l'Avvocatura, le operazioni di finanziamento, di concessione di mutuo (o credito), di assunzione di fideiussione, esenti ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 10, n. 1, sono quelle che, sia sotto il profilo giuridico, sia economico, sono mere operazioni di finanziamento, mutuo, fideiussione. Se invece l'operazione è, sotto il profilo economico, parte di un'operazione diversa, essa esula dalla ipotesi di esenzione. Nel caso in esame, l'operazione è parte necessitata di un'operazione di locazione finanziaria, ed è quindi soggetta ad I.V.A..
2. Le operazioni non potrebbero neppure rientrare nella previsione di cui al n. 7, dell'art. 10, come operazioni d'intermediazione relative alle operazioni esenti elencate nel medesimo articolo, non potendosi qualificare come intermediazione l'attività svolta ad Italservice.
L'operazione era imponibile, come pure lo erano i vari corrispettivi (provvigione percentuale, bonus) pagati da Italservice all'impresa di leasing. 3. L'Amministrazione ricorrente deduce che, mentre la Italservice aveva sostenuto l'inesistenza di un unitario contratto di leasing, affermando che esistevano due distinti contratti di locazione non finanziaria e di finanziamento, la corte d'appello aveva ritenuto trattarsi di locazione finanziaria (leasing) alla quale si aggiungeva un contratto stipulato tra concessionario e terzo, diretto a procurare al concedente una garanzia diretta a contenere il rischio del concedente. Rileva, inoltre, che nella scheda contrattuale l'intero affare era denominato come leasing, e che tale denominazione era riportata nella convenzione assicurativa. La corte di merito avrebbe - in violazione delle norme e dei principi sull'interpretazione dei contratti - aprioristicamente e contraddittoriamente statuito che le parti avessero voluto concludere distinti contratti per perseguire distinti interessi; inoltre non avrebbe considerato e valutato le disposizioni contrattuali nel loro reciproco intreccio, limitandosi ad affermazioni generiche, prive di qualunque riferimento concreto. Inoltre, il fatto che ogni parte perseguisse un proprio autonomo fine non escludeva che tali fini si armonizzassero tra loro, dando vita ad un contratto unitario.
Sarebbe, inoltre, del tutto indimostrata l'affermazione secondo cui gli utilizzatori si avvalevano di costi meno elevati rispetto a quelli di mercato per effetto dell'esistenza dei due contratti. Anche con un unico contratto, infatti, l'utilizzatore non poteva opporre all'Italservice eccezioni opponibili all'impresa di leasing e viceversa.
4. Vengono, poi, svolte le seguenti considerazioni per denunciare la sostanziale elusione della problematica involta nel processo e degli elementi rilevanti per la decisione:
- dalla convenzione tra Italservice e Ifim Leasing s.a.s. si evince che le due imprese si associavano nell'esercizio di attività di locazione finanziaria, più precisamente per tutti i contratti di leasing che sarebbero stati stipulati dall'impresa di leasing. Pertanto, la previsione di una collaborazione remunerata solo per quest'ultima mira a permettere alla stessa di svolgere la sua attività di locazione finanziaria; la costituzione del deposito cauzionale in danaro da parte di Italservice forniva la provvista per l'acquisto del bene e la remunerazione dell'attività di intermediazione e la remunerazione dell'attività di intermediazione e di locazione finanziaria svolte. In tale chiave devono essere lette le clausole che prevedono il deposito cauzionale di somma pari al prezzo del bene, al netto della eventuale anticipazione del cliente, e soprattutto la clausola che il contratto di leasing costituisce "parte integrante del presente atto", nonchè quelle che fanno riferimento al contratto tipo di leasing, secondo le quali il conduttore deve ottenere dall'Italservice un finanziamento pari alla differenza tra prezzo di acquisto dei veicoli e la somma versata dal conduttore a titolo di canone anticipato, che sarà versata all'impresa di leasing a titolo di deposito cauzionale infruttifero.
Il deposito, ad definirsi come pegno irregolare, realizza la confusione del denaro versato all'Italservice con quello della Ifim Leasing, che quest'ultima dovrà restituire senza interessi a conclusione positiva del rapporto, ma che nel frattempo l'impresa di leasing può utilizzare. Se il finanziamento non fosse coessenziale al rapporto tra Italservice e Ifim Leasing, non si vede quale ragione giustificherebbe la previsione di una duplice garanzia (deposito cauzionale e fideiussione) contenuta nella convenzione. Viene, così, consentito a Italservice di non sborsare il capitale, esponendola soltanto al rischio di rimanere definitivamente debitrice di esso nei confronti dell'impresa di leasing, al quale, a sua volta, viene quasi del tutto sgravata del rischio relativo al capitale occorso per acquistare il bene. Tale modus procedendi dimostrerebbe che la convenzione ha il valore di associare de jure Italservice e Ifim per tutti i contratti di leasing che saranno stipulati dalla seconda. Vi è da considerare, inoltre, che il deposito cauzionale - pur previsto in contratto - non veniva mai effettuato;
- il contratto di finanziamento non era concluso dall'impresa di leasing nell'interesse dell'utilizzatore. In altri termini, tale impresa non assumeva la funzione di broker, stante il rapporto associativo tra la stessa e l'Italservice, costituito per esercitare attività di locazione finanziaria. Pertanto, non è coerente con tali premesse affermare che col cliente fosse stipulato un contratto di locazione atipica, e non di leasing;
- che il cliente - utilizzatore stipulasse un contratto di leasing emergeva anche dal fatto che il compenso spettante all'Italservice per le prestazioni rese all'utilizzatore non veniva determinato nella c.d. convenzione assicurativa, ma nella scheda denominata contratto di leasing. Il corrispettivo pagato dal cliente è comprensivo della quota di ammortamento dell'autovettura;
- dalla clausola contenuta nella scheda denominata locazione finanziaria (punto 13 delle condizioni generali), emergerebbe che il canone pagato all'Ifim, pur definito un corrispettivo di leasing, non ha tale contenuto, in quanto manca quasi del tutto la remunerazione del capitale. Poichè la prestazione di leasing è frutto della cooperazione tra due imprese associate, le due dichiarazioni (contratto di leasing e c.d. convenzione assicurativa) non possono essere considerate come negozi distinti, ma fuse in un unico contratto di leasing a tre parti. La convenzione assicurativa non può essere considerata un negozio a sè, in quanto, una volta sottoscritta la scheda denominata contratto di leasing, l'Italservice non può rifiutare di sottoscrivere la predetta convenzione.
Quest'ultima, inoltre, non contiene la completa disciplina del rapporto Italservice - utilizzatore;
- le somme corrisposte dall'Italservice all'impresa di leasing erano corrispettivi di una prestazione di leasing, e altrettanto era la somma pagata dal cliente utilizzatore, che doveva essere ripartita fra le due imprese. Pertanto, la prestazione resa dalla Ifim e compensata dall'Italservice non poteva considerarsi esente D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 10, n. 9.
2.2. Col secondo motivo l'Amministrazione ricorrente denuncia omessa ed insufficiente motivazione su punti decisivi della controversia, violazione e falsa applicazione dell'art. 1414 cod. civ. e art. 1325 cod. civ., n. 2, art. 1343 cod. civ., in relazione agli artt. 1742, 1813 e 1782 cod. civ., e ai principi generali in tema di contratti associativi, nonchè del D.P.R. 20 ottobre 1972, n. 633, artt. 3 e 10; in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, nn. 3 e 5.
Lamenta che la corte di merito avrebbe osservato il fenomeno sotto un aspetto puramente statico, considerando la natura degli atti e dei rapporti solo da un punto di vista formale, ignorando che, oltre alla tesi principale dell'unicità del contratto, era stata prospettata, fin dal verbale di constatazione, la tesi secondo cui, anche ammettendo l'autonomia dei vari rapporti, era comunque configurabile la simulazione del compenso dovuto alla società di leasing, sotto le apparenze di una provvigione a titolo di intermediazione e di bonus, per cui, in proposito, era inutile opporre la tassatività dei rimedi antielusivi.
Sotto tale profilo andava considerato:
a) l'attribuzione di interessi alla Italservice s.p.a. (poi s.r.l.) era priva di causa giustificativa, con la conseguenza che le somme corrisposte a tale titolo celavano una causale diversa, connessa all'attività di leasing, come dimostrato dal fatto che le somme venivano in massima parte riversate alla società di leasing;
b) parimenti priva di causa era l'attribuzione di somme da parte della Italservice a titolo di provvigione alla società di leasing, perchè: 1) i contratti di finanziamento non venivano eseguiti e non davano titolo all'attribuzione d'interessi a favore della Italservice, per cui non era configurabile un diritto a provvigione a favore dei presunti intermediari; 2) il rapporto convenzionale fra le due società manifesterebbe l'esistenza di un contratto associativo, diretto a ripartire le somme corrisposte dal cliente - utilizzatore.
In presenza di tale assetto d'interessi non vi era spazio per configurare un distinto rapporto d'intermediazione, sovrapposto al contratto associativo sopra indicato.
Sui predetti temi la corte di merito ha totalmente omesso di pronunciarsi, incorrendo, oltre chi in vizio di omessa motivazione, in violazione di legge, e specificamente:
- degli artt. 1813 e 1782 cod. civ., in quanto la Italservice non poneva materialmente a disposizione il finanziamento da costituire in deposito, che si esauriva in una partita contabile, tanto è vero che la società doveva prestare anche fideiussione. Sul piano economico, se il cliente avesse dovuto contrarre due finanziamenti (uno con la società di leasing per acquistare il bene, l'altro con la Italservice per costituire il deposito infruttifero), avrebbe dovuto pagare due volte gl'interessi. Per risolvere l'antinomia non sarebbe sufficiente considerare che, in realtà, gli interessi venivano corrisposti una volta sola e alla Italservice, che ne devolveva una parte alla società di leasing a titolo di provvigione, ma considerando che il finanziamento di Italservice era meramente nominale, e che l'unico finanziamento era eseguito dalla sola società di leasing. Con la conseguenza che le somme formalmente introitate da Italservice a titolo di interessi avevano diversa causale ed erano soggette a diverso trattamento fiscale; che non vi era titolo per corrispondere provvigioni alla società di leasing;
- dell'art. 1742 cod. civ., e dei principi in tema di causa del contratto e di contratti associativi. Altra ragione di disconoscimento della causale delle attribuzioni patrimoniali a carico della Italservice emergeva dai principi in materia di causa del contratto. Dal fatto che i contratti intercorsi tra le due società avevano origine dall'interesse comune da trattare con un terzo, non vi era necessità, nè possibilità di configurare la stessa prestazione come oggetto di un distinto rapporto a carattere corrispettivo con l'associato. Quest'ultimo non poteva, pertanto, assumere il ruolo di mero procacciatore d'affari dell'altro associato.
2.3. Nel controricorso si eccepisce l'inammissibilità del ricorso per mancata indicazione dei motivi e per genericità; inoltre per avere, attraverso un' astratta denuncia di violazione di norme e di principi in tema di ermeneutica contrattuale, proposto una serie di questioni inammissibili in sede di legittimità, in quanto tendenti ad ottenere un riesame di fatti o una nuova ricostruzione di fatti.
Quanto all'affermata violazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 10, anche tale censura sarebbe inammissibile, in quanto l'Amministrazione finanziaria avrebbe dovuto indicare in forza di quale disposizione le operazioni avrebbero dovuto essere assoggettate ad I.V.A., e quale norma avrebbe consentito all'Amministrazione di unire o separare i rapporti, in modo difforme ad quanto voluto dai privati, all'infuori dei casi contemplati dalla L. n. 408 del 1990, art. 10. In ogni caso, si tratterebbe di censura proposta per la prima volta in sede di legittimità.
p. 3. Il motivo del ricorso incidentale.
Denunciando omessa motivazione, la ricorrente deduce che la sentenza non avrebbe dato adeguata risposta all'eccezione di introduzione di jus novorum in appello. Infatti, mentre nell'atto impositivo la pretesa tributaria viene motivata soltanto sull'interpretazione delle clausole contrattuali e sulla qualificazione del contratto, in sede di giudizio d'appello l'amministrazione finanziaria ha proposto una motivazione integrativa, riproducendo quella contenuta nell'atto di ricorso contro la decisione di primo grado. Secondo la ricorrente, la risposta della corte d'appello, secondo cui, trattandosi di giudizio di opposizione ad ingiunzione fiscale, l'amministrazione opposta, essendo convenuta, era ammessa a svolgere nuove eccezioni anche in appello, non fornisce risposta sul punto. La questione viene riproposta in cassazione, in quanto le censure in relazione alle quali si era eccepita la violazione del jus novorum era stata nuovamente dedotta dall'Amministrazione col ricorso.
p. 4. Le questioni pregiudiziali e la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee 21 febbraio 2008 (C - 425 /06).
4.1. Con ordinanza la Corte riteneva che la decisione della causa presupponesse la risoluzione di questioni d'interpretazione del diritto comunitario, e precisamente se gli atti e i comportamenti delle parti, nella loro reciproca connessione, possano essere considerati come abuso del diritto o di forme giuridiche, secondo la definizione data dalla giurisprudenza comunitaria e, in particolare, dalla sentenza della Corte di Giustizia in causa C - 255/02, Halifax e a. c. Commissioners of Customs & Excise, pronunciata successivamente alla proposizione del presente ricorso. Si riteneva, pertanto, necessario un rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE. La Corte riteneva rilevante la questione pregiudiziale nella presente causa, in quanto la difesa dell'Amministrazione finanziaria aveva dedotto, nella sostanza, che i negozi posti in essere non potevano essere distintamente considerati e integravano, invece, un unico contratto di leasing, per cui il frazionamento avrebbe avuto un carattere meramente artificioso, non avendo alcun valido motivo economico al di fuori di quello di un risparmio d'imposta.
La Corte considerava, inoltre, che la questione dovesse essere posta d'ufficio, pur non avendo formato oggetto di specifici motivi di ricorso, trattandosi dell'applicazione di un principio generale del diritto comunitario, e cioè quello dell'abuso del diritto, la quale non poteva essere impedita da preclusioni di carattere processuale previste dal diritto interno. Veniva richiamata, in proposito, la costante giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza 14 dicembre 1995 in causa C - 312/93, Peterbroek e a. c. Stato Belga;
sentenza in pari data in causa C - 430 e 431/93, Van Schijndel e a.c. Stichtingpensioenfonds voor Fysiotherapeuten e, da ultima, 27 febbraio 2003 in causa C - 327/2000, Santex spa c. USSL n. (OMISSIS) di (OMISSIS)), seguita da numerose pronunce di questa Corte, secondo la quale i principi di effettività e di non discriminazione comportano l'obbligo per le autorità nazionali di applicare, anche d'ufficio, le norme di diritto comunitario, se necessario attraverso la disapplicazione del diritto nazionale che sia in contrasto con tali norme, senza che possano ostarvi preclusioni, anche di natura processuale, non operanti in casi analoghi.
La Corte osservava, inoltre, richiamando alcune proprie sentenze (9 giugno 2000, n. 7909; 10 dicembre 2002, n. 17564; 28 marzo 2003, n. 4703) che il carattere chiuso del giudizio di cassazione non impedisce che venga applicato il diritto comunitario nella sua interezza, indipendentemente da specifiche domande proposte nel giudizio di merito o introdotte coi motivi di ricorso, col solo limite dell'avvenuta definizione del rapporto controverso. Secondo tale giurisprudenza, i casi analoghi nei quali, nell'ordinamento interno, non operano nella loro interezza le ordinarie preclusioni procedimentali o processuali sono le questioni di legittimità costituzionale e lo jus superveniens. Anche in tali casi, infatti, l'obbligo dell'applicazione del nuovo regime giuridico può rendere necessario un mutamento del tema giuridico o anche fattuale.
Pertanto, essendo aperto il dibattito sull'esistenza di una pratica elusiva e/o fraudolenta, che sarebbe consistita in un frazionamento di contratti non avente altro scopo economico, se non quello di determinare una base imponibile I.V.A. minore di quella prevista per gli ordinari contratti di leasing, e cioè assoggettando ad imposta la sola concessione in uso del bene, il principio dell'abuso del diritto quale clausola generale di rango comunitario poteva trovare piena applicazione. Nella specie, inoltre, a prescindere dall'obbligo di applicazione d'ufficio del diritto comunitario in base al principio di effettività, rafforzato dal vincolo al diritto comunitario enunciato nel nuovo testo dell'art. 117 Cost., ci si trovava di fronte anche ad un vero e proprio jus superveniens, costituito dallo specifico obbligo derivante dalla citata sentenza della Corte di Giustizia in causa Halifax.
Nell'ordinanza di rinvio si poneva, a questo punto, il problema se ai fini della tassazione I.V.A. fosse da considerare il complesso negoziale come un tutto unitario, sotto il profilo dello scopo economico perseguito, ovvero se ogni contratto conservasse la sua autonomia e, quindi, il regime fiscale che gli era proprio.
La Corte chiedeva ai Giudici comunitari ulteriori chiarimenti, al fine di consentire una rigorosa applicazione, nel caso concreto, del principio enunciato nella sentenza Halifax. Premettendo che in questa era richiesto, affinchè si configuri un'ipotesi di abuso, che, oltre alla persecuzione di una finalità contrastante con lo spinto della direttiva (nella specie, la sottrazione di un contratto al trattamento fiscale che gli è proprio), che la forma giuridica utilizzata abbia "essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale" (punto 86), l'ordinanza osservava che non venivano forniti ulteriori elementi per cogliere il preciso significato di tale espressione. Inoltre, che tale specificazione, riprodotta, con non significative varianti, nelle diverse versioni linguistiche della decisione, appariva diversa da quella comunemente ricorrente nella precedente giurisprudenza e in altri testi normativi comunitari, nei quali si parla di vantaggio fiscale come scopo esclusivo, o di operazioni compiute al solo scopo di ottenere un risparmio fiscale, ovvero, come nell'art. 11 della direttiva 23 luglio 1990, n. 90/434/CEE, in materia di regime fiscale sulle fusioni, scissioni societarie e conferimento di attivo, il quale autorizza gli Stati membri a considerare il compimento di tali operazioni, ove non effettuate "per valide ragioni economiche", quale presunzione di frode o di evasione. Ancora, l'espressione usata dalla Corte per definire il c.d. abuso del diritto, nei termini già riportati, era ben diversa da quella impiegata nella stessa sentenza, come pure in quella resa nella stessa data in causa C - 223/03, University of Huddersfield Higher Education Corporation ("operazioni compiute al solo scopo di realizzare un vantaggio fiscale, senza altro obiettivo economico"), soltanto per rispondere al quesito se tali operazioni potessero considerarsi soggette ad I.V.A..
Tale diversità di espressione poteva, quindi, condurre a ritenere che la presenza di scopi economici (oltre al risparmio fiscale) non escludesse l'applicazione del principio. Sul punto l'ordinanza di rinvio richiamava il punto 75 della sentenza, nel quale la Corte richiama le osservazioni dell'Avvocato Generale, che nelle sue conclusioni aveva avvertito il rischio dell'attribuzione al giudice nazionale di un'eccessiva discrezionalità, quando un'operazione può avere una giustificazione economica alternativa al mero risparmio fiscale.
Veniva, altresì, evidenziata la necessità di porre precisi limiti all'operatività dello strumento dell'abuso del diritto, avvertendosi che, quando un'operazione può avere anche una diversa giustificazione economica, il principio non opera in quanto, diversamente, verrebbe attribuito al giudice nazionale un eccessivo potere discrezionale, che consentirebbe un inammissibile sindacato sull'esercizio della libertà d'impresa. Si poneva, quindi, il problema se tale l'espressione compiuta essenzialmente per conseguire un vantaggio fiscale sia equivalente, più ampia o più restrittiva di quella compiuta senza valide ragioni economiche all'infuori di un vantaggio fiscale e, quindi, se il limite dell'abuso del diritto operi quanto le ragioni economiche siano assolutamente marginali o irrilevanti, e non una possibile finalità alternativa.
Un altro problema posto da questa Corte era costituito dal rapporto del principio dell'abuso del diritto così definito con gli strumenti giuridici previsti dal diritto nazionale e con le varie categorie d'invalidità dei negozi giuridici, quali le diverse categorie di nullità, fra le quali la simulazione, o la frode alla legge.
Nella specie si poneva, pertanto, il problema se il comportamento abusivo possa essere costituito da una pluralità di negozi e/o comportamenti collegati. Dalla sentenza Halifax sembra desumersi una risposta affermativa, in quanto il caso di specie concerneva, anzitutto, la costituzione di più società.
Si doveva, altresì, stabilire se l'indagine sull'abuso del diritto sia volta a cogliere la finalità economica dell'operazione, e quindi al di là della forma giuridica utilizzata. Questa Corte richiamava la disciplina antielusione contenuta nel p. 42 della legge generale fiscale tedesca (Abgabeordnung) del 1977, la quale prevede l'abuso di forme giuridiche ("Missbrauch von rechtlichen Gestaltungsmoglichkeiten"), il quale recita testualmente: "La legge fiscale non può essere elusa attraverso abuso di forme giuridiche ammesse. Se ricorre un abuso, la pretesa fiscale sussiste come se fosse presente una forma giuridica adeguata ai fatti economici".
Veniva rilevato che tale figura pareva attagliarsi perfettamente a quella di abuso del diritto disegnata dalla sentenza Halifax.
4.2. In conclusione, questa Corte formulava alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti:
1) se la nozione di abuso del diritto, definita dalla sentenza della Corte di Giustizia in causa C - 255/02, Halifax, come operazione essenzialmente compiuta al fini di conseguire un vantaggio fiscale sia coincidente, più ampia o più restrittiva di quella di operazione non avente ragioni economiche diverse da un vantaggio fiscale;
2) se possa essere considerato abuso del diritto (o di forme giuridiche) una separata conclusione di contratti di locazione finanziaria (leasing), di finanziamento, di assicurazione e d'intermediazione, avente come risultato la soggezione ad I.V.A. del solo corrispettivo della concessione in uso del bene.
4.3. La Corte di Giustizia, con la richiamata sentenza, dava le seguenti risposte ai proposti quesiti:
1) la sesta direttiva deve essere interpretata nel senso che l'esistenza di una pratica abusiva può essere riconosciuta qualora il perseguimento di un vantaggio fiscale costituisca lo scopo essenziale dell'operazione o delle operazioni controverse.
Nella motivazione (punti 41 e segg.) la Corte spiega che l'abuso può ricorrere anche quando lo scopo di conseguire un vantaggio fiscale sia essenziale, e cioè non esclusivo, il che non esclude l'esistenza dell'abuso quando concorrano altre ragioni economiche. Viene chiarito, in proposito, che nel caso Halifax, nel quale era stato affermato che il vantaggio fiscale costituiva l'unico scopo dell'operazione, era stata superata la soglia minima, e che quindi l'abuso ricorreva a più forte ragione;
2) è compito del giudice di rinvio determinare se, a i fini dell'applicazione dell'I.V.A., operazioni come quelle in contestazione possano considerarsi rientranti in una pratica abusiva.
La Corte precisava, in proposito, che il giudice di rinvio doveva uniformarsi ai criteri enunciati in motivazione (punti da 46 a 62), che possono così sintetizzarsi:
a) quando un soggetto passivo ha la scelta tra più operazioni, la sesta direttiva non impone di scegliere quella che implica un maggiore pagamento di I.V.A., avendo lo stesso soggetto il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale; tuttavia, se un'operazione consiste in diverse prestazioni, si pone il problema se essa debba essere considerata come operazione unica, o come corrispondente a più prestazioni distinte e indipendenti da valutarsi separatamente;
b) pur considerando che dall'art. 2 della sesta direttiva discende che ciascuna prestazione deve essere considerata di regola come autonoma, in alcune circostanze più prestazioni che devono essere considerate separatamente, dando luogo, individualmente, a imposizione o esenzione, devono essere considerate come un'unica operazione quando non sono indipendenti. Ciò accade quando una o più prestazioni costituiscono la prestazione principale mentre l'altra o le altre prestazioni costituiscono una prestazione accessoria o più prestazioni accessorie, per cui si applica la stessa disciplina tributaria della prestazione principale.
In particolare, tale rapporto di accessorietà sussiste quando la prestazione non costituisce per la clientela un fine a sè stante, bensì il mezzo per fruire nelle migliori condizioni del servizio principale offerto dal prestatore (punto 52);
c) si può altresì ritenere l'unicità della prestazione quando due o più elementi o atti forniti dal soggetto passivo sono a tal punto strettamente connessi "da formare oggettivamente una sola prestazione economica indissociabile la cui scomposizione avrebbe carattere artificiale (v., in tal senso, sentenza Levob Verzekering e OV Bank, punto 22).";
d) è compito del giudice nazionale valutare se sussista un'operazione unica, al di là della struttura contrattuale di essa.
L'analisi deve essere compiuta attraverso una ricerca di indizi rivelatori di una pratica abusiva. La Corte di Giustizia elenca, quindi, una serie di tali indizi, utilizzabili dal giudice di rinvio e ricavabili dalle particolarità del caso controverso (punto 57):
- le due società partecipanti all'operazione appartengono allo stesso gruppo;
- a prestazione della società di leasing (IFIM) è frazionata, dato che l'elemento caratteristico di finanziamento è affidato ad un'altra società (Italservice) per essere suddiviso in prestazioni di credito, di assicurazione e di intermediazione;
- la prestazione della società di locazione finanziaria è, pertanto, ridotta alla locazione del veicolo;
- i canoni di locazione corrisposti dall'utilizzatore sono d'importo appena superiore al costo di acquisto del bene;
- tale prestazione sembra priva di redditività, per cui l'efficienza economica dell'impresa non può essere assicurata coi soli contratti conclusi con gli utilizzatori;
- la società di leasing percepisce il corrispettivo dell'operazione di locazione finanziaria solo grazie al cumulo dei canoni versati dall'utilizzatore e degli importi versati dall'altra società dello stesso gruppo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
5.1. Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei ricorsi, in quanto proposti nei confronti della stessa sentenza.
5.2. Per un più esatto inquadramento della questione la Corte, nell'esercizio della sua funzione di nomofilachia, ritiene necessarie alcune precisazioni sulla nozione dell'abuso del diritto e sul ruolo della stessa nell'ordinamento nazionale. Come già emerge dalla precedente giurisprudenza della Corte, la nozione assume il ruolo di Generalklausel antielusiva o di General Anti-Avoidance Rule nell'ordinamento tributario: pur non esistendo una corrispondente enunciazione nelle fonti normative nazionali, la sua applicazione, come già riconosciuto dalla Corte (sentenza 21 settembre 2006, n. 21221 e, da ultima, 21 aprile 2008. n. 10257, entrambe in materia di imposizione diretta) s'impone per essere la stessa di formazione comunitaria. Con la conseguenza che la stessa opera anche al di fuori dei tributi "armonizzati" o "comunitari", quali l'I.V.A., le accise e i diritti doganali. Secondo una pluriennale e consolidata giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenze del 14 febbraio 1995, C - 279/93, Finanzamt Koln - Altstadt c. Roland Schumacker; 13 luglio 1993, C - 330/91, Commerzbank; 12 aprile 1994, C - 1/9, Halliburton Services; 15 maggio 1997, C - 250/95, Futura Participations), pur essendo la materia dell'imposizione diretta attribuita alla competenza degli Stati membri, gli stessi sono, comunque, vincolati al rispetto dei diritti e principi fondamentali dell'ordinamento comunitario. A tale giurisprudenza questa Corte si è costantemente adeguata.
L'esistenza di un principio generale - di formazione comunitaria - di divieto delle pratiche abusive è stata affermata da una pluridecennale giurisprudenza comunitaria, a partire dal 1974 nella sentenza Van Binsbergen c. Bestuur van de Bedrijfsvereniging voor de Metaalnijverheid in causa 33/74. Le sentenze Halifax e quella resa nella pregiudiziale formulata da questa Corte non fanno, quindi, che riaffermare la portata del principio che, pur avendo fatto la sua apparizione nel contesto delle libertà di prestazione di servizi e di stabilimento, deve essere considerato di generale applicazione, che trascende, non solo i limiti delle aree dei c.d. tributi armonizzati, ma addirittura l'intera materia tributaria. Ne è un recente esempio la direttiva sulla cittadinanza europea (2004/38 - CE del parlamento europeo), la quale, all'art. 35, stabilisce che "gli Stati membri possono adottare le misure necessarie per rifiutare, estinguere o revocare un diritto conferito dalla presente direttiva, in caso di abuso di diritto o frode .....".
Nella formazione di un principio fondamentale comunitario - che, nel sistema delle fonti, così come avviene nell'ordinamento italiano (art. 12 disp. gen., comma 2), costituisce diritto primario - possono svolgere un determinante ruolo anche principi di origine e formazione degli ordinamenti nazionali, anche all'infuori di uno specifico richiamo (come quello contenuto nell'art. 288, comma 2, del Trattato CE), sì che si può verificare un vero e proprio processo circolare di trasmigrazione, di principi tra l'uno e l'altro ordine. Di fatto, l'area dei principi generali di diritto comunitario non codificati subisce un continuo e rilevante incremento.
L'esistenza di un principio generale - non scritto - del contrasto alle pratiche consistenti in un abuso di forme giuridiche fuori dal campo fiscale viene, d'altra parte, riconosciuta anche dalla giurisprudenza di questa Corte. Il Collegio si riferisce, in particolare, alla definizione come abusiva della pratica di frazionamento di uno stesso credito e dei suoi riflessi nel momento della tutela giurisdizionale, fenomeno che viene considerato come "abuso del processo" (Sez. Un., sentenza 15 novembre 2007, n. 23726).
Anche in tal caso, infatti, si da luogo ad un uso improprio di forme giuridiche.
5.3. Pur tenendo presente il valore non vincolante - sul piano normativo - del Commentario al modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni, sembra assai significativo l'art. 9.5 di tale testo: "E' importante notare, comunque, che non dovrebbe essere facilmente ammesso che un contribuente diventi parte di transazioni abusive ... Un principio guida è che i benefici di una convenzione in materia di doppia imposizione non debbano essere accordati quando scopo principale per concludere determinati transazioni o affari sia quello di assicurare un regime di tassazione più favorevole e di ottenere che, in tali circostanze, questo trattamento più favorevole debba essere contrario all'oggetto e alla finalità delle disposizioni rilevanti".
D'altra, pare alla Corte di rilievo decisivo il fatto che il principio venga riconosciuto in diversi ordinamenti, anche estranei all'Unione Europea:
- nella sentenza del 28 novembre 2005 la Corte Suprema svizzera ha espressamente riconosciuta l'esistenza di un principio non scritto di contrasto dell'abuso del diritto in materia fiscale (c.d. look - through clause);
- come ricordato nella stessa ordinanza di rinvio, la legge tedesca prevede l'inopponibilità all'amministrazione finanziaria delle c.d. forme giuridiche abusive al p. 42 della legge generale fiscale (Abgabeordnung). Con modifica a tale norma introdotta nella legge finanziaria del 2008 è stato reso più rigoroso il regime dell'abuso di forme giuridiche, sia definendo come tale l'impiego di forme "non usuali", (mentre nella precedente versione si parlava di "forme non appropriate al contesto economico"), sia ponendo a carico del contribuente l'onere di dimostrare che la forma impiegata ha una valida giustificazione economica, diversa dal risparmio d'imposta;
- anche la giurisprudenza nordamericana, pur rilevando l'origine di civil law dell'istituto, ha tempo riconosciuto l'esistenza di un principio dell'abuso del diritto, dovendosi aver riguardo al contenuto economico reale (substance doctrine) della transazione.
Nella sentenza della Corte Suprema Frank Lyon Co. / United States, 435 U.S. 561 del 1978 viene affermato che deve essere riconosciuta soltanto "a genuine multiple - part transaction with economie substance compelled or encouraged by business or regulatory realities, imbued with tax independent considerations, and not shaped solely by tax avoidance features" ("una transazione tra più parti con sostanza economica imposta o suggerita da realtà degli affari o normative, impregnata da ragioni indipendenti da quelle fiscali, e non formata soltanto da aspetti di risparmio fiscale"). La giurisprudenza americana superava, così, l'obiezione che l'enunciazione del principio al di fuori di un espresso riconoscimento normativo potesse costituire invasione della sfera del legislativo. La dottrina della economie substance è stata applicata dalla Court of appeals for the Federal circuit in numerose decisioni recenti, fra le quali quattro importanti sentenze rese nel 2006 (Coltec Industries Inc; Black & Decker Corp.; TIFD III - E Inc.; Dow Chemical Company), nelle quali è stato confermato che l'onere della prova sul contenuto economico della transazione incombe al contribuente. Tali decisioni sono state confermate dalla Corte Suprema con sentenze rese il 20 febbraio 2007, nelle quali è stata rigettata la domanda di writ of certiorari (annullamento per illegittimità) degli atti impositivi;
- in Francia Vabus de droit è espressamente contemplato dal titolo 4^ del Livre des procedures fiscales (art. 64, art. 64, lett. A e art. 64, lett. B), recante l'intestazione "Procedure de repressimi des abus de droit". Il comma 3 dell'art. 64 attribuisce all'amministrazione il potere di "restituer son veritable caractere a l'operation litigieuse" ("riattribure la sua vera natura all'operazione litigiosa"). Nel 1998 è stato istituito un organo consultivo avente competenza a rendere pareri nelle controversie in materia (Comite consultatif pour la repression des abus de droit);
- particolare interesse, perchè emanata da una giurisdizione di un Paese membro della U.E., pur di tradizioni di common law, è la recentissima sentenza della High Court - Revenue Jurisdiction irlandese dell'11 giugno 2008 in causa E. Cussens e a. / Inspector of Taxes, nella quale si esamina l'impatto delle sentenze Halifax e Part Service nell'ordinamento nazionale, giungendosi alla conclusione che il principio del disconoscimento delle pratiche abusive ai fini di risparmio fiscale costituisce una regola operativa di immediata applicazione anche nell'ordinamento irlandese, pur trattandosi di un istituto nato nei sistemi di civil law, e pur in assenza di norme nazionali che lo riconoscano espressamente.
Come sintesi della esposizione che precede sembra opportuno ricordare che uno dei più autorevoli commentatori al già citato modello OCSE di convenzione è giunto a definire il principio del contrasto all'abuso del diritto in materia fiscale come vera e propria espressione di civiltà giuridica.
5.4. La libertà di scegliere le forme giuridiche negoziali e/o i modelli organizzativi meno onerosi dal punto di vista fiscale, oltre ad essere espressione della libertà d'impresa riconosciuta dall'art. 42 Cost., costituisce esercizio di fondamentali diritti riconosciuti dal diritto comunitario, in particolare, quelli di libera circolazione dei servizi e dei capitali, e di stabilimento. Il limite costituito dall'impiego abusivo di forme giuridiche, se ben si considera, è addirittura coessenziale alle stesse libertà fondamentali, di cui il ricorso a forme organizzative o contrattuali che assicurino un minore carico fiscale costituisce espressione, giacchè non può essere consentito o garantito un esercizio abusivo di tali diritti o libertà. Quindi, le pratiche abusive, consistenti nell'impiego di una forma giuridica o di un regolamento contrattuale al principale scopo di realizzare un risparmio d'imposta, qualunque sia il tributo in questione, consistono, inevitabilmente, in un abuso di diritti fondamentali garantiti dall'ordinamento comunitario, e pertanto assumono rilievo normativo primario in tale ordinamento.
La sentenza della Corte di Giustizia nella presente causa rappresenta, quindi, un allargamento del solco tracciato dalla sentenza Halifax, in quanto considera abusivo il ricorso a forme giuridiche quando il risparmio fiscale sia lo scopo principale della forma di transazione scelta, anche se allo stesso si accompagnino secondane finalità di contenuto economico. Si aggiunga che, come si è visto, i Giudici comunitari si sono spinti a fornire al giudice nazionale una serie di indici o di sintomi rivelatori di abuso.
5.5. Si può, quindi, affermare che la figura dell'abuso del diritto costituisce un mezzo di contrasto all'elusione fiscale, che ha un carattere di strumento di accertamento semplificato per l'amministrazione, il quale, come avviene per i meccanismi presuntivi di cui la legislazione fiscale fa un largo uso, non impedisce certamente l'uso di strumenti più penetranti, nei quali si fanno valere le categorie di patologia negoziale, quali la nullità nelle sue varie ipotesi (causa illecita o inesistente, motivi illeciti, frode alla legge, simulazione). La contiguità del fenomeno a quelli della simulazione e della frode, che fa talvolta impiegare - in altri linguaggi giuridici - espressioni nelle quali si descrive la pratica abusiva come quelle adoperate dalla prassi U.S.A. "lacking in commercial reality" ("mancante di realtà commerciale") e " subjectively as a sham" ("soggettivamente, come un atto simulato") o il già citato art. 64 del Livre des procedures fiscales francese, che ricomprende nella nozione anche gli atti simulati, non deve, quindi portare ad una confusione dei due concetti. Le fonti comunitarie più recenti esprimono in modo chiaro la distinzione, come emerge dal citato art. 35 della direttiva sulla cittadinanza europea.
E' opportuno, altresì, ribadire che lo strumento dell'abuso del diritto deve essere utilizzato dall'amministrazione finanziaria con particolare cautela, dovendosi sempre tener presente che l'impiego di forme contrattuali e/o organizzative che consentano un minore carico fiscale costituisce esercizio della libertà d'impresa e di iniziativa economica, nel quadro delle libertà fondamentali riconosciute dalla Costituzione e dall'ordinamento comunitario.
L'approccio dell'amministrazione in materia deve essere, quindi, oltremodo pragmatico, dovendosi rilevare che l'evoluzione degli strumenti giuridici è necessariamente collegata alle rapide mutazioni della realtà economico - finanziaria, nella quale possono trovare spazio forme nuove, non strettamente legate ad una angusta logica di profitto della singola impresa.
Utili segnali possono cogliersi dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale.
Per la prima si richiama la sentenza della Corte di Giustizia del 17 luglio 1997 in causa C - 28/95, A. Leur - Bloem c. Inspecteur der Belastingdienst/Ondernemingen Amsterdam 2, la Corte di Giustizia ha affermato che l'adozione, da parte dello Stato membro, di una norma che consente sic et simpliciter all'amministrazione finanziaria di disconoscere gli effetti di un'operazione di fusione o concentrazione costituisce un mezzo sproporzionato per la persecuzione del fine della direttiva, in quanto l'operazione deve essere globalmente esaminata. Quanto alla giurisprudenza nazionale, pare opportuno richiamare i rischi derivanti dalla adozione di formule quali quelle impiegate dalla giurisprudenza inglese, secondo cui, per non avere carattere abusivo, l'operazione deve avere, oltre a una "economie substance" ("contenuto economico"), anche un "business pur pose", ("finalità di profitto"). Questa Corte ha da tempo chiarito che l'attività d'impresa non può essere ricollegata ad un'esigenza di immediata realizzazione di profitto, soprattutto quando la stessa opera in contesti più ampi di quelli dell'operatore singolo, come nel caso di gruppi d'imprese.
Il Collegio fa riferimento alle sentenze 1 agosto 2000 n. 10062; 26 gennaio 2001, n. 1133, nelle quali è stato ritenuta la deducibilità di costi anche se non direttamente ricollegabili a ricavi o ad un fine di immediata redditività, soprattutto nell'ambito di una strategia di gruppo. D'altra parte, dalla stessa giurisprudenza comunitaria si ricava una regola secondo cui, ai fini della disciplina in materia di aiuti di Stato, la qualificazione di una misura di aiuto nell'ottica dell'imprenditore in un regime di libero mercato deve essere diversa quando si valuta una strategia di sostegno nell'ambito di gruppi d'impresa. In definitiva, il soggetto che ha utilizzato forme giuridiche non usuali deve essere sempre posto in grado di dimostrare l'esistenza di seri (e non meramente ipotetici, o marginali) contenuti economici.
Il rifiuto di un'applicazione meccanica del principio può cogliersi anche nel filone della giurisprudenza comunitaria che ha negato la qualificazione come abuso del diritto di stabilimento la scelta di un Paese come sede sociale da parte di un'impresa che non possiede ivi strutture amministrative o produttive, soltanto per il regime fiscale più favorevole di tale Paese. Il Collegio richiama la sentenza della Corte di Giustizia in causa C - 212 / 97, Centros Ltd c. Erhvevers - og Selskabsstyrelsen. Il rischio di un eccessivo allargamento della nozione di abuso del diritto è stato avvertito anche in altri ordinamenti: nelle sentenze U.S.A. citate al punto 5.2. viene affermato nettamente che il concetto di "economie substance of the transaction" deve essere inteso in senso oggettivo, e non soggettivo.
5.6. Per una corretta applicazione del principio il Collegio ritiene necessari alcuni chiarimenti sull'affermazione contenuta nella già richiamata sentenza della Corte n. 10257/2008, secondo cui l'onere di dimostrare che l'uso della forma giuridica corrisponde ad un reale scopo economico, diverso da quello di un risparmio fiscale, incombe al contribuente. Nel confermare tale principio, la Corte rileva che l'individuazione dell'impiego abusivo di una forma giuridica incombe all'amministrazione finanziaria, la quale non potrà certamente limitarsi ad una mera e generica affermazione, ma dovrà individuare e precisare gli aspetti e le particolarità che fanno ritenere l'operazione priva di reale contenuto economico diverso dal risparmio d'imposta.
Si tratta della stessa regola contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, e propria, come si è detto, di altri ordinamenti giuridici.
5.7. Il rango comunitario della regola comporta, come già chiarito dalla Corte nell'ordinanza di rinvio, l'obbligo della sua applicazione d'ufficio a prescindere da specifiche deduzioni di parte, anche per la prima volta nel giudizio di cassazione. Il Collegio richiama, in proposito, oltre alle già citata giurisprudenza comunitaria e nazionale, la sentenza delle Sezioni Unite n. 26948 del 18 dicembre 2006, oltre alla già citata sentenza di questa Sezione n. 21221/06, nella quale è stato affermato l'obbligo dell'applicazione d'ufficio della regola dell'abuso del diritto in materia di imposizione diretta.
Da quanto sopra discende, ovviamente, il rigetto delle censure svolte nel ricorso incidentale, ritenuta, altresì, l'infondatezza delle questioni sull'ammissibilità del ricorso principale svolte nel controricorso.
5.8. Fatte tali premesse, la Corte deve verificare, alla luce delle direttive tracciate dalla Corte di Giustizia e sulla base degli approfonditi accertamenti di fatto, contenuti nella sentenza impugnata e non contestati, se la forma giuridica (o il complesso di forme giuridiche) in contestazione possa qualificarsi come abuso del diritto, e considerarsi, quindi, non opponibile all'amministrazione finanziaria, la quale potrà, perciò, qualificarla come un'operazione unica ed assoggettarla al trattamento fiscale che le è proprio, considerando, ai fini dell'I.V.A., come base imponibile la sommatoria dei corrispettivi contrattuali pagata dall'utilizzatore.
La Corte ritiene che l'applicazione dei criteri indicati nella sentenza della Corte comunitaria detti principi conduca a considerare come abusiva la pratica contrattuale in contestazione. Innanzitutto non è dubbio che il finanziamento costituisca uno strumento diretto a consentire l'utilizzazione del bene; in secondo luogo le diverse prestazioni sono state effettuate da imprese appartenenti al medesimo gruppo; infine, il contratto avente ad oggetto la fornitura del bene appare manifestamente privo di adeguata redditività, mentre l'imposizione I.V.A. viene limitata proprio all'operazione che produce un valore aggiunto praticamente irrilevante. Inoltre, come rilevato dalla Corte di Giustizia, il carattere abusivo dell'operazione consiste proprio nei suo frazionamento, circostanza che le commissioni tributarie e la corte d'appello hanno considerato quale esercizio - insindacabile dall'amministrazione finanziaria - della libertà negoziale e che, invece, deve essere superato in presenza di una finalità complessiva incontestabilmente unitaria.
Infine non possono essere trascurate le circostanze evidenziate nel ricorso, e non contestate dalla Part Service, e in particolare il fatto che nella scheda contrattuale e nella convenzione assicurativa l'intero affare era denominato come leasing. Proprio la scelta compiuta dalla corte di merito di arrestarsi alla presenza di una pluralità di negozi, considerando come vincolo insuperabile il regime giuridico della forma scelta dall'operatore, costituisce un implicito riconoscimento che la presenza di finalità economiche specifiche dei contratti diversi da quello avente ad oggetto la fornitura del bene è del tutto marginale rispetto a quella di conseguire un trattamento fiscale più favorevole. Il meccanismo dell'abuso del diritto costituisce, come la Corte di Giustizia ha sottolineato, proprio un superamento della forma giuridica in vista di cogliere l'esatta finalità economica di un negozio o di un complesso negoziale.
In definitiva, dallo stesso ragionamento della corte di merito si ricava che il frazionamento di un'operazione in distinti contratti, il cui contenuto economico è di far ottenere ad un altro soggetto, ad un tempo stesso, l'utilizzazione di un bene, il procacciamento della provvista finanziaria necessaria e l'assicurazione contro i rischi di perdita o di deperimento economico del bene fornito ha come scopo principale quello di realizzare un risparmio d'imposta attraverso una diminuzione del corrispettivo soggetto ad I.V.A. e che, perciò, non assumono rilievo, ai fini dell'imposizione, finalità economiche marginali dell'operazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere cassata, in quanto la corte di merito, nel valutare il contenuto della transazione sottoposta al suo esame, non ha considerato che la stessa doveva essere verificata alla luce del principio dell'abuso del diritto. Poichè non sono necessarie ulteriori indagini di fatto la Corte, nell'esercizio del potere di decisione nel merito ad essa attribuito dall'art. 384 cod. proc. civ., comma 1, rigetta il ricorso originario della società.
La novità e complessità della questione giustifica una pronuncia di compensazione delle spese dell'intero giudizio, ivi comprese quelle relative al procedimento dinanzi alla Corte di Giustizia.
P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE riunisce i ricorsi; accoglie il ricorso principale; cassa e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo della società;
rigetta il ricorso incidentale; compensa le spese dell'intero giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 24 settembre 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 ottobre 2008