Svolgimento del processo
Con sentenza del 2 marzo 2004 il Tribunale di Bari, dopo aver dichiarato con precedente sentenza parziale la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto da L.B.R. e P.A.M., determinava l'assegno divorzile, a carico del L.B., nella misura di Euro 1.200,00 mensili.
Avverso tale decisione proponeva ricorso in appello la P..
Secondo l'appellante, la sentenza conteneva una errata valutazione delle condizioni economiche contrapposte, ed erroneamente aveva valorizzato, ai fini della determinazione dell'assegno, la convivenza di essa P. con il signor C., convivenza che non costituiva famiglia di fatto, ma mera condivisione di alloggio.
Costituitosi, il L. B. chiedeva la conferma della sentenza e la condanna dell'appellante al pagamento delle spese processuali.
La Corte di Appello, con sentenza dell'11/02/04 - 24/02/05 notificata il 30 marzo 2005, rigettava il gravame, ritenendo che la sentenza del Tribunale di Bari, ampiamente e correttamente motivata e corrispondente alle risultanze processuali e agli orientamenti consolidati della giurisprudenza, non meritasse censura alcuna e andasse, pertanto, confermata per tutti i motivi indicati dal primo giudice.
Più in particolare, premesso come la completezza della sentenza di primo grado e l'esistenza di materiale probatorio sufficiente per la decisione imponessero il rigetto delle richieste di approfondimenti istruttori, la Corte sottolineava come:
a) la valutazione delle contrapposte esigenze ai fini della determinazione dell'assegno divorzile fosse stata corretta, posto che, se da un lato era vero che la raggiunta autonomia di tutti i figli della coppia aveva costituito un arricchimento per il L. B., d'altra parte lo stesso arricchimento aveva subito la P. che, a sua volta, aveva il dovere morale e giuridico di provvedere ai figli in proporzione alle sue sostanze;
b) più in particolare, l'appellante non potesse ritenersi indigente, in quanto aveva comunque una proprietà immobiliare, anche se improduttiva di reddito in quanto gravata da usufrutto, proprietà che, in caso di necessità, la stessa avrebbe potuto alienare ricavandone un'utilità economica, nonché vantava un proprio reddito;
c) quand'anche modesto, il riconosciutole assegno mensile di Euro 1.200,00 si rivelasse sufficiente ad assicurare una vita dignitosa ad una persona sola che, fra l'altro, divideva le spese della casa con un convivente, e non andasse dimenticato che eventuali miglioramenti economici ottenuti dal L. B., successivamente alla cessazione della convivenza coniugale (verificatasi nel lontano (OMISSIS)) non potessero andare a vantaggio del coniuge divorziato, in quanto, per costante orientamento della giurisprudenza di merito e legittimità, l'assegno divorzile sarebbe diretto ad evitare il deterioramento delle condizioni di vita esistenti in costanza di matrimonio, non già ad assicurare i vantaggi derivanti da successivi miglioramenti della situazione economica dell'ex coniuge;
d) più in particolare, quando la coppia era unita, il L. B. non avesse ancora sviluppato l'attuale progressione di carriera e i coniugi avessero tre figli a carico, per il che la situazione economica non fosse particolarmente florida e, quindi, non giustificasse un aumento della misura dell'assegno divorzile, né potesse condividersi l'affermazione della P. lì ove assumeva che il convivente C. fosse solo un soggetto presente in modo precario e aleatorio nel suo stesso alloggio e non una persona con cui aveva costituito una famiglia di fatto (affermazione la quale - fra l'altro - era stata fatta solo dal legale nelle difese e mai dall'appellante personalmente);
e) più in particolare ancora, proprio dalle ammissioni fatte dall'appellante l'8.7.1999 in sede di comparizione presidenziale ("ammetto di vivere stabilmente con il signor C. che svolge l'attività di antiquario"), oltre che dallo stato di famiglia prodotto, risultasse che la convivenza fra i due durasse da almeno sei anni e quindi fosse stabile e tale da dar luogo ad una vera "famiglia di fatto", circostanza quanto mai rilevante, tanto più alla luce di recenti indirizzi della Suprema Corte (Cass. n 5560 del 9.4.2003) secondo cui "In sede di accertamento del diritto all'assegno divorzile, la convivenza "more uxorio" e quindi la prestazione di assistenza di tipo coniugale da parte del convivente, costituisce elemento valutabile in ordine alla disponibilità, da parte del richiedente, di mezzi adeguati rispetto al tenore di vita conosciuto durante il matrimonio”.
Avverso questa sentenza ricorre per Cassazione, con atto notificato il 19 maggio 2005, la P., sulla base di 7 motivi, assistiti da memoria. Resiste con controricorso il L. B., il quale del pari ha presentato memoria.
Motivi della decisione
Con i primi tre motivi del ricorso (da trattare unitariamente data la loro stretta connessione), nel denunciare violazione e falsa applicazione degli artt. 147, 148, 155 e 158 c.c., e art. 6, legge div. (in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3) - difetto di motivazione su punto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), nonchè violazione e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., e del c.d. "diritto vivente” quale enunciato dalla Cass. 27.8.04 n. 17.128 (art. 360 c.p.c., n. 3) - omessa od insufficiente motivazione su altri punti decisivi della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), nonchè violazione sotto altro profilo e falsa applicazione dell'art. 115 c.p.c., - omessa od insufficiente motivazione su altro punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) - violazione e falsa applicazione di altri principi giuridici (art. 360 c.p.c., n. 3), la ricorrente lamenta, rispettivamente,come:
1) l'assunto sulla cui base la Corte di Bari - pur riconoscendo l'avvenuto miglioramento delle condizioni economiche del L.B. per effetto dell'intervenuto esaurimento degli oneri di mantenimento dei figli - ha negato alla ricorrente il diritto ad un assegno divorzile di importo maggiore rispetto a quello di separazione ("lo stesso arricchimento lo ha subito la P. che, a sua volta, aveva il dovere morale e giuridico di provvedere ai figli in proporzione alle sue sostanze") si fonderebbe su di una erronea interpretazione ed applicazione degli artt. 147, 148, 155 e 158 c.c., e dell'art. 6, Legge Div., interpretazione secondo la quale l'obbligo dei coniugi “di adempiere l'obbligazione prevista nell'art. 147 c.c., in proporzione alle rispettive sostanze e secondo la loro capacità di lavoro professionale o casalingo", andrebbe inteso come avente ad oggetto, necessariamente, la contestuale effettuazione sia di prestazioni economico-patrimoniali sia di quelle attinenti più propriamente alle attività di accudimento e di assistenza, direttamente contemplate dall'art. 143 c.c., laddove, invece, il concorso dei genitori negli oneri (che - già nella fisiologia del rapporto familiare - può essere, secondo la dottrina e la giurisprudenza, assolto alternativamente, o mediante prestazioni economiche o mediante prestazioni umane), nella patologia del rapporto familiare viene invece assolto nei diversi "modo e misura" stabiliti dal giudice (art. 155 c.c., comma 2, art. 6, comma 3, Legge Div.), ragion per cui la Corte di Bari avrebbe sicuramente errato nel momento in cui ha affermato che la raggiunta autonomia di tutti i figli avesse comportato - in proporzione - un "arricchimento" economico anche della sig.ra P.;
2) al momento della pronuncia della sentenza, essa ricorrente - come dedotto e documentato - fosse, da oltre un anno, assolutamente disoccupata e totalmente priva di qualsiasi reddito da lavoro in senso assoluto, e pertanto, affermando che essa ricorrente aveva "un proprio reddito da lavoro" quantunque "modesto", la Corte di Appello avrebbe deciso in contrasto con le prove acquisite, così violando e male applicando l'art. 115 c.p.c., e quanto meno avrebbe omesso totalmente di fornire motivazione del suo assunto, non avendo indicato gli elementi dai quali ha tratto il proprio convincimento in contrasto con le risultanze acquisite, ed - in ogni caso - del tutto illegittima si rivelerebbe la ulteriore considerazione spesa in sentenza secondo la quale essa P. potrebbe - mediante alienazione - ricavare utilità economica dalla "nuda proprietà immobiliare", e ciò in quanto, sotto un primo profilo, l'assoluta genericità delle indicazioni (quali proprietà?) si risolverebbe in un totale difetto di motivazione, e, sotto altro profilo, l'alienabilità della, nuda proprietà - nel caso di specie, solo di due appartamentini - si rivelerebbe meramente virtuale; tutto ciò senza dire che secondo la giurisprudenza di questa stessa Suprema Corte i cespiti patrimoniali in nuda proprietà, in quanto improduttivi di reddito, sono irrilevanti nel quadro delle condizioni economiche delle parti;
3) essa P., tra gli altri specifici motivi di gravame, dopo aver premesso che quella con il C. - così come quella con la sig.ra L.I. - fosse stata mera coabitazione e non convivenza, avesse comunque allegato e provato documentalmente, in base a certificati anagrafici, che detta convivenza era ormai cessata; pertanto, la sentenza impugnata - nell'enunciare che essa P. "fra l'altro, dividesse le spese di casa con un convivente" - non solo avrebbe adottato una decisione in totale ed immotivato contrasto con le prove acquisite, ma - in ogni caso - anche erronea sul piano più strettamente giuridico, posto che il giudice del merito avrebbe totalmente omesso di verificare se tale rapporto, ove mai qualificabile come convivenza anzichè come coabitazione, fosse connotato da quegli aspetti in presenza dei quali soltanto può, secondo i principi giuridici enunciati dal giudice della nomofilachia, rilevare come causa di cessazione del diritto a percepire l'assegno dal coniuge (od ex coniuge), avendo la stessa Suprema Corte di Cassazione chiarito ripetutamente come la convivenza possa costituire causa di cessazione od attenuazione dell'obbligo economico dell'ex coniuge solo se ed in quanto l'istante effettivamente riceva soddisfacimento ai propri bisogni di vita dagli apporti economici dal convivente, e come "La convivenza extraconiugale intrapresa dal coniuge richiedente l'assegno, non implicando alcun diritto al mantenimento nei confronti del convivente, non comporti di per sè la cessazione dell'obbligo di corresponsione dell'assegno di separazione o di divorzio da parte dell'altro coniuge, ma possa rilevare (ed il relativo onere probatorio incomba sull'altro coniuge), ove rivesta requisiti di stabilità e di affidabilità, ai fini dell'accertamento delle condizioni del beneficiario, nei limiti in cui incida sulla reale e concreta situazione economica del medesimo, risolvendosi in una fonte effettiva e non aleatoria di reddito" (nel caso di specie - a dire della ricorrente - nessuna indagine in senso assoluto si rinverrebbe nella sentenza impugnata, in ordine alla verifica di tale valenza, e tale omissione, da sola, comporterebbe la riforma della sentenza, e ciò anche a non voler procedere alla confutazione dell'erronea presupposizione - per l'esattezza, espressa dal Tribunale, ma che probabilmente potrebbe aver influenzato il giudice di appello - che il ridetto "convivente" ( C.) svolgesse la professione di "architetto", circostanza in realtà assolutamente priva di rispondenza alla realtà.
I motivi meritano accoglimento; ed infatti - al di là di taluni profili di inammissibilità cui da corpo tutta la quota di censure indirizzata a sollecitare una valutazione alternativa delle risultanze probatorie, la impugnata sentenza ha effettivamente assunto, a presupposto delle conclusioni da essa tratte, schemi logico - giuridici del tutto fuorvianti condensabili nei seguenti erronei assiomi;
1) il raggiungimento dell'autosufficienza economica da parte dei figli di una coppia di divorziandi (o - il che in tal caso è lo stesso - di separandi) si tradurrebbe, per ciò stesso, in fattore di apprezzabile arricchimento economico (da risparmio) anche per il genitore tenuto al solo accudimento materiale e morale;
2) nella comparazione delle posizioni patrimoniali e reddituali di una coppia di divorziandi (o - il che è anche qui lo stesso - di separandi) effettuata al fine di valutare la ricorrenza dei presupposti per l'attribuzione dell'assegno divorzile (o di mantenimento), lo "smobilizzo" della proprietà immobiliare rappresenterebbe uno strumento ordinario di redditualità;
3) sempre ai fini della valutazione dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile (o - in caso di separazione - di contributo al mantenimento dell'altro coniuge), il fattore della convivenza con persona di altro sesso rileverebbe automaticamente in termini di "convivenza more uxorio" (indipendentemente dalla verifica della ricorrenza dei fattori di stabilità e di progettualità affettive ed economiche) ed - altrettanto automaticamente - dispiegherebbe una funzione esonerante e preclusiva, laddove - invece - come anche recentemente chiarito da questa Suprema Corte (per tutte, vedi: Cass. 1179/06) “In assenza di un nuovo matrimonio, il diritto all'assegno di divorzio, in linea, di principio, di per sé permane anche se il richiedente abbia instaurato una convivenza more uxorio con altra, persona, salvo che sia data la prova che tale convivenza ha determinato un mutamento in melius - pur se non assistito da garanzie giuridiche di stabilità, ma di fatto adeguatamente consolidatosi e protraentesi nel tempo - delle condizioni economi che dell'avente diritto, a seguito di un contributo al suo mantenimento ad opera del convivente o, guanto meno, di risparmi di spesa derivatigli dalla convivenza, onde la relativa prova non può essere limitata a quella della mera instaurazione e della permanenza di una convivenza siffatta, risultando detta convivenza di per sé neutra ai fini del miglioramento delle condizioni economiche dell'istante e dovendo l'incidenza economica della medesima essere valutata, in relazione al complesso delle circostanze che la caratterizzano, laddove una simile dimostrazione del mutamento in melius delle condizioni economiche dell'avente diritto può essere data con ogni mezzo di prova, anche presuntiva, soprattutto attraverso il riferimento ai redditi e al tenore di vita della persona con la quale il richiedente l'assegno convive, i quali possono far presumere, secondo il prudente apprezzamento del giudice, che dalla convivenza more uxorio il richiedente stesso tragga benefici economici idonei a giustificare il diniego o la minor quantificazione dell'assegno".
Del pari sostanzialmente fondati (e perciò da accogliersi nei limiti che vanno a chiarirsi) si rivelano i motivi quarto, quinto e sesto (anche essi da trattarsi unitariamente in quanto strettamente connessi), con i quali, nel denunciare violazione e falsa applicazione dell'art. 5, legge div. (art. 360 c.p.c., n. 3, definizione della adeguatezza dei mezzi, nonché ulteriore violazione e falsa applicazione dell'art. 5 legge div. nella definizione dell'adeguatezza dei mezzi, in relazione agli incrementi conseguiti dal soggetto obbligato (art. 360 c.p.c., n. 3), nonché ulteriore violazione e falsa applicazione dell'art. 5 legge div. in relazione ai coefficienti di quantificazione (art. 360 c.p.c., n. 3) difetto di motivazione su altri punti decisivi (art. 360 c.p.c., n. 5), la ricorrente lamenta rispettivamente come:
1) del tutto precaria, si riveli, sotto il profilo giuridico, l'adozione dello schema dell'"assicurazione di una vita dignitosa" quale parametro di riferimento per ricostruire l'"adeguatezza" della concreta misura dell'"assegno divorzile" (nella specie, fissato in 1^ grado in Euro 1.200,00 mensili), laddove - come è stato più volte ribadito dalla Suprema Corte - il giudice è invece chiamato a verificare l'esistenza del diritto, in relazione all'inadeguatezza dei mezzi (od all'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive) ragguagliati ad un "tenore di vita" analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio;
2) l'assunto sulla cui base i Giudici di Bari hanno negato la perequazione della misura dell'assegno divorzile di essa P. agli incrementi conseguiti dal L. B. dopo la cessazione della convivenza (a loro dire, in realtà, per costante orientamento della "giurisprudenza di merito e legittimità", l'assegno divorzile non sarebbe diretto "ad assicurare i vantaggi derivanti da successivi miglioramenti della situazione economica dell'ex coniuge") si riveli gravemente errato sotto il profilo giuridico, posto che - come definitivamente ormai chiarito dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte, ai fini della quantificazione dell'assegno divorzile, deve tenersi conto anche degli incrementi e miglioramenti conseguiti, pur durante la separazione, dal soggetto obbligato quando - come nel caso di specie - il successo della carriera (e del reddito) del convenuto sia stato favorito indirettamente dal sacrificio personale della moglie dedicatasi al governo della casa e della famiglia;
3) laddove - secondo la disciplina dell'art. 5, Legge sul divorzio - l'assegno vada in concreto moderato, in più od in meno, secondo i parametri in esso elencati, i quali - a loro volta - vanno valutati tutti in relazione alla durata del matrimonio, e laddove, secondo l'insegnamento costante di questa Corte, il giudice del merito, nel definire l'importo, può non rendere conto della influenza - uno per uno - dei parametri contemplati dalla legge, purchè però "ne dia sufficiente giustificazione", nella specie, pur avendo, in sede di ricorso in appello, essa P. allegato - chiedendo che se ne tenesse conto nella quantificazione dell'assegno - di essere ormai anziana, disoccupata ed indigente, di avere offerto un contributo personale e patrimoniale esclusivo (o prevalente) alla conduzione della casa e della famiglia nonchè alla formazione della carriera e quindi alla fortuna del marito, e che il matrimonio era durato quasi 30 anni, e pur avendo - in sede di memoria difensiva del 26.1.05 - insistito sulla valenza - a proprio favore - da tutti tali elementi, nonchè sui propri apporti patrimoniali, in base ai quali - prima - era stata acquistata la villa-casa familiare e - poi - le case dei figli, nella sentenza impugnata, invece - a parte i fugaci ed erronei riferimenti ai rispettivi mezzi delle parti (reddito della P., peraltro inesistente; reddito del L.B. antecedente agli incrementi verificatisi) attinenti, in quanto tali, all'an debeatur - nessuna attenzione in senso assoluto, sia stata posta ai parametri di quantificazione (quantum debeatur) ampiamente trattati, provati e discussi dalla difesa di essa P., e cioè alle condizioni personali dei coniugi (all'età ultracinquantenne di essa P., alla notoria sua impossibilità di reperire altra idonea occupazione lavorativa in un mercato ad alto tasso di disoccupazione e che privilegia il lavoro giovanile), alle ragioni della decisione (fallimento del matrimonio a causa dell'adulterio del L.B.) ed al contributo personale ed economico dato, da essa P., alla conduzione familiare ed - indirettamente.. sacrificandosi nella famiglia alla formazione del successo professionale e reddituale del L.B., e tanto meno -infine- alla durata del matrimonio.
Anche in relazione ai profili sollevati con il secondo blocco di motivi or ora esaminati, va rilevato - infatti - come la decisione impugnata appaia - da un lato - manifestamente e gravemente incongrua ed elusiva nell'approfondimento dei percorsi di indagine più volte segnalati come imprescindibili nella valutazione dei presupposti per il riconoscimento dell'assegno divorzile e per la sua quantificazione e - dall'altro - gravemente erronea nel momento in cui:
a) pretende di sostituire, al parametro della tendenziale conservazione del “tenore di vita" vigente in costanza di convivenza matrimoniale, quello della preservazione di un regime di vita astrattamente "dignitoso";
b) pretende di ignorare la copiosa giurisprudenza di questa Suprema Corte che ha più volte ribadito come "Al fine della determinazione dell'assegno divorzile, il giudice di merito deve determinare, sulla base delle prove offerte, la situazione economica familiare esistente al momento della cessazione della convivenza matrimoniale, raffrontandola con quella del coniuge richiedente al momento della pronuncia, di divorzio, al fine di stabilire se quest'ultima sia tale da consentire al richiedente medesimo di mantenere un tenore di vita analogo a quello corrispondente alla indicata situazione economica della famiglia. Questa va valutata, peraltro, anche con riferimento ai miglioramenti reddituali dell'ex coniuge dovuti al prevedibile sviluppo di situazioni e aspettative già presenti durante la convivenza matrimoniale, in quanto collegati alla sua attività lavorativa, e non aventi carattere di eccezionalità, in guanto non connessi a circostanze ed eventi del tutto occasionali ed imprevedibili." (vedi, per tutte, in ordine al profilo sub a), Cass. 15610/07; ed in ordine al profilo sub b), Cass. 1379/00, ed - infine - in ordine ai criteri più generali di indagine, Cass. 14004/02, a tenore della quale “L'accertamento del diritto all'assegno di divorzio va effettuato verificando l'adeguatezza dei mezzi economici a disposizione del richiedente a consentirgli il mantenimento di un tenore di vita, analogo a quello goduto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio, fissate al momento del divorzio, mentre la liquidazione in concreto dell'assegno, ove sia riconosciuto tale diritto per non essere il coniuge richiedente in grado di mantenere con i propri mezzi detto tenore di vita, va compiuta in concreto tenendo conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ognuno e di quello comune, del reddito di entrambi, valutandosi tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio").
L'accoglimento dei primi 6 motivi rende del tutto assorbito il 6^ motivo, con il quale, nel denunciare violazione art. 4, comma 10, Legge Divorzio ed art. 112 c.p.c., (art. 360 c.p.c., n. 3) - omessa motivazione su punto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), la ricorrente lamenta la mancata pronuncia, da parte della Corte territoriale sul capo di appello specificamente da essa sollevato in ordine alla decorrenza dell'assegno divorzile, fissata, dai primi giudici, nell'ottobre 2003.
In relazione all'accoglimento dei primi sei motivi del ricorso ed all'assorbimento del settimo, la impugnata sentenza va cassata in ordine ai profili accolti, e la causa va rimessa innanzi alla Corte di Appello di Bari, in diversa composizione, la quale riesaminerà la vicenda alla luce dei principi di diritto sopra enunciati e provvedere anche in ordine alle spese di questa fase di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie i primi sei motivi del ricorso, assorbito il settimo. Cassa l'impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Bari in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Suprema Corte di Cassazione, il 12 giugno 2008.
Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2008