domenica 19 ottobre 2008 - Pubblicazione a cura di
Comunione legale tra coniugi, acquisti per usucapione, oggetto della comunione
Cassazione civile , sez. II, sentenza 23.07.2008 n° 20296
I beni immobili acquisiti per usucapione verificatisi in costanza di matrimonio entrano in comunione legale, ancorché compiuti da uno solo dei coniugi.
L'alienazione di un bene immobile in comunione legale tra i coniugi, ancorché diretta a procurare i mezzi per estinguerei debiti gravanti sulla comunione medesima, non costituisce un atto di ordinaria amministrazione, rimesso all'iniziativa di uno solo dei contitolari.
L'atto dispositivo compiuto da uno solo dei coniugi, senza il necessario consenso dell'altro conige, può essere impugnato nel termine indicato dalla legge.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Sentenza 4 giugno - 23 luglio 2008, n. 20296
(Presidente Pontorieri - Relatore Piccialli)
Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 30.12.96 S. C. citò al giudizio del Tribunale di Sondrio V. R., al fine di sentirsi dichiarare proprietario di un immobile urbano con annesso diritto di parcheggio sito in Trepalle e censito nel catasto censuario di Livigno al foglio 44, mappale n. 169, o in subordine pronunziarsi sentenza costituiva ex art. 2932 c.c., in forza di scrittura privata stipulata il 30.8.96, al riguardo esponendo di aver versato, sul convenuto prezzo di L. 550.000.000, L. 200.000.000 di acconto in contanti, di essersi accollato debiti ipotecali e sfociati in pignoramenti, per complessive L. 300.000.000,impegnandosi a pagare il residuo saldo di L. 50.000.000 entro due anni dalla stipula del rogito notarile, cui il convenuto si era tuttavia sottratto. Costituitosi il R., chiese il rigetto della domanda, segnatamente negando di aver venduto il bene come sopra identificato e, pertanto, contestando la propria legittimazione passiva. Interveniva volontariamente in giudizio A. R., moglie del convenuto, e premesso di essere comproprietaria con il medesimo, in virtù di comunione legale, dell'immobile distinto in catasto al foglio 44, mappale n. 425 (e non 169), al quale presumeva si riferisse la domanda attrice, oltre ad associarsi alle richieste del marito, chiedeva dichiararsi, gradatamente, l'inesistenza, la nullità, l'annullamento o l'inefficacia nei propri confronti del contratto azionato dal C.. Ammessa ed espletata consulenza tecnica di ufficio, al fine di identificare, con particolare riferimento ai dati ed alle vicende catastali, il bene rivendicato dall'attore, con sentenza del 19.20 giugno 2000 il Tribunale adito dichiarò il C. proprietario dell'immobile contrassegnato dal "mappale n. 425 - foglio 44 nel catasto del Comune di Livigno - S.S. 301 del Foscagno", costituendo il diritto di superficie sull'antistante area di parcheggio a favore del medesimo, con compensazione totale delle spese del giudizio.
Proposto appello da V. R., con adesione di A. R. distintamente costituita, resistito il gravame dal C., con sentenza del 4.2-8.4.03 la Corte di Milano confermava integralmente la decisione di primo grado, con condanna dell'appellante alle spese del giudizio di appello.
La decisione veniva motivata sulla scorta delle seguenti essenziali argomentazioni:
1) l'imprecisa indicazione nella scrittura privata,dovuta ad errore del R., degli estremi catastali, poi rettificati nella sentenza di primo grado, non era di ostacolo all'accoglimento della domanda, essendo stato l'immobile sufficientemente identificato con i dati ubicativi e descrittivi, con conseguente validità del contratto ed esclusione del vizio di ultrapetizione;
2) avendo l'attore fornito prove documentali "precostitutite", e pertanto ammissibili anche in grado di appello, dell'avvenuto pagamento di debiti accollatisi per complessive L. 212.117.825, poteva riconoscersi al medesimo la proprietà dell'immobile "subordinatamente al pagamento ...di residue L. 137.882.175", costituenti il saldo ancora dovuto sul prezzo di acquisto di L. 550.000.000;
3) il contratto, pur in difetto dell'indicazione della concessione edilizia o del relativo "condono", non era nullo ai sensi degli artt. 17 e 40 L. 47/85, essendo stato l'immobile costruito prima dell'entrata in vigore di tale legge, sicché gli "adempimenti" correlati alle eventuali irregolarità edilizie pregresse avrebbero potuto, a termini della legge medesima, "essere fatti prima della trascrizione della sentenza";
4) essendo risultato che l'immobile era stato acquisito da V. R. in virtù di usucapione dichiarata con sentenza del 20.5.87, in forza di possesso iniziato ben prima del suo matrimonio, celebrato l'8.1.72, con A. R., e non avendo quest'ultima fornito alcun contributo a tale acquisto, era da escludersi l'inclusione del bene nella comunione legale, con conseguente validità del contratto di vendita,nonostante la mancata partecipazione della suddetta; peraltro, anche nel caso di appartenenza del bene a tale comunione, la vendita dello stesso, che per ammissioni della stessa interventrice era gravato da varie passività comuni, avrebbe dovuto considerarsi, in quanto finalizzata a risolvere la rilevante esposizione debitoria della comunione familiare, un atto non eccedente l'ordinaria amministrazione, che ciascuno dei due coniugi avrebbe potuto compiere anche senza la partecipazione dell'altro a termini dell'art. 180 c.c.;
5) la diversità tra le formule adottate dal Tribunale, per il riconoscimento della proprietà del fabbricato e per la costituzione del diritto di superficie sull'area di parcheggio, era irrilevante e giustificata dalla diversa natura dei diritti reali in questione.
Avverso la suddetta sentenza A. R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sei motivi d'impugnazione.
Ha resistito S. C. con controricorso.
V. R. si è costituito con controricorso, contenente ricorso incidentale proponente sei motivi in tutto conformi a quelli esposti nel ricorso principale.
A quest'ultimo ricorso ha replicato, con ulteriore controricorso, il C..
È stata infine depositata una memoria illustrativa del ricorso principale.
Motivi della decisione
Disposta, preliminarmente, la riunione dei ricorsi ex art. 335 c.p.c., deve essere dichiarata, in conformità all'eccezione sollevata nel controricorso del C., l'inammissibilità di quello incidentale proposto da V. R., per assoluta carenza del requisito di cui all'art. 366 co. 1 n. 3 c.p.c., mancando del tutto in tale atto d'impugnazione un'esposizione, sia pur sommaria, dei fatti di causatale elemento è richiesto, a pena d'inammissibilità, anche per il ricorso incidentale, tenuto conto del rinvio operato dall'art. 371 co. 3 all'art. 366 c.p.c., a termini di consolidata giurisprudenza di questa Corte, nella quale si è anche escluso, in conformità al principio della c.d. "autosufficienza", che il requisito in questione possa essere soddisfatto da un mero rinvio, come nella specie operato, all'esposizione dei fatti contenuta nel ricorso principale (v., tra le altre, sez. II n. 12599/02, sez. lav. n. 12256/00, sez. III n. 4013/95, S.U. n. 1513/98).
Con il primo motivo del ricorso principale, proposto da A. R., viene dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., per avere i giudici di merito accolto una domanda avente un oggetto diverso da quello al quale si era riferita la domanda di controparte. Premesse le vicende,di frazionamento e catastali, attinenti agli immobili in questione, ed evidenziato il "macroscopico errore" commesso dalle parti, "allorché, in luogo di individuare l'unità immobiliare oggetto di compravendita con l'esatto identificativo catastale (F. 44, Mapp. n. 425 sub 1), hanno invece fatto riferimento ad un diverso mappale (n. 169), rappresentativo - per dirla con il c.t.u. - di un prato di mq 1.540 sul quale non esisteva come non esiste tuttora nessun fabbricato...e che tale errore è stato ex adverso riprodotto nell'atto di citazione del giudizio di primo grado", si sostiene che controparte, anziché avvalersi della facoltà di rettificare, ex art. 183 c.p.c., la propria domanda, avrebbe persistito,anche nelle successive richieste e nelle conclusioni, pur a seguito delle "chiarissime risultanze della C.T.U.", nella iniziale richiesta, sicché il Tribunale prima, la Corte poi, avrebbero attribuito alla parte attrice un bene diverso da quello richiesto, nonostante la medesima avesse, consapevolmente, persistito, senza rettificarla, nell'erronea domanda.
Le censure sono manifestamente infondate.
Va, anzitutto, rilevato che la stessa odierna ricorrente intervenne nel giudizio di merito, allo scopo di tutelare i propri assunti diritti sul bene oggetto del contratto in data 30.8.96, stipulato tra il marito ed il C., proprio sul presuppostole oggi rimette contraddittoriamente in discussione, che l'effettiva pretesa dell'attore si riferisse al fabbricato, asseritamente comune, censito in catasto al Fl. 44, mappale 425, e non invece al suolo, contrassegnato con il mappale n. 44, con il quale erroneamente i contraenti avevano indicato il bene oggetto del trasferimento. Tale errore, meramente formale, inessenziale e, peraltro, ascrivibile - come accertato dai giudici di merito - al R., era stato ripetuto dalla parte attrice nell'atto introduttivo del giudizio, nel quale tuttavia l'immobile, oggetto della domanda attrice, era stato chiaramente indicato con dati ubicativi e descrittivi (di tutte le sue parti componenti), atti a consentirne, nonostante l'imprecisione degli estremi particellari, l'inequivoca obiettiva identificazione fisica. In siffatto contesto, una volta chiarito tale errore, non vi era alcuna necessità che il C. emendasse la domandarne comunque risultava riferibile a quella unità immobiliare ed all'annesso diritto di "parcheggio", che pertanto i giudici di merito ben potevano attribuirgli in proprietà, senza incorrere nel vizio di extra o ultra petizione, non costituendo gli estremi catastali, assolventi a finalità essenzialmente fiscali e sussidiarie ai fini dell'individuazione degli immobili, elementi essenziali richiesti per la determinabilità dell'oggetto dei contratti e delle domande (in tal senso, v., tra le altre, Cass. n. 8460/06, 9215/04, 5635/02, 711/98, e la recente Cass. 2^, p.u. 22.4.08, r.g.n. 5846/04, in corso di pubblicazione).
Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta violazione o falsa applicazione dell'ari 177 c.c., con connessa carenza di motivazione, censurandosi la prima ratio decidendi, posta a base, nella sentenza impugnata, della reiezione della domanda di A. R., secondo la quale l'acquisto per usucapione del bene immobile da parte di V. R., in virtù di sentenza del Pretore di Tirano del 9.5.87 (oggetto di correzione materiale con ordinanza del 6.9.88), non avrebbe comportato l'acquisizione dello stesso alla comunione legale tra i coniugi, in quanto avvenuto a titolo originario, senza alcun apporto da parte della moglie e, per di più, in virtù di possesso iniziato anteriormente alla celebrazione del matrimonio tra i suddetti, avvenuta nel 1972.
Si oppone, al riguardo, l'omnicomprensività della disposizione di cui all'art. 177 co. 1 lett. cit. cod., non contenente alcuna distinzione tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo, con richiamo a giurisprudenza di questa Corte ed a conforme dottrina.
Il motivo, fondato nei termini di seguito precisati, va accolto per quanto di ragione.
Effettivamente deve ritenersi, in conformità a quanto questa Corte ha già avuto modo di precisare (Cass. n. 14347/00, n. 2983/91), che gli acquisti di beni immobili per usucapione, maturata a favore di uno dei coniugi in regime di comunione legale, si estendano ope legis all'altro, in virtù della regola prevista dalla disposizione sopra citata, che contemplando, in via generale, tutti "gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad eccezione di quelli relativi ai beni personali", non distingue tra gli acquisti a titolo originario e quelli a titolo derivativo; sicché, non rientrando tale ipotesi in alcune delle eccezioni, relative ai "beni personali", indicate dal successivo ari 179, il cui elenco è da ritenersi tassativo, non vi è alcuna ragione per escludere dalla comunione in questione gli acquisti a titolo originario, come quelli operati in virtù di usucapione, a nulla rilevando che gli stessi si siano verificati senza alcun apporto, economico o personale, dell'altro coniuge (sull'irrilevanza, in genere, della provenienza delle risorse, ai fini degli acquisti compiuti durante il matrimonio, v. Cass. n, 12439/93). È appena il caso, poi, di precisare che i diversi principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità per altra ipotesi di acquisto a titolo originario, quello per accessione ad immobile appartenente ad uno solo dei coniugi (v. per tutte S.U. 651/96), non si attagliano al caso dell'usucapione, considerato che l'esclusione dalla comunione legale risulta giustificata dalla considerazione che tali acquisti si concretano in incrementi, di natura reale ed in virtù della forza espansiva del diritto di proprietà immobiliare prevista dalla particolare disposizione di cui all'art. 934 c.c., beni già oggetto di proprietà personale ex art. 179 co. 1 lett. a).
Affermato, pertanto, il principio, a termini del quale, diversamente da quanto ritenuto dalla corte territoriale, anche "gli acquisti di beni immobili per usucapione, verificatisi in costanza di matrimonio tra coniugi in regime di comunione legale, rientrano in quest'ultima ai sensi dell'art. 177 co. 1 lett. a) c.c., ancorché compiuti da uno solo dei coniugi", deve tuttavia precisarsi che il momento rilevante, agli effetti dell'acquisto ope legis, ai sensi della citata disposizione,del diritto di comproprietà del bene da parte del coniuge non usucapiente, non è quello della pronunzia della sentenza,o di altro equivalente provvedimento, di accoglimento della domanda di usucapione, che ha natura meramente dichiarativa, bensì quello del compimento, nella decisione accertato, del tempus ad usucapionem (previsto, per le diverse ipotesi, dagli artt. 1158, 1159, 1159 bis c.c.), vale a dire della maturazione del termine legale di ininterrotto possesso, alla cui scadenza, perfezionatasi la fattispecie legale acquisitiva, il possesso si trasforma nella proprietà o nell'altro diritto reale di fatto esercitato.
Nel caso di specie, pertanto, al fine di stabilire se l'immobile in contestazione fosse confluito nella comunione legale tra i coniugi V. R. ed A. R., non era sufficiente far riferimento alla data della pronunzia della sentenza pretorile, dichiarativa dell'usucapione in favore del primo, occorrendo, altresì, accertare, sulla scorta del contenuto della sentenza medesima, la precedente data in cui si era compiuto, a favore dell'usucapiente, il ventennio di ininterrotto possesso ex art. 1158 c.c., onde stabilire se la maturazione di tale termine si fosse verificata in costanza di matrimonio ed in vigenza della norma di cui all'art. 177 c.c., così come sostituito dall'art. 55 della L. 19.5.1975 n. 151, introduttiva, tra l'altro, del suddetto regime legale di comunione.
Con il terzo motivo di ricorso vengono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 180 e 184 c.c., 1325 e 1326 c.c., con carenze e contraddittorietà di motivazione, censurandosi, sotto diversi e gradati profili, la seconda e rafforzativa ratio decidendi, esposta nella sentenza impugnata, secondo la quale, anche a voler ritenere l'immobile in contestazione appartenuto in comunione legale ad entrambi i coniugi, l'alienazione dello stesso da parte del marito, senza il consenso della moglie, in quanto finalizzata al pagamento di debiti gravanti sul patrimonio comune dei coniugi, avrebbe dovuto considerarsi un atto di ordinaria amministrazione, e, pertanto, ben potendo essere compiuta dal solo V. R. ai sensi dell'art. 180 co. 1 c.c. non avrebbe potuto essere impugnata da A. R..
Contestando tale affermazione di principio e ribadendo il proprio diritto di chiedere l'annullamento dell'atto dispositivo ai sensi dell'art. 184 c.c., nella specie tempestivamente esercitato a seguito dell'avvenuta conoscenza del contratto stipulato dal marito, la ricorrente censura in particolare l'arbitrarietà dell'affermazione, in quanto priva di concreto supporto probatorio, non avendo ella mai ammesso che la vendita fosse avvenuta per estinguere debiti comuni, ma solo evidenziatoci fine di conferire ulteriore supporto alla propria rivendicazione di comproprietà, di avere subito, in epoca antecedente a quella delle ben più rilevanti azioni esecutive in danno del marito, alcuni pignoramenti della propria quota.
Le censure sono fondate.
A parte l'evidenza del difetto di motivazione, giacché l'affermazione di aver subito pignoramenti, per importi non meglio precisati, dell'immobile comune, non poteva equivalere all'ammissione che la successiva vendita dello stesso, ad opera del coniuge, fosse necessaria al ripianamento di un'esposizione debitoria comune di entità equivalente o superiore al valore del cespite alienato, censurabile è l'affermazione di principio su cui si basa la menzionata ratio decidendi, secondo la quale le suesposte presunte finalità dell'atto dispositivo varrebbero a conferirgli la natura di atto di ordinaria amministrazione.
In mancanza di una definizione codicistica a carattere generale degli atti in questione, la dottrina e la giurisprudenza, pressocché concordemente, ascrivono al novero dell'ordinaria amministrazione quei soli atti le cui finalità attengano, essenzialmente, alla conservazione o al godimento dei beni che ne formano oggetto, di valore economico non particolarmente elevato in senso assoluto e soprattutto in relazione a quello totale del patrimonio, e comportanti un modesto margine di rischio (v., in particolare, ai fini dell'art. 320 c.c., Cass. n. 7546/03, n. 1345/98, n. 4562/97); per converso vengono ritenuti di straordinaria amministrazione, oltre a quelli espressamente dichiararti tali dal legislatore in casi particolari, tutti gli atti destinati ad incidere profondamente sulla vita e sul patrimonio dei soggetti interessati, e pertanto i negozi comportanti il trasferimento della proprietà di immobili o aziende, la costituzione di diritti reali di godimento o di garanzia a carico di tali beni, o anche di diritti personali, di lunga durata o assistiti da particolare tutela normativa, ed in genere, anche al di fuori della materia immobiliare, tutte le operazioni di rilevante importanza patrimoniale o comportanti sensibili rischi economici.
Tali principi, dai quali il collegio non ravvisa motivi per doversi discostare, inducono a ritenere che l'alienazione di un bene immobile in comunione legale tra i coniugi, ancorché diretta a procurare i mezzi per estinguerei tutto o in parte, debiti gravanti sulla comunione medesima, non possa considerarsi un atto di ordinaria amministrazione, rimesso all'iniziativa di uno solo dei contitolari, tenuto conto della sua attitudine ad incidere profondamente sulla composizione del patrimonio comune, privandolo una componente di rilevante entità economica, di valore, rispetto a quello della moneta, tendenzialmente crescente o quantomeno stabile nel tempo, connotati che normalmente caratterizzano, quali ed "beni - rifugio" verso i quali confluisce il risparmio delle famiglie, gli immobili. La serietà ed irreversibilità delle conseguenze di una siffatta scelta, implicante una ponderata vantazione comparativa, tra gli svantaggi, connessi alla perdita di un cespite patrimoniale di notevole importanza, ed i vantaggi, costituiti dalle possibilità di ripianamento della comune esposizione debitoria, in coerenza al principio della pari dignità dei coniugi (artt. 29 Cost., 143 c.c.) ed al favore verso la conservazione dei beni comuni, cui è improntato il complesso delle disposizioni disciplinanti l'istituto di cui all'art. 177 c.c. comportano che la stessa non possa che essere rimessa alla comune volontà dei coniugi, con la conseguenza che l'atto dispositivo compiuto da uno solo degli stessi, in violazione dell'art. 180 co. 2 c.c. e non convalidato dall'altro, può essere impugnato da quest'ultimo entro il termine di cui all'art. 184 co. 2 c.c..
Cadute, dunque, entrambe le rationes decidendi della sentenza impugnata, questa deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della corte di provenienza, che dovrà accertare se l'usucapione dell'immobile si sia compiuta in data in cui era in vigore la comunione legale tra i coniugi R. ed, in caso positivo, pronunziarsi sull'azione di annullamento proposta ex art. 184 c.c. dall'odierna ricorrente principale; consegue l'evidente assorbimento del profilo di censura, contenuto nel terzo motivo, deducente la violazione e falsa applicazione degli artt. 180 e 184 c.c.. Restano del pari assorbiti l'ultimo profilo di censura del terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 1325 e 1326 c.c.), nonché il quarto motivo(violazione e falsa applicazione dell'art. 40 L. 47/85) di ricorso, con i quali vengono dedotte ragioni d'invalidità, diverse da quelle in precedenza esposte, del contratto stipulato tra il C. ed il R., il cui esame, pur attenendo a motivi di nullità astrattamente rilevabili di ufficio, non è tuttavia consentito a questa Corte. Premesso, al riguardo, che il principio della rilevabilità di ufficio delle nullità in ogni stato e grado del giudizio deve essere coordinato con quello della sussistenza di una domanda, implicante la verifica di validità del negozio, da parte di un soggetto processuale legittimato ed interessato, va osservato che, non potendosi tener conto della richiesta di V. R., il cui ricorso è stato dichiarato inammissibile, l'interesse da parte di A. R. alla domanda di dichiarazione di nullità, del negozio stipulato dal predetto e dal C., presuppone il preventivo accertamento dell'appartenenza dell'immobile anche alla medesima, in virtù dell'addotta comunione coniugale, accertamento che è stato rimesso alla nuova fase del giudizio del giudizio di merito.
Anche il quinto ed il sesto motivo, rispettivamente attinenti alla statuizione relativa ai diritto di parcheggio ed al pagamento della residua parte del prezzo della vendita, restano assorbiti, per l'evidente priorità logico-giuridica delle questioni devolute al giudice di rinvio.
A quest'ultimo, infine, va rimesso il regolamento delle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile quello incidentale, rigetta il primo motivo del ricorso principale, ne accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il secondo ed il terzo, dichiarandone assorbiti i rimanenti. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alle censure accolte, e rinvia, anche per la pronunzia sulle spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d'Appello di Milano.