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Cassazione Civile - Sez. Lavoro - Sentenza 2 ottobre 2008 , n. 24409
sabato 25 ottobre 2008 - Pubblicazione a cura di Angela Lorusso

Pubblico impiego - Contratti collettivi ex art. 40 D.Lgs. n. 165/2001 - Interpretazione - Canoni - Artt. 1362 ss., C. C.
Dalla natura negoziale dei contratti collettivi ex art. 40, D.Lgs. n. 165/2001 deriva che l'interpretazione degli stessi debba essere compiuta secondo i criteri di cui agli artt. 1362 ss. Cod. Civ. e non sulla base degli artt. 12 e 14 delle disposizioni della legge in generale; tale attività è riservata all'esclusiva competenza del giudice del merito, le cui valutazioni soggiacciono, nel giudizio di cassazione (ante alla nuova formulazione dell'art. 360 Cod. Proc. Civ., comma 1, n. 3), ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l'anzidetta violazione e delle ragioni dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito), non potendo le censure risolversi, in contrasto con l'interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata.


 
CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAVORO, 2 ottobre 2008, n. 24409
 
IANNIRUBERTO Giuseppe - Presidente
BALLETTI Bruno - Estensore
MATERA Marcello - P.M.
M. A. c. AZIENDA PER I SERVIZI SANITARI
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ricorso ex art. 414 cod. proc. civ., dinanzi al Tribunale - giudice del lavoro di Udine M. A. conveniva in giudizio l'AZIENDA PER I SERVIZI SANITARI esponendo di essere stata licenziata dall'Azienda convenuta in relazione al patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo indeterminato intercorso tra le parti e "azionato" dalla datrice di lavoro per risolvere il rapporto lavorativo; richiedeva quindi, che venisse accertata e dichiarata la nullità del cennato patto di prova - e che l'Azienda fosse condannata alla reintegra nel proprio posto di lavoro con ogni relativa conseguenza risarcitoria.
Si costituiva in giudizio l'Azienda che impugnava integralmente la domanda attorea e ne chiedeva il rigetto.
L'adito Giudice del lavoro rigettava la domanda attorea e - su impugnativa della M. e ricostituitosi il contraddittorio - la Corte di appello di Trieste, rigettava l'appello condannando l'appellante alle spese del grado.
Per quello che rileva in questa sede la Corte territoriale ha rimarcato che: a) "come sottolineato in ambedue i contratti sottoscritti dalle parti in causa, l'assunzione non già avvenne sulla scorta della disciplina portata in D.P.R. n. 487 del 1994, bensì in forza della disciplina del contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore sanitario: patto che a seguito della già ricordata contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego ben può derogare a leggi e regolamenti"; b) "nella specie risulta esattamente rispettata la disciplina posta a regolamentazione del contratto stipulato tra le parti, senza l'esistenza d'elemento alcuno lumeggiante la volontà elusiva di norme cogenti da parte dell'Azienda datrice di lavoro".
Per la cassazione di tale sentenza M. A. propone ricorso assistito da quattro motivi.
L'intimata Azienda resiste con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
1 - Con il primo motivo di ricorso la ricorrente - denunciando "violazione degli artt. 1343, 1418 cod. civ. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2; nonchè vizi di motivazione" - rileva che "nella sentenza impugnata è del tutto carente l'esame della normativa del patto di prova nel settore pubblico ed in quello privato, così come è del tutto carente la comparazione tra la disciplina dell'istituto nel rapporto di lavoro pubblico ed in quello privato, esame che si pone come prodromico alla valutazione della disciplina applicabile all'istituto stesso e, cioè, come prodromico all'affermazione che in punto patto di prova non trova applicazione la c.d. privatizzazione del rapporto di lavoro sancita quale regola di carattere generale dall'art. 2 cit., e non trova conseguentemente applicazione la disciplina della nullità del patto di prova che di fatto consenta l'elusione delle norme imperative in materia di divieto di licenziamento in carenza di giusta causa e/o di giustificato motivo o, ancora, la disciplina della nullità del patto di prova per mancanza di causa" ed evidenzia "l'erroneità dei presupposti sui quali poggia la decisione della Corte di appello di Trieste, (in quanto) la totale assenza di una qualsivoglia diversità tra il rapporto di lavoro a tempo determinato a quello a tempo indeterminato, unita al fatto che già nel contratto a termine era stato previsto l'esperimento della prova, ed all'ulteriore fatto del positivo superamento della prova stessa da parte della dipendente, la quale ha continuato a rendere la propria prestazione lavorativa per tutti i sei mesi previsti, senza mai ricevere contestazioni in ordine al suo operato, avrebbero dovuto portare a conclusioni completamente opposte rispetto a quelle alle quali è giunta la sentenza impugnata".
Con il secondo motivo la ricorrente - denunciando "violazione del D.P.R. n. 487 del 1994, artt. 24 e 28, e degli artt. 1, 15 e 17 del c.c.n. l. del comparto sanità, nonchè vizi di motivazione" rileva che "l'ordinamento non attribuisce in materia di prova un superpotere al datore di lavoro pubblico rispetto a quello privato, per cui, anche nel lavoro pubblico, il patto di prova svolge la sua funzione causale tipica di consentire, quanto alla parte datoriale, di valutare le effettive capacità del prestatore di lavoro a svolgere le specifiche mansioni assegnategli e la legittimità della sua apposizione ad un contratto di lavoro è subordinata all'accertamento della giustificazione causale del patto stesso, salvo che si tratti di un rapporto instaurato ex novo tra le parti o che, se susseguente ad altro già instaurato tra le stesse parti, abbia ad oggetto mansioni diverse e ciò in virtù della disposizione del D.P.R. n. 487 del 1994, art. 28, con la conseguenza che la valutazione circa la legittimità della, reiterazione del patto di prova in due successivi contratti di lavoro stipulati con una pubblica amministrazione andava effettuata al pari che nel lavoro privato sulla base dell'efficienza causale del patto stesso" e censura la sentenza impugnata "per le carenze logiche e le contraddizioni nelle quali incorre la parte motivazionale la quale non solo non affronta il problema sollevato dalla M. nell'atto di appello della necessità che il secondo patto di prova sia causalmente giustificato affinchè possa considerarsi legittima la sua apposizione, ma, per giustificare la legittimità del patto di prova apposto al secondo contratto stipulato tra le parti e cioè a quello a tempo indeterminato, nega che il primo contratto a termine rientri nel campo di applicazione del c.c.n. l.".
Con il terzo motivo del ricorso la ricorrente - denunciando "violazione degli artt. 2119 e 1367 cod. civ., e vizi di motivazione" - rileva che "la corretta interpretazione delle norme e contrattuali e collettive, oltre che di quelle codicistiche, avrebbe dovuto portare la sentenza impugnata a riconoscere che l'art. 8 del contratto individuale di lavoro a tempo determinato conteneva analogamente all'art. 4 del contratto individuale a tempo indeterminato un patto di prova posto che solo questo tra le cause tipiche di recedibilità dal rapporto di lavoro consente il libero recesso a prescindere da motivazione giustificative: per cui, affermata la natura di patto di prova dell'art. 8 deve necessariamente affermarsi la nullità per mancanza di causa del patto di prova apposto al contratto di lavoro a tempo indeterminato e, conseguentemente, la nullità del licenziamento intimato alla lavoratrice per mancato superamento della prova".
Con il quarto motivo di ricorso la ricorrente "si duole della condanna alle spese pronunciata dalla sentenza impugnata e chiede la riforma anche di questo punto".
2 - Il primo motivo del ricorso non appare meritevole di accoglimento.
Al riguardo, in merito alla rivendicata estensione al rapporto di lavoro pubblico delle regole generali del lavoro privato - nella specie, della normativa concernente la giustificazione causale della "prova" nel contratto di lavoro -, è da premettere che il D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 2, comma 2, seconda parte (come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, ora trasfuso nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2) contiene un richiamo alla disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato privato con il limite di operatività - vale evidenziare - della disciplina esclusivamente costituita dalle regole sostenute nello stesso decreto che la richiama in quanto si tratta di regole diverse. Occorre, quindi, che non solo la disciplina recata dal decreto incida sulla stessa materia oggetto delle norme codicistiche e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato comune, ma che il contenuto delle due discipline non sia compatibile: solo in tale caso, infatti, acquista senso la regola di prevalenza della disciplina del decreto. Diversamente, - ossia qualora si ritenesse che la sola presenza nel decreto legislativo di regole riguardanti materia disciplinata anche da fonti diverse dallo stesso, ma oggetto del richiamo, fosse sufficiente ad escludere l'operatività di queste ultime, senza necessità di un vero e proprio conflitto di norme - si realizzerebbe il presupposto per una disciplina non completa e quindi bisognosa di integrazione. Ma così si violerebbe il rapporto di regola eccezione palesemente istituito, dall'articolo in esame, tra le regole richiamate, in funzione del loro essere regole generali del modello di rapporto ormai esteso anche al lavoro pubblico, e quelle contenute nel decreto, la cui prevalenza è stabilita in ragione del loro essere orientate alla regolazione di aspetti che per la loro specificità richiedono apposita disciplina.
Dovrebbe, quindi, essere evidente che quando le disposizioni del decreto regolano per taluni aspetti una materia disciplinata anche dalle disposizioni del codice civile e delle leggi sul rapporto di lavoro subordinato richiamate nel decreto stesso, la disciplina degli aspetti non regolati dal decreto va cercata nelle disposizioni richiamate. Attraverso la tecnica del richiamo, infatti, quella che potrebbe apparire assenza di disciplina di un particolare aspetto della materia regolata dal decreto si risolve in realtà nella possibilità di ricavare la regola del caso attraverso la sintesi delle norme espresse dalle varie fonti concorrenti. Si può aggiungere che il quadro delle leggi in tema di lavoro comune costituisce il sistema generale di riferimento e quello del decreto integra un sottosistema: quindi, per affermare che una norma del sistema generale non trova applicazione, occorre poter rinvenire nel sistema o una norma ci esplicita esclusione o una "norma-ordinamento" del sottosistema (ossia una norma capace di esprimere un principio peculiare ad esso) che conduca a ritenere presente in quest'ultimo una ratio incompatibile con la previsione (contenuta nel sistema più ampio) di decadenza dall'impugnazione (Cass. n. 18621/2005, così testualmente nella parte motiva).
In particolare, in materia di "rapporti di lavoro pubblico privatizzato", l'efficacia derogatoria riconosciuta al contratto collettivo rispetto alla legge - anche prevista dalla cennata norma del D.Lgs. n. 165 del 2001 - presuppone che la legge della cui deroga si tratti non investa la fonte collettiva del compito della propria attuazione, poichè ove ciò accada viene meno il presupposto stesso di operatività della disciplina concernente la suddetta efficacia, senza che a tal fine sia anche necessaria che la legge disponga espressamente la propria inderogabilità, diversamente da quel che deve avvenire quando la legge non disponga in alcun modo circa i propri rapporti con successive norme di fonte collettiva (cfr. Cass. n. 18829/2005, Cass. n. 18655/2005).
Di conseguenza, la statuizione contenuta nella sentenza impugnata - secondo la quale "la disciplina del contratto collettivo nazionale di lavoro per il settore sanitario, a seguito della contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, ben può derogare a legge e regolamenti" - non merita (entro i limiti, benvero, delle surriferite precisazioni) le censure diffusamente formulate della ricorrente che connotano sostanzialmente - se pure sotto diversi profili - il primo motivo di ricorso: che, quindi, non può che essere respinto.
3/a - Anche il secondo ed il terzo motivo di ricorso - esaminabili congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi - si appalesano infondati. Infatti - tenuto conto di quanto dianzi ritenuto in merito al punto fondamentale della decisione impugnato sull'effetto derogatorio rivestito dalle contrattazioni collettiva - l'art. 15 del c.c.n. l. di comparto del 1995 (applicabile ratione temporis alla fattispecie ed a cui l'art. 4 del contratto individuale sottoscritto dalle parti il 7 giugno 2001 ha fatto espresso riferimento) prevedeva che "il dipendente assunto in servizio a tempo indeterminato è soggetto ad un periodo di prova, la cui durata è di due mesi per la posizione funzionale fino alla quarta e di sei mesi per le restanti posizioni funzionali" e la Corte di appello di Trieste ha interpretato la cennata norma contrattuale nel senso che "le parti hanno ritenuto comunque utile e necessario l'espletamento della prova" ritenendo, altresì, che l'ultimo paragrafo dell'art. 15 c.c.n. l. cit. (che ammetteva l'esecuzione della prova per il personale proveniente da ente del medesimo comparto già collocato in medesima posizione funzionale) doveva intendersi nel senso che attribuiva alle parti "una facoltà e non una conseguenza necessitata (così testualmente: l'espressa previsione contrattuale di mera possibilità e, non già, obbligatorietà, in ipotesi di personale proveniente dallo stesso comparto e dalla medesima posizione funzionale che abbia, già superata la prova, d'esenzione dalla stessa dimostra come la reiterazione della prova, in caso di nuova assunzione, sia patto legittimo, perchè le parti, stipulanti il c.c.n. l. ebbero a ritenerlo comunque funzionale all'interesse pubblico, siccome già evidenziato in D.P.R. n. 478 del 1994).
3/b - Con riferimento alla interpretazione della normativa collettiva si rileva che la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di appello e la proposta di una diversa valutazione investono il merito della decisione impugnata" - nonostante le acute e diffuse critiche della ricorrente (a comprova di un notevole sforzo difensivo) anche in chiave di violazione dei canoni ermeneutici ex art. 1362 cod. civ. e segg. - il contenuto del decisum resiste all'impugnativa, siccome proposta, in virtù della corretta e congrua motivazione addottata al riguardo dalla Corte territoriale.
Per completezza di disamina è da evidenziare che la possibilità di denunziare in cassazione la violazione o la falsai applicazione dei contratti collettivi del lavoro pubblico, D.Lgs. n. 163 del 2001, ex art. 40, prevista in generale dal D.Lgs. n. 163 cit., art. 63, comma 5, viene statuita espressamente dall'art. 64 di detto D.Lgs., per le controversie - come, appunto, la presente - in tema di accertamento sull'efficacia, la validità e l'interpretazione dei contratti collettivi (Cass., S.U. n. 1123/2003, che indica tale ipotesi quale "dimostrazione per tabulas dell'impossibilità di intendere in senso restrittivo la menzione delle procedure di contrattazione collettiva di cui all'art. 40").
Peraltro, questa Corte ha precisato che, se anche il giudice di legittimità può procedere alla diretta interpretazione dei contratti collettivi del lavoro pubblico, dalla natura negoziale degli stessi deriva che l'interpretazione debba essere compiuta secondo i criteri di cui all'art. 1362 cod. civ. e segg., e non sulla base degli artt. 12 e 14 delle disposizioni della legge in generale (Cass. n. 5832/2005).
Pervero, l'interpretazione dei contratti collettivi è riservata all'esclusiva competenza del giudice del merito, le cui valutazioni soggiacciono, nel giudizio di cassazione (ante, vale precisare, alla nuova formulazione dell'art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 3), ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente: sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione (ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l'anzidetta violazione e delle ragioni dell'obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito), non potendo - come è avvenuto per i motivi di ricorso in esame - le censure risolversi, in contrasto con l'interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (Cass. n. 7740/2003; Cass. n. 11053/2000).
In ordine, poi, alle censure concernenti gli asseriti "vizi di motivazione, vale rilevare - a conferma dell'infondatezza delle doglianze proposte ex art. 360 c.p.c., n. 5 - che: a) il difetto di motivazione:, nel senso d'insufficienza di essa, può riscontrarsi soltanto quando dall'esame del ragionamento svolto dal giudice e quale risulta dalla sentenza stessa emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione, ovvero l'obiettiva deficienza, nel complesso di essa, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla base degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, - come per le censure mosse nella specie dalla ricorrente quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati;
b) il vizio di motivazione sussiste unicamente quando le motivazioni del giudice non consentono di ripercorrere l'iter logico da questi seguito o esibiscano al loro interno un insanabile contrasto ovvero quando nel ragionamento sviluppato nella sentenza sia mancato l'esame di punti decisivi della controversia (Cass. n. 3928/2000) - irregolarità queste che la sentenza impugnata di certo non presenta -; c) per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi - come sicuramente ha fatto/nella specie, il giudice di appello - le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in questo caso ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. n. 13342/1999).
3/c - A definitiva conferma della pronuncia di rigetto dei motivi di ricorso in esame vale, infine, riportarsi al principio di cui alla sentenza di Cass. S.U. n. 14297/2007 in virtù del quale, essendo stata rigettata la principale assorbente ragione di censura, il ricorso deve essere respinto nella sua interezza poichè diventano inammissibili, per difetto di interesse, le ulteriori ragioni di censura (così, nella specie, per quanto concerne l'asserita insussistenza di "una giusta causa di recesso ex art. 2119 cod. civ.").
4 - Pure il quarto motivo di ricorso deve essere respinto.
Infatti, in merito alla condanna alle spese pronunciata dalla Corte di appello di Trieste, si rileva - in linea generale - che l'applicazione dell'istituto della compensazione delle spese processuali non è censurabile in sede di legittimità, rientrando nei poteri discrezionali del giudice del merito l'opportunità di farne applicazione quando vi sia soccombenza reciproca o concorrano altri giusti motivi, mentre in tema di regolamento delle spese processuali il sindacato della Corte di Cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le spese non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa" (Cass. n. 4305/2005) e - nella specie - siffatto principio non è stato violato, in quanto la ricorrente non è stata "parte vittoriosa" (neppure parzialmente) nel giudizio di merito.
5 - In definitiva, alla stregua delle considerazioni svolte, il ricorso proposto da M. A." non può che essere interamente rigettato.
Ricorrono giusti motivi - in relazione all'elevato impegno difensivo di entrambe le parti con riferimento alla complessità delle questioni caratterizzante il giudizio in sede di legittimità - per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
 
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.