lunedì 13 ottobre 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli
REATO - CONCORSO COLPOSO NEL DELITTO DOLOSO - FATTISPECIE IN TEMA DI RESPONSABILITA' (COLPOSA) DEL MEDICO PSICHIATRA PER FATTO OMICIDIARIO (DOLOSO) DEL PAZIENTE
La Corte ha affermato che è configurabile il concorso colposo nel delitto doloso, sia nel caso in cui la condotta colposa concorra con quella dolosa alla causazione dell'evento secondo lo schema del concorso di cause indipendenti, sia in quello di vera e propria cooperazione colposa, purchè in entrambi i casi il reato del partecipe sia previsto dalla legge anche nella forma colposa e nella sua condotta siano effettivamente presenti tutti gli elementi che caratterizzano la colpa. In particolare è necessario che la regola cautelare inosservata sia diretta ad evitare anche il rischio dell'atto doloso del terzo, risultando dunque quest'ultimo prevedibile per l'agente. Nella fattispecie la Corte ha confermato la condanna del medico psichiatra, il quale, sospendendo in maniera imprudente il trattamento farmacologico cui era sottoposto il paziente ricoverato in una comunità, ne aveva determinato lo scompenso, ritenuto la causa della crisi nel corso della quale lo stesso paziente aveva aggredito ed ucciso uno degli operatori che lo accudivano.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARINI Lionello - Presidente -
Dott. BRUSCO Carlo Giusepp - Consigliere -
Dott. ZECCA Gaetanino - Consigliere -
Dott. LICARI Carlo - Consigliere -
Dott. BRICCHETTI Renato - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
P.E., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza in data 12 gennaio 2007 della Corte d'Appello di Bologna;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Brusco;
Udito il Pubblico Ministero in persona del Dott. SALZANO Francesco, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi i difensori delle parti civili avv.ti IASONNI Massimo e MORACE Domenico che hanno concluso per il rigetto del ricorso;
Uditi, per l'imputato, gli avv.ti GIAMPAOLO Giuseppe e MAGNISI Guido i quali hanno concluso per l'accoglimento del ricorso.
Fatto-Diritto
1) La sentenza di primo grado. Il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Bologna, con sentenza 25 novembre 2005, ha condannato P.E., all'esito del giudizio abbreviato, alla pena ritenuta di giustizia (con le conseguenti statuizioni civili a favore della parti civili) per il delitto di omicidio colposo in danno di C.A. commesso in (OMISSIS). Il processo trae origine da una tragica vicenda verificatasi, il giorno indicato, all'interno della comunità "(OMISSIS)", sita in (OMISSIS), nella quale era ricoverato un paziente psicotico, M.G., che il giorno indicato aveva aggredito con un coltello C. - educatore che prestava servizio presso la comunità - cagionandone la morte.
Al dott. P., medico psichiatra che svolgeva la sua attività terapeutica presso la comunità, era stato addebitato di aver omesso di valutare adeguatamente i sintomi di aggressività manifestati da M. (anche specifici nei confronti di C.), di aver ridotto - e poi sospeso - la somministrazione di una terapia farmacologica di tipo neurolettico in modo tale da renderla inidonea a contenere la pericolosità del paziente e di aver omesso di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio in presenza di sintomi che rendevano necessaria tale iniziativa.
In particolare il primo giudice ha ritenuto che la condotta del medico fosse caratterizzata da colpa per avere prima ridotto e poi sospeso la somministrazione del farmaco (Moditen) di tipo Mepot" che gli veniva somministrato senza un'adeguata anamnesi e senza una corretta valutazione della situazione di recrudescenza dei sintomi di aggressività che caratterizzavano il paziente; per non aver commisurato la quantità e qualità delle visite alla situazione e non aver accompagnato la riduzione della terapia con misure di supporto; per aver omesso di richiedere il t.s.o..
Ha ritenuto inoltre che queste condotte colpose si ponessero in rapporto di causalità con l'evento verificatosi; in particolare la modifica del trattamento farmacologico aveva comportato un aggravamento della patologia e una recrudescenza dell'aggressività del paziente.
2) La sentenza d'appello. La Corte d'Appello di Bologna, con sentenza 12 gennaio 2007, ha confermato la sentenza di primo grado. Dopo aver respinto la richiesta di acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio svolta in un giudizio civile e ritenuto inutilizzabile un parere pro veritate di cui la difesa aveva chiesto l'acquisizione la Corte ha ripercorso i fatti che hanno dato luogo al presente processo condividendo le valutazioni del primo giudice sulla natura colposa della condotta dell'imputato per avere, il dott. P., prima ridotto e poi sospeso la terapia farmacologica che assumeva.
In particolare i giudici di secondo grado hanno condiviso il parere dei periti nominati dal primo giudice i quali avevano rilevato che le linee guida internazionali prevedono la riduzione della terapia solo dopo cinque anni di mancanza di episodi psicotici.
Questi episodi si erano invece verificati in tempi recenti tanto che il precedente primario, dott. V., aveva raccomandato che non venisse ridotta la terapia somministrata a M..
Inoltre la riduzione era avvenuta in modo non conforme alle prescrizioni delle linee guida conducendo così il paziente ad uno scompenso conclamato come risultava da vari episodi: il paziente, in più occasioni, aveva lamentato la sparizione del suo danaro in banca, aveva manifestato il timore di essere avvelenato, aveva affermato che il suo medico era morto, circostanza non vera); a questo scompenso è stato ritenuto causalmente ricollegata la crisi che aveva condotto all'aggressione dell'educatore da parte del paziente.
In conclusione la Corte ha ritenuto che qualora, a scompenso conclamato, il dott. P. avesse adottato adeguate misure terapeutiche di pronta efficacia non vi sarebbe stata l'aggressione nei confronti della persona offesa.
Inoltre la Corte ha ritenuto che, oltre a queste condotte di natura commissiva, ve ne fosse una di tipo omissivo, in rapporto di causalità con l'evento, costituita dall'omessa richiesta del t.s.o. in una situazione che rendeva necessaria la richiesta medesima sia per l'esistenza di una situazione di scompenso che per il rifiuto del paziente di assumere la terapia iniettiva.
La Corte di merito ha concluso ribadendo gli elementi di colpa già ricordati ed inoltre precisando, ad ulteriore conferma dell'inadeguatezza della terapia, che il dott. P., quando si era reso conto della modifica peggiorativa della situazione patologica, aveva introdotto nella terapia un farmaco antipsicotico di pronto effetto ma in dose inadeguata rispetto alla gravità della situazione.
3) I motivi di ricorso. Contro la sentenza della Corte bolognese (nonchè contro l'ordinanza 12 gennaio 2007 che ha rigettato le richieste di cui ai primi due motivi di ricorso di cui infra) ha proposto ricorso P.E. il quale ha dedotto i seguenti motivi d'impugnazione.
a) Con il primo motivo si deduce la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) ed e), con riferimento alla mancata acquisizione di una consulenza tecnica d'ufficio disposta nell'ambito del giudizio civile avente il medesimo oggetto e come parti gli eredi di C., la coop. (OMISSIS) e l'AUSL di (OMISSIS). La richiesta è stata respinta dalla Corte di merito che non ha però considerato che si trattava in realtà di un rito "riaperto" d'ufficio perchè il giudice, dopo aver disposto l'integrazione probatoria prevista dall'art. 438 c.p.p., comma 5, aveva poi d'ufficio disposto una perizia.
Da ciò conseguiva, secondo il ricorrente, che doveva ritenersi riaperta anche per le parti la possibilità di acquisire elementi di prova necessari per il giudizio e ciò aveva formato oggetto di un motivo d'appello. I giudici di secondo grado, respingendo la richiesta ritenendola preclusa perchè si era proceduto con il rito abbreviato, non hanno considerato che il rito abbreviato ha perso le caratteristiche originarie di processo allo stato degli atti e ciò ha reso applicabile a tale rito l'intera disciplina prevista dall'art. 603 c.p.p. ed in particolare le disposizioni previste dal comma 2 nel caso di prove nuove sopravvenute dopo il giudizio di primo grado.
La Corte di merito non avrebbe inoltre tenuto conto della circostanza che il giudizio abbreviato era stato dall'imputato subordinato all'integrazione probatoria; il che, secondo la giurisprudenza di legittimità, consente la rinnovazione dell'istruzione in appello e comunque non può escludere il diritto alla controprova a favore dell'imputato anche nel giudizio di appello verificandosi, in caso contrario, una grave lesione del diritto di difesa.
In ogni caso, secondo il ricorrente, è sempre consentito alla parte di sollecitare al giudice d'appello l'esercizio dei poteri officiosi ai sensi dell'art. 603 c.p.p. e la mancanza di motivazione sul diniego di esercitare questi poteri è censurabile in Cassazione. Per di più, secondo il ricorrente, la natura documentale del documento di cui si era chiesta l'acquisizione non richiedeva neppure la riapertura dell'istruzione dibattimentale per il combinato disposto dell'art. 441 c.p.p., comma 1 e art. 421 c.p.p., comma 3.
b) Con il secondo motivo di ricorso si deduce il vizio di motivazione e la violazione dell'art. 121 c.p.p., per il diniego di acquisire al fascicolo un parere pro veritate espresso da un esperto in materia psichiatrica che la Corte ha ritenuto non potersi acquisire considerandola una consulenza tecnica di parte proveniente da persona che non rivestiva la qualità di consulente tecnico.
Al di là della correttezza delle ragioni indicate dalla Corte nel ricorso si sottolinea che i difensori - che avevano firmato il parere - avevano chiesto espressamente che l'elaborato venisse considerato come memoria difensiva e a questa richiesta la Corte non ha fornito alcuna risposta.
c) Con il terzo motivo di ricorso si censura invece la sentenza impugnata per aver affermato che esisteva un obbligo giuridico, per il dott. P., di richiedere il trattamento sanitario obbligatorio nei confronti del paziente M.G..
Il ricorrente precisa al contrario che il t.s.o. può essere richiesto solo in presenza di tre presupposti: alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; mancata accettazione di tali interventi da parte dell'infermo; impossibilità di adottare idonee misure sanitarie extraospedaliere. La proposta deve essere convalidata da un medico psichiatra e ulteriormente convalidata dal sindaco. Infine il giudice tutelare nelle 48 ore successive deve verificare la correttezza del provvedimento e decidere se confermarlo o farlo decadere.
Dall'esame di questa complessa procedura consegue, secondo il ricorrente, che la procedura è finalizzata alla tutela del paziente e quindi sarebbe contrario a queste finalità far prevalere le esigenze di tutela della collettività rispetto al principio della libertà di cura.
Nel caso di specie il dott. P. si è attenuto a questi principi perchè, nella visita del (OMISSIS) (l'omicidio è avvenuto il (OMISSIS)), avendo constatato il peggioramento delle condizioni del paziente, aveva ripristinato il trattamento farmacologico in precedenza ridotto e poi sospeso e, a fronte del rifiuto della cura da parte del paziente, aveva raggiunto un accordo con il medesimo perchè l'iniezione venisse effettuata dal medico di base. Cosa che era effettivamente avvenuta.
In definitiva: con l'assunzione volontaria della cura era venuto meno il presupposto del rifiuto della cura. In ogni caso l'eventuale obbligo di richiedere il t.s.o. sarebbe spettato al medico che aveva visitato per ultimo il paziente, cioè la dott. D., medico di base che aveva somministrato la terapia il 19 maggio.
D'altro canto la comunità (OMISSIS) era attrezzata per la sorveglianza e l'osservazione dei pazienti avendo a sua disposizione educatori ed assistenti oltre ad uno psichiatra di turno (diverso dal dott. P. che era lo psichiatra curante di M.). Difettava quindi, per l'adozione del t.s.o., l'impossibilità di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extra ospedaliere.
d) Con il quarto motivo di ricorso la sentenza della Corte bolognese viene censurata sotto diversi profili riguardanti la causalità e la colpa.
Sotto il primo profilo, ed in particolare relativamente all'esistenza di una posizione di garanzia, il ricorrente evidenzia l'erroneità dell'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, che ha ritenuto irrilevante il titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato. M. risultava infatti affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un medico psichiatra con l'incarico di consulente diverso dal dott. P..
Nell'ambito di questa organizzazione - la cui struttura e i cui compiti vengono descritti nel ricorso - un gruppo di lavoro di cui faceva parte il dott. P. aveva il compito di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.
Un altro errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata è costituito dall'affermazione che il ricorrente aveva l'obbligo di informarsi degli episodi allarmanti che avevano caratterizzato la condotta del paziente; con questa affermazione i giudici di merito non hanno tenuto conto della circostanza già evidenziata che M. era affidato ad una struttura autonoma e autosufficiente e l'intervento del consulente esterno, dott. P., rientrava nell'autonoma discrezionalità dei componenti la struttura. In base al principio di affidamento l'imputato aveva ragione di ritenere che la condotta della struttura nella trattazione del caso era corretta.
Nel medesimo motivo il ricorrente affronta il tema della colpa anche sotto il profilo della prevedibilità dell'evento. In particolare si sottolinea nel ricorso che il paziente era in remissione da oltre 15 anni; che il dott. P. non aveva affatto eliminato la terapia antipsicotica ma l'aveva soltanto ridotta in una prospettiva di ridurre la sedazione cui M. era sottoposto da tempo. In realtà la sentenza impugnata avrebbe tratto il giudizio di prevedibilità dell'evento in concreto verificatosi dalla sola esistenza della malattia psicotica.
e) Con il quinto ed ultimo motivo si denunziano invece il vizio di motivazione e la violazione di legge con riferimento all'affermata esistenza del rapporto di causalità tra la condotta dell'imputato e il verificarsi dell'evento.
Secondo il ricorrente la Corte di merito, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento.
Non avrebbe poi considerato, la sentenza impugnata, che la riduzione della terapia era avvenuta somministrando per un certo periodo la metà del farmaco e che, nel periodo di sospensione, erano ancora presenti gli effetti del farmaco, di tipo "depot" che ha tempi lunghissimi di eliminazione; questo processo non si era certamente esaurito quando era stata ripristinata la posologia originaria.
La Corte non avrebbe poi preso in considerazione che al paziente veniva somministrato anche altro farmaco antipsicotico idoneo a prolungare ulteriormente i tempi dell'eventuale scompenso da sottodosaggio.
Se si tiene conto di queste circostanze e del fatto che anche la condotta ritenuta esigibile non esclude il verificarsi di scompensi psicotici è da escludere, secondo il ricorrente, che il rapporto di causalità tra condotta ed evento possa essere ritenuto esistente al di là di ogni ragionevole dubbio tanto più che, come riconosce la sentenza impugnata, anche il trattamento antipsicotico ritenuto corretto non esclude il rischio di ricadute ma lo riduce di due terzi.
Infine, quanto all'efficienza causale della mancata adozione del t.s.o., il ricorrente sottolinea che questa iniziativa sarebbe stata illegittima e avrebbe potuto essere giustificata solo con la consumazione di un falso costituito dall'attestazione di un fatto non veritiero e cioè l'esistenza di un rifiuto del paziente di assumere la terapia.
4) Le memorie delle parti e il motivo nuovo. Con memoria datata 16 ottobre 2007 e successivamente depositata il difensore del ricorrente ha prodotto copia dei seguenti atti (contenuti nel fascicolo processuale) dei quali il giudice di appello non avrebbe tenuto conto nella sua decisione:
- il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P.;
- il verbale di sommarie informazioni di D.D. e stralcio delle dichiarazioni rese dal dott. P. sul punto del t.s.o..
Il difensore della parte civile ha replicato con memoria depositata presso questa Corte con la quale si ribadisce la correttezza della soluzione adottata dal giudice d'appello ed in particolare, con riferimento ai vari motivi di ricorso proposti dal ricorrente, si afferma:
- che l'eccezione sul diniego di acquisizione della consulenza tecnica disposta nel giudizio civile si fonderebbe sulla possibilità di ipotizzare un terzo genere di rito abbreviato diverso sia da quello ordinario che da quello condizionato mentre, sull'esercizio dei poteri officiosi, il giudice di appello avrebbe motivato logicamente e adeguatamente;
- che analogamente corretta deve ritenersi la decisione di non ammettere la produzione del parere tecnico trattandosi di consulenza tecnica svolta da chi non era stato nominato consulente tecnico.
Con ulteriore memoria, datata 30 ottobre 2007, i difensori dell'imputato hanno richiamato ulteriormente - a fondamento della tesi che la L. n. 180 del 1978 esclude una visione custodialistica a tutela della sicurezza delle persone essendo finalizzata esclusivamente alla tutela del malato - una sentenza del 1990 della seconda sezione di questa Corte e un testo di dottrina sul reato omissivo improprio che, secondo la tesi esposta nella memoria, potrebbe avere per oggetto esclusivamente l'oggetto immediato dell'obbligo e non anche gli obblighi riflessi o accessori.
Con la medesima memoria si propone poi un motivo nuovo di ricorso per l'omessa valutazione, da parte della Corte di merito, delle risultanze del registro della comunità che dimostrerebbe che le manifestazioni di aggressività all'interno della comunità erano gravi e frequenti (e quelle di M. non erano le più significative) e che al personale non medico della struttura era attribuito l'intero compito socioriabilitativo mentre il dott. P. aveva solo compiti di consulenza.
La mancata completa informazione sulle manifestazioni dei pazienti, ed in particolare del M., non consentivano dunque di ritenere prevedibile l'evento e di addebitarlo causalmente al ricorrente.
5) Le questioni processuali. L'acquisizione della consulenza tecnica svolta nel giudizio civile e del parere pro veritate. Come si è già accennato il ricorrente, con il primo motivo di ricorso, si duole della mancata acquisizione di una consulenza tecnica svolta in un giudizio civile instaurato tra le odierne parti civili, la comunità (OMISSIS) e l'Ausl territoriale competente.
La Corte d'Appello di Bologna ha respinto la richiesta - con ordinanza ritualmente impugnata unitamente alla sentenza - sia perchè l'acquisizione dell'atto sarebbe incompatibile con il rito abbreviato sia perchè si tratterebbe di atto non necessario per la decisione; occorre quindi valutare la correttezza di questa decisione.
Va premesso in generale, sulla disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello di cui all'art. 603 c.p.p., che, se le nuove prove sono sopravvenute o sono state scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice provvede secondo le regole ordinarie (comma 2) ; nel caso di prove nuove o di richiesta di riassunzione di prove già acquisite dispone la rinnovazione solo se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti (comma 1).
Al di fuori di questi due casi il giudice può disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale - anche nel caso in cui le parti siano rimaste inerti o siano decadute - solo se la ritiene assolutamente necessaria (comma 3: norma corrispondente a quella contenuta nell'art. 507 c.p.p., comma 1, per il giudizio di primo grado).
La giurisprudenza di legittimità è uniforme nel ritenere che questa iniziativa diretta al completamento del quadro probatorio -in particolare per quanto attiene all'assoluta necessità (da ritenere evenienza eccezionale: v. Cass., sez. 2, 1 dicembre 2005 n. 3458, Di Gloria, rv. 233391) - sia fondata su una valutazione attribuita in via esclusiva al giudice di merito e da ritenere insindacabile nel giudizio di legittimità ove sia logicamente e adeguatamente motivata la valutazione sulla possibilità di decidere allo stato degli atti (in questo senso v. Cass., sez. 4, 19 febbraio 2004 n. 18660, Montanari, rv. 228353; sez. 2, 4 novembre 2003 n. 45739, Marzullo, rv. 226977; sez. 6, 2 dicembre 2002 n. 68, Raviolo, rv. 222977).
E' anche orientamento uniforme di legittimità che, solo nel caso di prove sopravvenute o scoperte dopo la sentenza di primo grado, la mancata assunzione possa costituire violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d). mentre, negli altri casi previsti dall'art. 603 c.p.p., il vizio deducibile è quello attinente alla motivazione previsto dalla lett. e) del medesimo articolo (v. Cass., sez. 2, 11 novembre 2005 n. 44313, Picone, rv. 232772; sez. 5, 21 dicembre 2000 n. 6924, Delfino, rv. 218279). Questa disciplina va vista, per quanto riguarda il giudizio di appello nel rito abbreviato, in relazione alle peculiarità del rito speciale.
E' noto che sull'ammissibilità e sui limiti dell'integrazione probatoria nel giudizio abbreviato in grado di appello si erano formati orientamenti diversi nella giurisprudenza di legittimità:
per l'ammissibilità dell'integrazione si erano espresse Cass., sez. 5, 20 ottobre 1996 n. 2628, Camerano; sez. 6, 24 novembre 1993 n. 1944, De Carolis; in senso opposto sez. 1, 2 novembre 1995 n. 3661, Abategiovanni; 24 febbraio 1994 n. 5168, Pepe; sez. 6, 28 ottobre 1992 n. 2987, Nappo; sez. 1, 24 marzo 1992 n. 5440, Vallerà.
Il contrasto è stato risolto dalla sentenza delle sezioni unite 13 dicembre 1995 n. 930, Clarke, che, pur escludendo ogni potere di iniziativa delle parti, avendo esse rinunziato al diritto alla prova, ha affermato che il giudice può disporre d'ufficio i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti che formano oggetto della sua decisione.
Il principio affermato dalle sezioni unite è da ritenere attuale anche dopo la riforma del giudizio abbreviato intervenuta nel 1999.
E' vero che, con questa riforma, è stato superato il precedente principio dell'immutabilità del materiale probatorio ed è stata quindi consentita la richiesta condizionata del rito speciale subordinata all'ammissione delle prove richieste. Ma è rimasto fermo il principio che la richiesta del rito speciale, pur condizionata, comporta rinunzia all'assunzione di prove diverse da quelle alle quali è stata subordinata la richiesta. Con la conseguenza che la scelta del giudizio abbreviato comporta l'accettazione di ogni elemento di valutazione (salvo, ovviamente, quelli affetti da inutilizzabilità patologica) per cui deve ritenersi insindacabile, secondo i criteri indicati dalla citata sentenza delle sezioni unite, la valutazione del giudice d'appello che abbia motivatamente ritenuto che il mezzo di prova richiesto non fosse assolutamente necessario ai fini della decisione.
Non ignora la Corte che, secondo un orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass., sez. 4, 20 dicembre 2005, Coniglio, rv. 233956; sez. 3, 2 marzo 2004 n. 15296, Simek, rv. 228535; contra Cass., sez. 6, 26 giugno 2003 n. 37389, Crollo, rv. 226806; sez. 3, 13 febbraio 2003 n. 12853, Paccone, rv. 224865) la richiesta di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio abbreviato d'appello è consentita soltanto all'imputato che abbia proposto la richiesta del rito speciale subordinandola all'integrazione probatoria - mentre chi abbia richiesto l'abbreviato allo stato degli atti può limitari a sollecitare il giudice all'esercizio dei poteri officiosi - ma, indipendentemente dalla soluzione sulla correttezza di questo orientamento deve osservarsi che, nel caso in esame, la richiesta del rito abbreviato era stata incondizionata nè può ritenersi, come ritiene il ricorrente, che l'integrazione probatoria disposta d'ufficio dal giudice, valga a mutare la natura del giudizio in quella di abbreviato condizionato. Di fatto l'imputato aveva infatti rinunziato all'integrazione probatoria e il provvedimento del giudice non consente di ritenere mutata la natura del giudizio per quanto riguarda le condizioni cui il medesimo è subordinato.
Il ricorrente fonda però la sua censura anche sulla circostanza che la prova di cui era stata chiesta l'ammissione era una prova nuova sopravvenuta al giudizio di primo grado (la sentenza di primo grado nel presente processo è stata pronunziata il 25 novembre 2006 mentre la consulenza tecnica nel giudizio civile è stata depositata, secondo quanto riferisce il ricorrente, il 1 marzo 2006).
Orbene ritiene la Corte che, nel caso di prova sopravvenuta dopo la sentenza di primo grado pronunziata nel giudizio abbreviato, la regola da applicare sia pur sempre quella di carattere generale per l'ammissione delle prove nel giudizio abbreviato prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5; cioè un potere di ammissione della prova da esercitarsi d'ufficio dal giudice quando ritenga di non poter decidere allo stato degli atti e in relazione al quale la parte ha soltanto un potere sollecitatorio (cfr. le già citate sentenze Carollo e Paccone).
Nel nostro caso il giudice di appello, con l'ordinanza impugnata - richiamando l'ampia discussione avvenuta in primo grado e l'espletamento della perizia - ha, con motivazione incensurabile in questa sede perchè logicamente motivata, escluso di non poter decidere il processo allo stato degli atti (cfr., per una soluzione analoga nel caso di giudizio abbreviato e di prova sopravvenuta, Cass., sez. 6, 18 dicembre 2006 n. 5782, Gagliano, rv. 236064; per l'estensione al giudizio abbreviato in appello della regola prevista dall'art. 441 c.p.p., comma 5, v. inoltre Cass., sez. 5, 9 maggio 2006 n. 19388, Biondo, rv. 234157).
Ma a non diversa conclusione dovrebbe pervenirsi ove volessero ritenersi integralmente applicabili al giudizio abbreviato in appello le regole relative alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale indicate nell'art. 603 c.p.p., già ricordato e, in particolare, la regola indicata nel comma 2. Il richiamo all'art. 495 c.p.p., comma 1 - e dunque all'art. 190 c.p.p., comma 1, cui fa riferimento l'art. 495 c.p.p., comma 1 - non fa venir meno la correttezza della decisione perchè fondata su un giudizio corrispondente a quello di manifesta superfluità della prova di cui era stata chiesta l'ammissione.
Ad analoga soluzione deve pervenirsi in relazione al diniego di acquisizione del parere pro veritate. Al di là della valutazione sul carattere di inammissibilità della nuova prova dedotta appare nella sostanza corretta la decisione dei giudici d'appello. La possibilità per la parte di nominare consulenti tecnici anche fuori dei casi di perizia (art. 233 c.p.p.) va infatti incontro alle medesime preclusioni previste per le altre prove quando l'imputato abbia chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato, condizionato o meno.
In questo caso non si tratta poi di prova sopravvenuta e dunque - nell'ipotesi maggiormente favorevole al ricorrente - i criteri di valutazione non possono che essere quelli previsti dall'art. 441 c.p.p., comma 5, in relazione ai quali la Corte di merito ha espresso un giudizio di completezza del materiale probatorio nell'esame della censura precedentemente esaminata.
Va infine rilevato che la natura di consulenza tecnica del parere - che ne determina la preclusione all'acquisizione - non può essere modificata con la semplice sottoscrizione dei difensori evidentemente volta ad eludere il divieto di ulteriore integrazione del materiale probatorio.
6) Il concorso colposo nel delitto doloso. Malgrado il tema non sia stato sollevato con i motivi di ricorso la sua rilevabilità d'ufficio (in quanto la risposta negativa sull'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso renderebbe immediatamente applicabile l'art. 129 c.p.p., comma 1) rende necessario l'esame di questo aspetto della responsabilità sul quale esistono opinioni divergenti in dottrina e in giurisprudenza.
In particolare non ignora la Corte che autorevoli orientamenti dottrinali si sono espressi negativamente sulla possibilità che, nel nostro ordinamento, possa configurarsi una simile forma di compartecipazione. I pilastri di questa posizione negativa sono sostanzialmente due: l'art. 42 c.p., comma 2 - che prevede la punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente preveduti dalla legge (e la legge non prevederebbe il concorso colposo nel delitto doloso) - e l'art. 113 c.p., che prevede la compartecipazione colposa solo nel caso di delitto colposo.
L'esame della giurisprudenza di legittimità consente di rilevare che la decisione più recente che abbia affrontato il problema è orientata in senso favorevole a ritenere ammissibile il "concorso" colposo nel reato doloso. Ci si riferisce a Cass., sez. 4, 9 ottobre 2002 n. 39680, Capecchi, rv. 223214, che si rifà a più risalenti precedenti (Cass., sez. 4, 20 maggio 1987 n. 8891, De Angelis, rv. 176499 e 4 novembre 1987 n. 875, Montori, rv. 177472) che hanno ritenuto ammissibile il concorso colposo in casi di incendio doloso sviluppatosi per la negligente sistemazione del materiale infiammabile (lo stesso caso della sentenza Capecchi).
Di contrario avviso erano stati altri precedenti, uno della medesima sezione 4 (sentenza 11 ottobre 1996 n. 9542, De Santis, rv. 206798), uno della terza sezione (20 marzo 1991 n. 5017, Festa, rv. 187331) e uno delle sezioni unite 3 febbraio 1990 n. 2720, Cancilleri, rv. 183495); questi ultimi due precedenti riguardano il caso del concorso colposo del notaio nel reato di lottizzazione abusiva.
In realtà solo il primo precedente indicato può ritenersi contrario all'ammissibilità della forma di partecipazione di cui stiamo parlando perchè il caso del concorso del notaio è caratterizzato dalla circostanza che il reato di lottizzazione abusiva è ritenuto di natura dolosa; e come sarebbe possibile configurare una partecipazione colposa in un reato previsto solo nella forma dolosa ? D'altro canto l'orientamento espresso dalle sezioni unite si limita ad una mera enunciazione non motivata su questo problema.
Ritiene la Corte, pur trattandosi di tema particolarmente complesso e accidentato al quale sarebbe illusorio pretendere di dare risposte definitive ed esenti da critiche che, pur con i limiti di seguito indicati, possa darsi al quesito una risposta positiva.
Va premesso, pur non essendo questa la sede per addentrarsi in ricostruzioni teoriche, che la premessa da cui questa Corte ritiene di dover partire è costituita dal riconosciuto superamento delle teorie che si rifanno al concetto di unitarietà del fatto reato di natura concorsuale (ritenuto un "dogma" da parte di un illustre Autore pur contrario alla tesi dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso). Le difficoltà di inquadramento teorico di queste forme di partecipazione soggettiva eterogenea (i problemi si pongono anche per la partecipazione dolosa nel delitto colposo) si attenuano riconoscendo la pluralità dei fatti reato nei casi in cui l'evento sia unico.
Esaminando le obiezioni alla tesi che ritiene ammissibile il concorso in precedenza indicate ritiene invece la Corte che queste obiezioni (certamente serie) siano superabili. E' infatti proprio l'esame congiunto delle due norme indicate (art. 42 c.p., comma 2 e art. 113 c.p.) che consente questa risposta; la compartecipazione è stata espressamente prevista nel solo caso del delitto colposo perchè, nel caso di reato doloso, non ci si trova in presenza di un atteggiamento soggettivo strutturalmente diverso ma di una costruzione che comprende un elemento ulteriore - potrebbe dirsi "in aggiunta" - rispetto a quelli previsti per il fatto colposo, cioè l'aver previsto e voluto l'evento (sia pure con la sola accettazione del suo verificarsi, nel caso di dolo eventuale). Insomma il dolo è qualche cosa di più, non di diverso, rispetto alla colpa e questa concezione è stata riassunta nella formula espressa da un illustre studioso della colpa che l'ha così sintetizzata: "non c'è dolo senza colpa".
Se questa ricostruzione è plausibile la conseguenza è che non fosse necessario prevedere espressamente l'applicabilità del concorso colposo nel delitto doloso perchè se è prevista la compartecipazione nell'ipotesi più restrittiva non può essere esclusa nell'ipotesi più ampia che la prima ricomprende e non è caratterizzata da elementi tipici incompatibili. Questa rilettura incrina anche il valore dell'obiezione che si fonda sulla previsione dell'art. 42 c.p., comma 2: non si tratterebbe di una previsione implicita di un reato colposo ma di una ricostruzione che ha disciplinato espressamente un aspetto del problema sul presupposto che la disciplina riguardasse anche il tema più generale.
E' poi da rilevare che la già ricordata sentenza Capecchi ha ritenuto superabile l'ostacolo della previsione dell'art. 40 c.p., comma 2, con un'ulteriore argomentazione che appare condivisibile: questa disciplina, anche per la formulazione letterale usata dal legislatore, non può che riguardare esclusivamente la previsione delle singole norme incriminatici, che deve appunto essere espressa, ma non la disciplina delle regole concorsuali che si deve trarre dagli artt. 110 e 113 c.p..
Fermo restando, come si è già accennato, che la partecipazione colposa può riguardare esclusivamente un reato previsto anche nella forma colposa: diversamente sarebbe palesemente violato il disposto dell'art. 42 c.p., comma 2.
A questo punto si pone un ulteriore problema: che cosa avviene se ci si trova in presenza di concorso di cause colpose indipendenti ? Per natura e per definizione in questo caso non ci troviamo in presenza di un "concorso" di persone nel reato: tutte contribuiscono causalmente al verificarsi dell'evento ma gli atteggiamenti soggettivi non s'incontrano mai neppure sotto il profilo della consapevolezza dell'altrui partecipazione come invece avviene nella cooperazione colposa. In questi casi la concezione che si fonda sull'unitarietà del reato non è solo un dogma ma è proprio da ritenersi errata perchè alcun legame esiste, sotto il profilo soggettivo, tra le varie condotte anche se l'evento è unico.
Quando ci si trovi in presenza di cause colpose indipendenti l'applicabilità delle regole sul concorso di cause è espressamente prevista, sotto il profilo causale, dall'art. 41 c.p., il cui comma 3, prevede espressamente che questa disciplina si applichi anche quando la causa preesistente, simultanea o sopravvenuta consista nel fatto illecito altrui.
Ma proprio perchè le condotte sono indipendenti le medesime andranno autonomamente valutate e per ciascuna di esse andrà accertato se abbia fornito un contributo causale al verificarsi dell'evento e se la condotta causalmente efficiente sia caratterizzata dai requisiti tipici della colpa.
In questi casi, proprio per l'indipendenza delle azioni, ogni condotta va separatamente individuata e, ciò che assume particolare rilievo per la soluzione del nostro problema, diviene irrilevante che uno o più dei contributi causali possa avere carattere doloso perchè la disciplina sulla causalità contenuta nel citato art. 41 c.p., riguarda sia i reati colposi che quelli dolosi.
E allora se per il riconoscimento della partecipazione colposa indipendente al reato doloso non esistono ostacoli insuperabili è agevole concludere che sarebbe irragionevole, nel caso di cooperazione, escludere la partecipazione colposa al delitto doloso solo perchè l'agente è consapevole dell'altrui condotta dolosa.
Il dippiù costituito da questa consapevolezza aggrava infatti, e non attenua, il disvalore sociale della condotta: quale spiegazione razionale potrebbe trovare una soluzione affermativa sulla compartecipazione al reato doloso quando manca la consapevolezza di questa condotta e non quando questa consapevolezza esista ? Deve dunque concludersi, sul tema esaminato, che è ammissibile il "concorso" colposo nel delitto doloso sia nel caso di cause colpose indipendenti che nel caso di cooperazione colposa e purchè, in entrambi i casi, il reato del partecipe sia previsto anche nella forma colposa e la sua condotta sia caratterizzata da colpa.
Riconosciuta l'astratta ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso non è necessario addentrarsi nell'ulteriore aspetto che presenta il caso in esame caratterizzato dalla circostanza che il fatto "doloso" del terzo è stato compiuto da persona non imputabile.
Il riconoscimento della natura non dolosa della condotta della persona non imputabile sarebbe infatti idoneo a rafforzare la possibilità di riconoscere la compartecipazione dell'estraneo.
Va però precisato che il riconoscimento dell'astratta possibilità di concorso colposo nel reato doloso non significa che in ogni caso questa compartecipazione vada riconosciuta perchè, una volta accertata l'influenza causale della condotta colposa dell'agente, andrà verificata l'esistenza dei presupposti per il riconoscimento di una colpa causalmente efficiente nel verificarsi dell'evento.
Per la soluzione di questo complesso problema può intanto osservarsi che, nel caso in cui l'evento dannoso si verifichi all'esito di una sequenza di avvenimenti in cui si sia inserito il fatto doloso del terzo è necessario verificare anzitutto, sotto il ricordato profilo dell'elemento soggettivo, se la regola cautelare inosservata era diretta ad evitare la condotta delittuosa del terzo: si pensi a chi, preposto alla tutela di una persona, se ne disinteressi consentendo all'assalitore di ledere l'integrità fisica della persona protetta.
E' la posizione di garante rivestita dall'agente che fonda l'obbligo di osservanza di determinate regole cautelari la cui violazione integra la colpa.
Indipendentemente dall'esistenza di una posizione di garanzia analoghi obblighi di tutela possono discendere dall'esistenza di un potere di controllo di fonti di pericolo quali per es. armi, veleni, esplosivi; per es. il farmacista non può vendere un farmaco potenzialmente letale alla persona che sa aver già tentato di avvelenare un familiare; chi possiede un'arma non può lasciarla incustodita in un luogo frequentato da bambini. I casi già indicati relativi alla creazione dei presupposti perchè si sviluppi un incendio doloso si inquadra in questa categoria del controllo delle fonti di pericolo.
Un utile strumento di verifica può poi essere quello che si rifà allo scopo della regola cautelare violata dall'agente in colpa. Se la regola cautelare è diretta anche alla tutela di terzi dall'aggressione dolosa dei loro beni è la tutela finalizzata di essi che rende configurabile la partecipazione dell'agente in colpa.
I casi più complessi sono ovviamente quelli nei quali la regola è stata predisposta non tanto per altri fini ma in vista di decorsi causali diversi: si pensi al lavoratore che opera in altezza e che non sia stato munito delle cinture di sicurezza. Risponde il datore di lavoro anche delle conseguenze di una caduta (che non si sarebbe verificata con l'uso del mezzo di protezione) volontariamente cagionata da un terzo ? E' ragionevole ritenere, in questi casi, che ciò che rileva è l'individuazione dell'evento dannoso che la regola cautelare mira ad evitare : anche se questa regola è stata pensata in relazione a percorsi causali diversi il rischio che la norma concretamente vuole evitare è quello di caduta indipendentemente dalle cause che l'hanno provocata. E così in tutte quelle situazioni nelle quali l'evento volontariamente cagionato è della stessa natura di quello preso in considerazione nella formazione della regola cautelare.
Diverso è ancora il caso in cui la condotta dell'agente costituisca l'occasione perchè il terzo compia l'atto doloso. In questo caso si torna alle considerazioni iniziali: per ravvisare la responsabilità colposa del primo agente occorrerà che questi sia titolare di una posizione di garanzia o di un obbligo di tutela o di protezione e che sia prevedibile l'atto doloso del terzo.
Il nostro caso può dunque essere risolto solo dopo che si accerti l'esistenza di una posizione di garanzia del dott. P. in favore del paziente e l'ambito di questa posizione (se sia cioè prevista non tanto per la tutela dei terzi quanto per evitare l'aggressione da parte del paziente anche ai beni di terzi) oltre che della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso. Queste risposte potranno quindi essere date solo dopo l'esame dei motivi di ricorso.
L'intreccio che presenta questo processo tra i temi della causalità e quelli della colpa rende necessaria una trattazione dei medesimi per così dire "asimmetrica". Fermo restando che non è in discussione la causalità "materiale" dell'evento e che all'imputato sono state contestate condotte colpose omissive e commissive sembra opportuno procedere preliminarmente alla verifica dell'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P. al fine di verificare se su di lui incombesse l'obbligo giuridico di impedire l'evento. Successivamente, essendo in discussione la c.d. "causalità della condotta" e la ed, "causalità della colpa", si procederà alla verifica della correttezza logico giuridica della motivazione della sentenza impugnata sull'esistenza di una condotta causalmente efficiente dell'imputato sul verificarsi dell'evento e sull'esistenza della violazione, da parte sua, di regole cautelari che abbia avuto analoga efficacia su queste conseguenze della condotta inosservante.
7) L'esistenza della posizione di garanzia. Si è già accennato che, all'interno del quarto motivo dedicato ai temi della colpa il ricorrente contesta l'esistenza di una posizione di garanzia a lui riferibile. Secondo il motivo di ricorso, infatti, sarebbe erronea l'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, sull'irrilevanza del titolo su cui si fondava l'esistenza di una posizione di garanzia dell'imputato perchè il paziente risultava affidato ad una struttura dotata di operatori e medici psichiatri che lo avevano avuto in carico e, all'interno della comunità, operava anche un diverso medico psichiatra con l'incarico di consulente e il dott. P. aveva il solo compito, all'interno del gruppo di lavoro di cui faceva parte, di migliorare le procedure di lavoro e il rapporto con le strutture territoriali.
A conferma della sua tesi il ricorrente, con la memoria 16 ottobre 2007, ha prodotto il documento della presentazione della struttura del 22 gennaio 1999 e lo schema tipo di intervento nelle comunità del 30 aprile 1998 che escluderebbero l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P.. All'esame di queste censure vanno premesse alcune considerazioni.
Com'è noto l'obbligo di garanzia si fonda sul disposto del capoverso dell'art. 40 c.p., secondo cui non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo, laddove si fa riferimento all'obbligo giuridico di impedire l'evento.
Il fondamento di questa disposizione è da ricercare nei principi solidaristici che impongono (oggi anche in base alle norme contenute negli artt. 2 e 32 Cost. e art. 41 Cost., comma 2) una tutela rafforzata e privilegiata di determinati beni - non essendo i titolari di essi in grado di proteggerli adeguatamente - con l'attribuzione, a determinati soggetti, della qualità di "garanti" della salvaguardia dell'integrità di questi beni ritenuti di primaria importanza per la persona; a questa qualità, naturalmente, devono contestualmente accompagnarsi poteri impeditivi dell'evento.
Diversamente, sotto il profilo soggettivo, difetterebbe l'esigibilità della condotta (la madre risponde di non aver nutrito l'infante non di aver omesso di salvarlo dall'annegamento se non sapeva nuotare). Sull'origine e sull'ambito di applicazione della posizione di garanzia v'è contrasto tra le teorie che ritengono che gli obblighi del terzo possano derivare soltanto da una fonte formale (e infatti si parla di teoria "formale" della posizione di garanzia) e le teorie che fanno riferimento piuttosto a criteri sostanzialistici (ma esistono anche teorie c.d. "miste").
La prima teoria, che sembra accolta dal cpv. dell'art. 40 c.p., (che parla infatti di obbligo "giuridico"), individua, quali fonti dell'obbligo in questione, la legge e il contratto (e su queste fonti sostanzialmente non esistono divergenze; l'unica difformità di orientamento riguarda forse il caso del contratto cui non partecipi il titolare del ben protetto) nonchè la precedente condotta illecita o pericolosa, la negotiorum gestio e la consuetudine (e su queste fonti invece le opinioni sono divergenti anche perchè, più in generale, la soluzione del problema della fonte è strettamente connessa al rispetto del principio di determinatezza della fattispecie).
Naturalmente, anche se venga accolta la teoria sostanzialistica, il rispetto dei principi di tassatività e determinatezza richiede che la cerchia dei titolari dell'obbligo di garanzia sia determinata soggettivamente e che gli obblighi siano oggettivamente determinati con esclusione quindi di doveri esclusivamente morali. E naturalmente i titolari della posizione di garanzia devono essere forniti dei necessari poteri impeditivi degli eventi dannosi. Il che non significa che dei poteri impeditivi debba essere direttamente fornito il garante purchè gli siano riservati mezzi idonei a sollecitare (anche giudizialmente) che l'evento dannoso venga cagionato (per es. i poteri dei sindaci delle società su cui peraltro esiste dissenso in dottrina).
La giurisprudenza di legittimità ha più volte riaffermato che la posizione di garanzia può avere una fonte normativa non necessariamente di diritto pubblico ma anche di natura privatistica, anche non scritta e che addirittura possa trarre origine da una situazione di fatto, da un atto di volontaria determinazione, da una precedente condotta illegittima che costituisca il dovere di intervento e il corrispondente potere giuridico, o di fatto, che consente al soggetto garante, attivandosi, di impedire l'evento (cfr. Cass., sez. 4, 12 ottobre 2000 n. 12781, Avallone; 1 ottobre 1993 n. 11356, Cocco; 21 maggio 1998 n. 8217, Fornari; 5 novembre 1983 n. 9176, Bruno).
Passando ad esaminare più specificamente il tema della responsabilità medica va osservato che una posizione di garanzia del medico può sorgere esclusivamente con l'instaurazione della relazione terapeutica tra il paziente e il professionista. Questa relazione si può instaurare su base contrattuale - come avviene nel caso di paziente che si affidi al medico di fiducia - ma anche in base alla normativa pubblicistica di tutela della salute come avviene nel caso di ricovero ospedaliero o in strutture protette; casi nei quali per il medico, indipendentemente dal consenso del paziente, sorge un obbligo giuridico di impedire l'evento. E' invece stato escluso in dottrina che sorga una posizione di garanzia "in capo al medico che sia stato soltanto occasionalmente richiesto di un parere, nel quadro di una relazione di amicizia, convivialità, familiarità o convivenza, ma al di fuori di uno specifico conferimento di incarico professionale".
Naturalmente l'esistenza di una posizione di garanzia non si pone in contraddizione con una causazione attiva dell'evento da parte del garante; in particolare con il mancato esercizio dei poteri impeditivi che è obbligato ad esercitare (il medico che somministra erroneamente un medicinale al quale il paziente a lui affidato è allergico - causalità attiva - è tenuto ai necessari interventi per escludere o ridurre le conseguenze della somministrazione).
V'è ancora da osservare che la posizione di garanzia è riferibile, sotto il profilo funzionale, a due categorie in cui tradizionalmente si inquadrano gli obblighi in questione.
La prima categoria concerne la posizione di garanzia c.d. di protezione che impone di preservare il bene protetto da tutti i rischi che possano lederne l'integrità: tipici gli obblighi che gravano sui genitori, sui medici ecc. in relazione ai beni della vita e dell'incolumità personale ma anche di altri beni (per es., per i genitori, l'integrità sessuale dei minori).
Come è evidente l'ambito elettivo di questi obblighi è quello familiare ma l'obbligo di protezione può derivare anche dall'assunzione volontaria di un obbligo di protezione sia su base contrattuale (per es. la guida alpina che si impegna ad accompagnare uno scalatore inesperto) sia unilateralmente (il medico che prende in carico il paziente in stato di incoscienza).
La seconda categoria riguarda la posizione di garanzia c.d. di controllo che impone di neutralizzare le eventuali fonti di pericolo che possano minacciare il bene protetto: questa categoria riguarda tutti i casi di esercizio di attività pericolose - che trova il fondamento normativo nell'art. 2050 c.c., - il dovere di prevenzione incombente sul datore di lavoro per evitare il verificarsi di infortuni sul lavoro o di malattie professionali, le regole che disciplinano la circolazione stradale ecc..
Il più delle volte questi obblighi di controllo sono ricollegati all'esistenza di un "potere di organizzazione o di disposizione relativo a cose o situazioni potenzialmente pericolose", come nel caso indicato del datore di lavoro o come nel caso degli appartenenti ad amministrazioni pubbliche cui sono attribuiti compiti di prevenzione e soccorso in relazione ad eventi riguardanti la pubblica incolumità.
Da quanto in precedenza esposto non si comprende come si possa negare che al dott. P. fosse attribuita una posizione di garanzia in relazione alla tutela della salute psichica del paziente M..
Diversamente non si comprendono le ragioni per cui siano stati a lui attribuiti il trattamento del caso di M. sotto il profilo psichiatrico, l'adeguamento e la modifica della terapia farmacologia, i colloqui terapeutici con il paziente, la richiesta di intervento quando si manifestarono i sintomi di scompenso. Quale che fosse l'incarico formalmente attribuito al dott. P. all'interno della comunità (OMISSIS) egli ha di fatto svolto la funzione di tutelare la salute psichica del paziente ed ha accettato di svolgere questo incarico che dunque trova la sua origine in un vincolo contrattuale che la struttura (pubblica o privata che sia) gli ha conferito l'incarico e in un vincolo normativo conseguente all'instaurazione di una relazione terapeutica con il paziente.
Non può dunque negarsi che il dott. P. fosse gravato di una posizione di garanzia in favore del paziente M. sotto il profilo dell'instaurazione di un obbligo di protezione. Ciò che, del resto, è ammesso nel ricorso nel quale (a p. 23) si ammette che in base all'organizzazione descritta il medico psichiatra (il dott. P.) "era incaricato prevalentemente della gestione della terapia psicofarmacologica dei casi"; e ciò vale ad istituire la posizione di garanzia indipendentemente dalla circostanza, pure sottolineata nel ricorso, che gli aspetti sociali, relazionali, riabilitativi e comunicativi erano appannaggio degli operatori non medici e non sanitari".
8) La cura del paziente psichiatrico e il trattamento sanitario obbligatorio. Se dunque i giudici di merito hanno logicamente accertato l'esistenza di una posizione di garanzia in capo al dott. P., finalizzata alla protezione della salute psichica del paziente M., va ora verificato se sia corretta la motivazione la motivazione della sentenza impugnata in relazione ad una delle ipotesi di colpa contestate all'imputato: quella, di natura omissiva, concernente la mancata richiesta del trattamento sanitario obbligatorio. Su questo punto va preliminarmente osservato che la più parte delle considerazioni svolte nel ricorso è da ritenere largamente condivisibile.
In particolare sono condivisibili le osservazioni che si riferiscono al grande valore innovativo della L. 13 maggio 1978, n. 180 (accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori) nel trattamento delle "malattie mentali" (così la legge definisce le malattie di origine psichica).
A fronte di una disciplina previgente che prendeva in considerazione essenzialmente l'aspetto custodiale per la tutela dei terzi da atti aggressivi (ma anche per una sorta di "discredito" socialmente diffuso nei confronti del malato psichico da cui si sentivano colpite anche le famiglie dei pazienti) la L. n. 180 del 1978, ha finalmente conferito a questa categoria di pazienti la stessa dignità che hanno le persone affette da altre patologie e ha limitato il contenimento personale ai soli casi di necessità in una prospettiva di cura e di superamento, ove possibile, del disagio e della malattia.
Queste finalità non potevano dunque che essere perseguite abolendo lo strumento principale espressione della visione pressochè esclusivamente custodiale (il manicomio) per cercare di inserire il malato in un ambiente sociale e familiare più adeguato alla tutela della sua persona con un trattamento terapeutico che si è frequentemente dimostrato ben più efficace per il miglioramento delle condizioni di salute. Uno degli strumenti di questa lodevolissima opera di reinserimento sociale, che ha raggiunto in generale risultati molto apprezzabili, è proprio quello dell'inserimento in comunità terapeutiche come quella in cui si è verificato il tragico episodio nella quale - come risulta dalle sentenze di merito - anche M. sembrava avere raggiunto un accettabile equilibrio, disponeva di spazi di autonomia (usciva regolarmente, utilizzava disponibilità di spesa ecc.).
Naturalmente il legislatore del 1978 non è stato così ingenuo da ritenere che bastasse abolire i manicomi per eliminare la malattia mentale (visione che ancor oggi una lettura un pò caricaturale della L. n. 180 del 1978, tende ad accreditare) e ha previsto la possibilità che nei confronti del malato psichico potessero essere disposti accertamenti e trattamenti sanitari "obbligatori" ma nel rispetto "della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla costituzione, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura" (art. 1, comma 2).
Per venire al trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di cui si discute nel presente processo si rileva che il medesimo può essere disposto "nei confronti delle persone affette da malattie mentali (art. 2, comma 1) in presenza di questi presupposti: 1) che esistano "alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici"; 2) che "gli stessi non vengano accettati dall'infermo"; 3) che non sia possibile "adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere".
Vano sarebbe però trovare nella L. n. 180 del 1978, una norma che confermi la tesi del ricorrente secondo cui la tutela sanitaria obbligatoria prevista dal ricordato art. 2, sarebbe preordinata esclusivamente alla tutela del malato e non anche dei terzi. E' vero che lo scopo primario delle cure psichiatriche è quello di eliminare o contenere la sofferenza psichica del paziente; ma quando la situazione di questi sia idonea a degenerare - anche con atti di auto o etero aggressività - il trattamento obbligatorio presso strutture ospedaliere è diretto ad evitare tutte le conseguenze negative che la sofferenza psichica cagiona.
E' del resto illusorio separare le conseguenze personali (che sole giustificherebbero il trattamento secondo il ricorrente) da quelle verso terzi: la manifestazione di violenza ed aggressività non reca danno solo al terzo aggredito ma anche all'aggressore. Emblematico è il caso che stiamo trattando: a M. (vittima anche lui del suo disturbo psichico) nel processo conseguente all'uccisione dell'operatore è stata applicata, a seguito del proscioglimento per mancanza di imputabilità, la misura di sicurezza del ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario; e in questa struttura contenitiva M., qualche anno dopo, è deceduto. Anche nei confronti di se stesso il suo gesto omicida ha quindi avuto conseguenze personali gravissime.
Insomma il trattamento sanitario obbligatorio deve essere disposto anche nel caso in cui la malattia si manifesti con atteggiamenti di aggressività verso terzi non diversamente contenibili. Del resto non si comprende quali possano essere le alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici se non le manifestazioni di aggressività nei confronti di se stessi o di terzi. Se non esistono queste manifestazioni, ma altre espressioni della sofferenza psichica, è ben difficile ipotizzare situazioni nelle quali sia necessario un contenimento anche fisico in ambito ospedaliere.
Ciò premesso si osserva peraltro che il motivo di ricorso che stiamo esaminando è da ritenere fondato sotto un diverso profilo. Abbiamo visto che uno dei tre presupposti perchè possa essere disposto il trattamento sanitario obbligatorio è costituito dal rifiuto (mancata accettazione) delle cure da parte del paziente. Ebbene, nel caso in esame questo requisito - in base alla ricostruzione incensurabile dei fatti operata dai giudici di merito - non può ritenersi pienamente realizzato.
E' vero che tutto l'ultimo periodo della tragica vita di M. è stato costellato da continui atteggiamenti di rifiuto delle terapie e da ripensamenti e assunzioni delle medesime ma è pur vero che, quanto meno fino al 22 maggio 2000, il paziente risulta aver assunto la terapia sia pure accompagnando la sua condotta con minacce di morte all'operatrice, rifiutando che gli venisse somministrata da altri medici ma, alla fine, accettando la somministrazione da parte del suo medico personale.
Da tale ricostruzione operata dai giudici di merito non appare dunque realizzato il requisito della mancata accettazione delle terapie da parte del paziente che avrebbe giustificato la richiesta di t.s.o. e quindi questo elemento di colpa di natura omissiva non può essere addebitato all'imputato.
Nè questo ostacolo può essere superato, come ha fatto il giudice di primo grado, con il rilievo che esisteva il forte dubbio che M. assumesse la terapia orale essendo, questa circostanza, comunque rimasta a livello di congettura perchè indimostrata.
9) Gli elementi di colpa consistenti nella riduzione e sospensione della terapia. Sono invece infondate le censure che si riferiscono agli altri elementi di colpa ravvisati dai giudici di merito nella condotta del dott. P.; condotta da sola sufficiente a fondare l'affermazione di responsabilità perchè ad essa è causalmente ricollegabile l'evento verificatosi.
In sintesi l'elemento fondamentale di violazione delle leggi dell'arte medica psichiatrica è costituito dalla drastica riduzione (alla metà) e, successivamente, dalla eliminazione della terapia farmacologia in precedenza assunta da M.. Dalla sentenza impugnata emerge che il dott. P. prese in carico il paziente negli ultimi mesi del 1999 (la data precisa non è stata accertata) e il primo intervento documentato è del 1 ottobre 1999. Dopo alcuni mesi - il 16 marzo 2000 - il dott. P. riduceva della metà il farmaco neurolettico (Moditen) di tipo "depot" (ad assorbimento graduale del principio attivo, la flufenazina); avendo ritenuto che la riduzione non avesse avuto effetti negativi l'imputato decideva quindi, il 24 aprile 2000, di sospendere la somministrazione del farmaco.
E' da sottolineare che la sentenza impugnata descrive vari episodi di scompenso psicotico verificatisi dall'ottobre 1999 fino alla data di sospensione del trattamento farmacologico per cui esente da alcuna illogicità deve ritenersi la valutazione dei giudici di merito che hanno ritenuto incongrua la scelta terapeutica del dott. P. peraltro sconsigliata dai precedenti medici che avevano seguito il paziente proprio per l'elevato rischio di scompenso che la riduzione o sospensione avrebbe comportato.
Ancor più grave è stata ritenuta la scelta di sospendere il trattamento il 24 aprile anche perchè due degli episodi di scompenso ( M. aveva denunziato per due volte la sparizione dei suoi soldi in banca) erano avvenuti dopo la riduzione e prima della sospensione della somministrazione del farmaco (il 3 e l'11 aprile) e la Corte di merito riferisce che gli episodi erano stati portati a conoscenza dell'imputato.
Dopo la sospensione del trattamento le condizioni del paziente peggioravano e, dopo vari episodi significativi dello scompenso in atto, il dott. P. era costretto a ripristinare la terapia con la somministrazione del farmaco neurolettico nella posologia originaria (peraltro con efficacia immediata assai ridotta per le modalità di rilascio del principio attivo), introducendo anche un altro farmaco ad efficacia più immediata, da assumere per via orale, nella specie risultato privo di efficacia.
Il primo problema che si pone è quello di valutare l'adeguatezza della motivazione con cui i giudici di merito hanno ritenuto imperita e imprudente (oltre che negligente per l'inadempimento degli obblighi conoscitivi, come si dirà più avanti) la scelta dell'imputato di operare prima una riduzione così drastica e successivamente l'eliminazione della terapia farmacologia in un paziente affetto da una grave forma di "schizofrenia paranoide cronica in fase di parziale remissione" (è la diagnosi postuma formulata dai consulenti tecnici dell'imputato).
A questo fine va premesso che non è (ovviamente) in discussione la libertà delle scelte terapeutiche del medico che - in ciò appare corretto quanto si afferma nel ricorso - deve indirizzarle anzitutto al miglioramento del benessere del paziente e alla riduzione degli effetti collaterali della somministrazione dei farmaci (nel caso di specie particolarmente pesanti in termini di sedazione e di effetti parkinsoniani); ma questa condivisibile finalità deve essere perseguita con la gradualità e l'attenzione richieste in relazione alla gravità della situazione patologica del paziente. E tenendo conto che la richiesta del paziente può essere ricollegata, come nel caso di specie (così riferiscono le sentenze di merito), ad un mancato riconoscimento della malattia da parte sua.
E' quindi del tutto logico il percorso motivazionale dei giudici di merito che hanno ricostruito (soprattutto la sentenza di primo grado) gli episodi della patologia di M. la cui prima manifestazione di malattia risale addirittura al 1963 e la cui storia di sofferenza psichica comprende vari e lunghi ricoveri in ospedale psichiatrico giudiziario e in ospedali psichiatrici con numerosissimi episodi di delirio nonchè continue e gravi manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi, di intolleranza e di episodi a sfondo persecutorio.
Legittima poteva quindi essere ritenuta la scelta di una progressiva riduzione della terapia farmacologia ma altrettanto logica la valutazione dei giudici di merito i quali hanno motivatamente condiviso il giudizio dei periti di ufficio i quali hanno sostenuto che, in un paziente affetto da una patologia di così elevata gravità (che si caratterizza altresì, rispetto ad altre patologie di natura psichica, per la maggior frequenza di episodi di aggressività) , non cosciente della sua patologia e quindi con un atteggiamento di limitata accettazione (se non rifiuto) della terapia e con una forte carica aggressiva la scelta della riduzione e soprattutto quella della eliminazione dei farmaci neurolettici avrebbe potuto essere adottata in un paziente in remissione da almeno cinque anni.
Già di questa remissione era assai dubbia l'esistenza anche perchè, riferiscono i giudici di merito, inspiegabilmente dall'epoca del ricovero del paziente nella comunità (OMISSIS) (avvenuto nel (OMISSIS)) e fino al 1999 - non risulta alcuna annotazione nella cartella clinica di M.. E comunque i periti d'ufficio hanno al contrario affermato che la situazione clinica di M., al momento della modifica della terapia, non era quella di un soggetto in "remissione" sintomatologia ma, al contrario, era da tempo un paziente sull'orlo dello scompenso, e quindi ad alto rischio di scompenso, con persistenza di forti componenti di aggressività nonchè di sintomi "positivi"".
Ma, anche ammesso che si fosse realizzata una certa stabilizzazione e che la patologia fosse attualmente in fase di parziale remissione, la sentenza impugnata richiama, condividendola, la valutazione dei periti i quali hanno ritenuto che - anche in presenza di una remissione duratura delle manifestazioni più eclatanti della malattia - la modificazione della terapia avrebbe dovuto essere attuata con una ben diversa gradualità. Tanto più che un significativo miglioramento delle condizioni psichiche di M. era iniziato nel 1984 proprio quando era iniziata la terapia con la somministrazione del farmaco Moditen depot.
In particolare, secondo il parere dei periti condiviso da entrambi i giudici di merito e fondato su autorevoli studi svolti anche a livello internazionale (nella sentenza di primo grado vengono riportate le linee guida dell'American Psychiatric Association che si esprimono in questo senso), la riduzione del farmaco neurolettico non si deve effettuare per percentuali superiore al venti per cento ogni volta e gli intervalli tra queste progressive riduzioni dovrebbero durare tra i tre e i sei mesi.
Regole di cautela macroscopicamente violate dal dott. P. che ha ridotto già inizialmente la terapia della metà e l'ha poi sospesa integralmente dopo poco più di un mese senza quindi verificare gli effetti per un periodo di tempo adeguato (anche in considerazione delle caratteristiche del farmaco a lento rilascio che richiederebbe un periodo di osservazione particolarmente prolungato per verificare gli effetti quando il farmaco ha ridotto i suoi effetti) e senza intensificare le visite come richiesto dalle linee guida cui si è già accennato.
In conclusione, sull'esistenza della colpa costituita dalla grossolana violazione delle regole dell'arte medica psichiatrica, la motivazione della sentenza impugnata deve ritenersi adeguata ed esente da vizi logici e giuridici e si sottrae conseguentemente alle censure del ricorrente.
9) La prevedibilità dell'evento. Strettamente collegato all'accertamento dell'esistenza dell'elemento soggettivo del reato è l'argomento, proposto con il quarto motivo di ricorso, che riguarda la prevedibilità dell'evento poi concretamente verificatosi. Secondo il ricorrente la sentenza impugnata non avrebbe accertato la prevedibilità in concreto ma l'avrebbe ricollegata alla sola esistenza della malattia psichica senza neppure tener conto della circostanza che questa malattia era in remissione da oltre quindici anni.
Sul tema della prevedibilità dell'evento occorre fare qualche considerazione preliminare. La prevedibilità dell'evento, riguardando l'elemento soggettivo e la sua esistenza, va accertata con criteri ex ante (a differenza della causalità) e si fonda sul principio che non possa essere addebitato all'agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere.
Sotto quest'ultimo profilo la prevedibilità dell'evento è certamente riferibile all'elemento soggettivo, la colpa, perchè attiene al processo cognitivo dell'agente (ma non nel senso meramente psicologico) che è tenuto a prendere in considerazione le conseguenze della sua condotta.
Naturalmente, da questo angolo visuale, l'agente sarà ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione.
Il fondamento della prevedibilità sotto il profilo soggettivo risiede nella necessità di evitare forme di responsabilità oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall'agente, pur con l'adozione delle necessarie cautele, sembra evidente che il risultato non possa essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perchè l'agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell'evento.
Se dunque quella conseguenza dell'azione non è stata prevista perchè non era prevedibile non v'è responsabilità per colpa.
Ma qual'è il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilità (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) ? Senza richiamare i termini del dibattito teorico che tende ad escludere la natura esclusivamente psicologica della colpa per ricollegarla al mero elemento oggettivo della violazione delle regole cautelari (natura normativa della colpa) - è necessario evitare di adottare un criterio che faccia riferimento all'agente concreto per evitare di ricadere negli orientamenti che riferiscono la colpa all'elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilità da parte dell'homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto avviene per l'individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari.
Il giudizio di prevedibilità vale a specificare il contenuto dell'obbligo di diligenza altrimenti astratto. Si è affermato che "basandosi sugli esiti del giudizio di prevedibilità, il contenuto del dovere di diligenza otterrebbe una certa specificazione, con la conseguenza di poter fornire delle note di concretezza a quell'obbligo del neminem laedere altrimenti del tutto inafferrabile nella sua astrattezza". Solo se il pericolo del verificarsi di un evento dannoso è prevedibile o riconoscibile l'agente può essere obbligato a rispettare quelle specifiche regole cautelari idonee ad evitare il prodursi del fatto dannoso.
Alcuni Autori preferiscono parlare, piuttosto che di prevedibilità, di "rappresentabilità" precisando che "questo termine possiede una maggiore comprensività del primo, potendosi riferire non soltanto ad accadimenti futuri, ma anche a quelli concomitanti o addirittura antecedenti all'azione del soggetto". Altri ancora parlano di "riconoscibilità" così esprimendosi: "la tipicità colposa risulta configurabile allorchè la situazione concreta sia stata caratterizzata dalla presenza di elementi, giuridici e fattuali.......che, in correlazione con le stesse leggi scientifiche e conoscenze empiriche utilizzate dal giudice ai fini dell'imputazione dell'evento, avrebbero permesso di rappresentarsi la concreta realizzazione del fatto previsto dalla legge come reato colposo").
La dottrina (e, in minor misura, la giurisprudenza che ha dedicato una minore attenzione a questi temi) è quindi da tempo sostanzialmente uniforme nel ritenere che il giudizio sulla colpa non possa prescindere da una valutazione sulla prevedibilità che, non essendo riferita all'agente concreto, ha caratteristiche di oggettività pur essendo riferita alla colpevolezza.
Orbene nel nostro caso è sufficiente ripercorrere la storia clinica del paziente per trovare conferma della correttezza della valutazione sulla circostanza che lo sfondo delirante e persecutorio che caratterizzava la patologia di M. rendeva del tutto prevedibili manifestazioni eteroaggressive tanto più in quanto, prima del fatto che ha dato origine al presente processo, numerose altre e in varie epoche se ne erano verificate.
Anche perchè, dal momento in cui il ricorrente ha preso in carico il paziente e fino al momento della riduzione della posologia del neurolettico sono almeno tre gli episodi sintomatici di una situazione di possibile scompenso (tra questi uno in cui M., dopo un diverbio con un altro paziente, tentò di nascondere un coltello temendo di essere aggredito). E si è già accennato ai due episodi di natura delirante (la denunzia della sparizione dei soldi in banca) verificatisi tra la riduzione e la sospensione della terapia neurolettica.
Se dunque è stato accertato nel giudizio di merito che la patologia da cui era affetto M. era idonea, se incongruamente trattata - ed in particolare con una diminuzione e sospensione del trattamento farmacologico in atto senza la gradualità richiesta - ad esasperare le manifestazioni di aggressività nei confronti di terzi ne consegue che la prevedibilità dell'evento sia stata logicamente affermata (seppur implicitamente dai giudici di appello i quali hanno peraltro richiamato la sentenza di primo grado che ne tratta adeguatamente e qualifica come addirittura "imminente" la reazione violenta).
10) Il principio di affidamento e l'obbligo informativo del medico. All'interno del quarto motivo il ricorrente propone poi una censura che si riferisce all'addebito dei giudici di merito che hanno affermato l'obbligo per il medico psichiatra di documentarsi adeguatamente prima di modificare il trattamento farmacologico facendosi esibire il diario tenuto dagli operatori nonchè, dopo la modifica della terapia, di pretendere di essere informato di qualunque evenienza negativa.
Il ricorrente afferma invece che questa concezione risponde ad una concezione gerarchica del rapporto tra consulente e struttura e ad una logica custodialistica del trattamento della malattia psichica non più ipotizzabile dopo la riforma del 1978. E proprio la struttura complessa della comunità e la presenza di operatori attrezzati professionalmente non poteva che indurre il medico psichiatra a fare affidamento sulla corretta condotta di coloro che operavano all'interno della struttura.
In merito al richiamato principio di affidamento può intanto osservarsi che, in linea di massima, ciascuno risponde per le conseguenze della propria condotta, commissiva od omissiva, e nell'ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni; non risponde invece dell'eventuale violazione delle regole cautelari da parte di altri partecipi della medesima attività o che agiscano nello stesso ambito di attività (a meno che non gli sia attribuita una funzione di controllo dell'opera altrui); sul rispetto delle regole da parte di queste persone l'agente deve poter confidare ("principio di affidamento").
Sono da ritenere superate quelle posizioni che tendevano a far ritenere prevedibili le altrui inosservanze delle regole cautelari; oggi prevalgono le opinioni dirette a ritenere prevedibili le violazioni solo nei casi in cui esistano elementi sintomatici dell'esistenza o della probabile violazione della regola cautelare da parte del terzo.
Solo se l'agente viene a conoscenza della violazione delle regole da parte di altri partecipi nella medesima attività (per es. un'operazione chirurgica svolta in equipe) - o comunque si trova in una situazione in cui diviene prevedibile l'altrui inosservanza della regola cautelare (che deve avere caratteristiche di riconoscibilità) - ha l'obbligo di attivarsi per evitare eventi dannosi. Come è stato affermato "le violazioni della diligenza altrui non sono oggetto del dovere di rappresentazione gravante sul soggetto, purchè la situazione concreta non desse "occasione" per sospettare del contrario".
Il principio di affidamento ha trovato una particolare elaborazione nell'ambito della circolazione stradale nella quale ogni conducente può, e deve, fare affidamento sul rispetto delle regole da parte degli altri conducenti; non esiste infatti un obbligo di prevedere le altrui imprudenze.
Solo quando percepisca (o divenga percepibile) la mancata osservanza delle regole da parte del terzo il conducente ha l'obbligo a sua volta di porre in essere manovre di emergenza per evitare danni (per es. chi si accorge per tempo che un veicolo marcia contro mano ha l'obbligo di fermarsi; il titolare del diritto di precedenza ha l'obbligo di eseguire le manovre idonee ad evitare incidenti se percepisce tempestivamente che altro conducente sfavorito non gli concede la precedenza).
Di maggior complessità è la soluzione di questi problemi nel caso di obblighi "divisi", cioè nei casi nei quali una medesima attività è svolta in equipe da più soggetti. E' evidente che il concetto di affidamento assume carattere diverso a seconda del tipo di attività svolta, delle specializzazioni, competenze e capacità degli altri partecipi, delle modalità e difficoltà dell'attività intrapresa.
I componenti di una equipe chirurgica avranno un ben diverso livello di affidamento rispetto agli automobilisti che si trovino a percorrere la medesima strada. Così ben diversa considerazione dovrà avere l'eventuale condotta colposa da parte del capo equipe rispetto a quella dei chirurghi che si trovino in posizione subordinata e l'attività dei partecipi ad un intervento chirurgico rispetto all'attività degli specialisti (problema che si pone analogamente nel trattamento medico di patologie che richiedono l'intervento di più specialisti). Ma non diverso sarà il criterio cui dovrà ispirarsi il componente dell'equipe chirurgica che dovrà attivarsi nel caso in cui concretamente appaia, o sia prevedibile, il comportamento scorretto, o comunque inosservante, di altro titolare dell'obbligo diviso tanto più se rivesta una posizione di sovraordinazione gerarchica.
La semplice enunciazione dei principi che governano il principio di affidamento mostra come, nel caso in esame, ci si trovi al di fuori di questa problematica relativa al principio di affidamento che sarebbe invocabile solo se gli operatori della comunità (OMISSIS) avessero tenuto nascosti all'imputato gli episodi di scompenso, o comunque significativi dell'aggravamento della patologia, verificatisi.
Non solo questo "occultamento" delle informazioni non è stato accertato dai giudici di merito ma va invece riaffermato il principio che il medico ha l'obbligo di assumere (dal paziente o, se ciò non è possibile, da altre fonti informative affidabili) tutte le informazioni necessarie al fine di garantire la correttezza del trattamento medico chirurgico praticato al paziente. Obbligo che diviene ancor più pregnante nel caso di una iniziativa terapeutica così delicata come la modifica del trattamento farmacologico di un malato psichico grave che richiede necessariamente una conoscenza delle fasi pregresse della malattia che il medico (soprattutto perchè da poco tempo incaricato di seguire il paziente) ha l'obbligo di acquisire; tanto più nei casi di malattie nei quali si verifica una scarsa o nulla collaborazione del paziente.
Nel nostro caso i giudici di merito hanno invece accertato che il dott. P. aveva omesso completamente di acquisire le conoscenze disponibili sul percorso patologico del paziente e di sollecitare l'acquisizione delle informazioni necessarie (tra l'altro l'anamnesi pregressa competeva proprio al dott. P. per cui è incongruo parlare di principio di affidamento). Questa mancata acquisizione delle informazioni è stata peraltro ammessa dal medesimo imputato che ha dichiarato che ignorava addirittura che il paziente fosse stato in passato ricoverato in ospedale psichiatrico giudiziario.
A maggior ragione, dopo la modifica del trattamento, proprio per i rilevanti effetti negativi che tale modifica era idonea a provocare, costituiva un obbligo del medico informarsi in modo continuativo sull'evoluzione della malattia per verificare l'esistenza di questi effetti in conseguenza della modificazione del trattamento. Certo, anche gli operatori della comunità avevano l'obbligo di segnalare le manifestazioni anomale del paziente ma ciò non fa venir meno l'obbligo informativo che grava primariamente sul medico.
Si aggiunga che, nel giudizio di merito (v. sentenza di 1 grado a p. 27 e 32), è stato accertato che il dott. P. non provvedeva, nei rari incontri con gli operatori, all'acquisizione delle informazioni e delle notizie utili per la valutazione dello stato della malattia nè risulta aver sollecitato le periodiche verifiche che l'equipe avrebbe dovuto effettuare; e risulta anzi che le visite del dott. P. nei confronti del M. sono sempre state "oltre che contenute nel numero, improntate ad eccessiva fretta e superficialità". Nè questa diligenza risulta essere aumentata nel periodo più delicato, quello successivo alla diminuzione della posologia.
Insomma è da ritenere del tutto adeguata, con riferimento ai fatti incensurabilmente accertati nel corso del giudizio di merito, la conclusione tratta dai giudici dall'esame di questa tragica vicenda che non è quella, sostenuta nel ricorso, di una "concezione gerarchica del rapporto fra consulente e struttura cui era affidato il paziente" ma di un rapporto terapeutico instaurato e condotto in modo gravemente negligente (oltre che imperito e imprudente nella affrettata diminuzione e sospensione della terapia) in particolare per la mancata assunzione di tutte le informazioni necessarie per trattare il caso secondo le regole dell'arte medica psichiatrica anche se riduttivamente vista in un'ottica di protezione esclusiva del paziente.
E' ovvio che se gli operatori della struttura - peraltro separatamente giudicati - hanno omesso di trasmettere al medico psichiatra informazioni utili e necessarie per il trattamento della patologia potranno rispondere per aver posto in essere concause dell'evento. Ma ciò potrebbe valere, al più, a far ritenere che la condotta dell'imputato ha avuto efficacia concausale e non esclusiva sul verificarsi dell'evento (che certamente - ma neppure il ricorrente lo sostiene - non è ricollegabile ad una causa sopravvenuta da sola idonea a determinare l'evento).
11) Il rapporto di causalità. La descrizione dell'intero meccanismo causale. E' adesso possibile riprendere il discorso sull'efficienza causale della condotta colposa dell'imputato sul verificarsi dell'evento (c.d. "causalità della colpa"). E' evidente che la censura relativa all'esistenza della posizione di garanzia in capo al dott. P. in precedenza esaminata ha un significato determinante in relazione all'elemento di colpa riferito all'omessa richiesta di trattamento sanitario obbligatorio configurabile come una condotta omissiva peraltro escluso come si è detto in precedenza. Ma il ricorrente imposta in termini di causalità omissiva anche il problema dell'efficienza causale del mutamento della terapia farmacologia e deduce, nel quinto motivo di ricorso, la violazione dell'art. 40 c.p., e il vizio di motivazione perchè la sentenza impugnata, in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, si sarebbe ispirata a criteri probabilistici non idonei a fondare il giudizio positivo sulla causalità ed avrebbe omesso di accertare la concatenazione causale in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici necessari per ritenere esistente il nesso di condizionamento.
In merito a queste censure va preliminarmente esaminata la doglianza che si riferisce alla mancata individuazione dell'intero e complesso meccanismo causale che ha condotto all'evento inseritosi nella tragica vicenda dell'accoltellamento dell'operatore (in particolare difetterebbe, nel caso in esame, secondo il ricorrente, l'accertamento che riguarda la concentrazione del principio attivo del farmaco antipsicotico nel periodo immediatamente precedente il tragico fatto) perchè, da parte di alcuni autori e in alcune decisioni, anche di legittimità, si afferma che, in questo caso, non potrebbe ritenersi accertato il rapporto di causalità.
Si osserva, in contrario, che a questo dubbio aveva già dato una precisa risposta la giurisprudenza di legittimità che, già con la sentenza Cass., sez. 4, 6 dicembre 1990, Bonetti e altri, aveva affrontato il problema in questi termini confermando il ragionamento della Corte d'appello: "Come si vede, il discorso della Corte è di esemplare linearità: è impossibile che il giudice, nell'accertare il rapporto causale, venga a capo di tutti, conosca tutti i passaggi causali, tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, che proceda ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi; è sufficiente che il giudice, adottando il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, universali o statistiche, "restando, cioè, vincolato a parametri oggettivi e impersonali forniti dalla scienza" e, quindi, ripudiando il modello individualizzante, colga, metta in luce, uno o più antecedenti che, secondo quelle leggi scientifiche, universali o statistiche, siano tali che senza lo stesso o gli stessi l'evento, con alto grado di probabilità, con probabilità, cioè, logica o credibilità razionale, non si sarebbe verificato;". Più recentemente si è ancora affermato che il nesso di condizionamento deve ritenersi provato non solo quando (caso improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all'evento ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l'evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell'agente sia pure con condotte alternative; e purchè sia possibile escludere l'efficienza causale di diversi meccanismi eziologici (in questo senso v. Cass. , sez. 4, 15 marzo 1995 n. 2650, Trotta, in Giust. pen., 1996, 11, 445, che ha ritenuto irrilevante l'indicazione di una delle cause alternative dell'evento qualora le conseguenze dell'una o dell'altra soluzione siano identiche. Nello stesso senso, più di recente, si è espressa Cass., sez. 4, 17 aprile 2007 n. 21602, Ventola, rv. 237588; contra Cass., sez. 4, 25 maggio 2005 n. 25233, Lucarelli, rv. 232013).
Una parola definitiva su questo punto è stata pronunziata dalla sentenza Franzese delle sezioni unite che così si esprime: "poichè il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, nè procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l'ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purchè sia ragionevolmente da escludere l'intervento di un diverso ed alternativo decorso causale".
Ciò che rileva, quindi, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) di indagati e imputati; oppure che si possa comunque escludere che ne esistano di ragionevolmente ipotizzabili che possano condurre all'esclusione del contributo causale da parte dell'agente.
Queste conclusioni sono condivise anche dalla prevalente dottrina. Si è detto che "non si può pretendere che il giudice spieghi l'intero meccanismo di produzione dell'evento, e non lo si può pretendere perchè non è possibile conoscere esattamente tutte le "fasi intermedie" attraverso le quali la causa "produce" l'effetto finale".
Ciò che rileva, lo si ribadisce, è che siano individuati tutti i possibili meccanismi eziologici e verificare se queste alternative ricostruzioni possano tutte essere riferite alle condotte (colpose) dell'agente. Ma, prima di trarre le necessarie conclusioni da queste premesse, occorre affrontare il tema della natura della causalità cui è stato ricondotto l'evento.
12) Causalità commissiva e causalità omissiva. Si è già accennato che il ricorrente imposta il tema della causalità in termini di causalità omissiva: espressamente per quanto riguarda la mancata richiesta del t.s.o.; implicitamente, come risulta dall'impostazione delle censure, per quanto riguarda le condotte colpose riferibili al mutamento della terapia cui il paziente era sottoposto.
Anche su questo tema occorrono alcune riflessioni preliminari sulla distinzione tra causalità attiva ed omissiva. Su questo problema va premesso che, in astratto, la distinzione tra causalità commissiva e causalità omissiva è del tutto chiara: nella prima viene violato un divieto nella seconda è un comando ad essere violato. Non sempre agevole è però la distinzione in concreto tra le due forme di causalità. In particolare nella responsabilità professionale medica (ma non solo) viene frequentemente ritenuta omissiva una condotta che tale non è anche perchè sono ben pochi i casi nei quali la condotta cui riferire l'evento dannoso è chiaramente attiva (il chirurgo ha inavvertitamente tagliato un vaso durante l'intervento) o passiva (il medico ha colposamente omesso di ricoverare il paziente). Nella stragrande maggioranza dei casi sono presenti condotte attive e passive che interagiscono tra di loro rendendo ancor più difficile l'accertamento della natura della causalità.
E' peraltro necessario evitare la confusione tra il reato omissivo e le componenti emissive della colpa: i casi del medico che adotta una terapia errata (e quindi omette di somministrare quella corretta) o che dimette anticipatamente il paziente (e quindi omette di continuare a curarlo in ambito ospedaliero) non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva.
Si è detto che i medici che hanno sbagliato diagnosi e terapia "non hanno violato un comando penale, bensì solo un divieto di cagionare (o contribuito a cagionare, si trattasse anche solo di accelerare) lesioni o morte con negligenza, imperizia o imprudenza".
Causalità omissiva sarà dunque quella del medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Al più potrebbe ritenersi condivisibile il più recente orientamento secondo cui, nell'ambito della responsabilità medica, avrebbe natura commissiva la condotta del medico che ha introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi; sarebbe invece omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente.
Alla luce delle considerazioni svolte non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame.
Il dott. P. non ha violato un comando omettendo di intervenire in un caso che richiedeva la sua attivazione ma ha violato il divieto di somministrare le terapie farmacologiche in modo incongruo prima con una immotivata riduzione alla metà del farmaco neurolettico e poi addirittura sospendendo, senza un adeguato periodo di osservazione, la terapia in tempi troppo ravvicinati e senza un approfondito esame delle conseguenze della modifica terapeutica.
E, anche richiamando la più recente ricostruzione ricordata, può affermarsi che il medico abbia introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi. Si badi, non si tratta di un riferimento alla non condivisibile (e ormai ampiamente superata) teoria dell'aumento del rischio ma di una ricostruzione che tiene conto della introduzione di un fattore causale che ha certamente cagionato, o contribuito a cagionare, l'evento.
Se dunque nel caso in esame la causalità ha natura commissiva e se l'evento è da ritenere causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di sostanziale certezza è evidente che non è necessario porsi la domanda, che si pone il ricorrente, su che cosa sarebbe avvenuto se la modifica terapeutica non fosse avvenuta; domanda che trova la sua ragione nella circostanza che è statisticamente accertato che una certa percentuale di scompensi nei pazienti psicotici avviene anche con il mantenimento della terapia. Questa domanda sarebbe legittima se si trattasse di causalità omissiva: il medico che non ha somministrato il farmaco salvifico risponde della morte del paziente se, in base al giudizio controfattuale, può ritenersi, in termini di elevata credibilità razionale, che l'evento non si sarebbe verificato se il medico avesse compiuto l'azione richiesta.
Ma, nel nostro caso, i giudici di merito hanno motivatamente ritenuto accertato, in termini di sostanziale certezza, che la crisi si è scatenata a seguito del mutamento incongruo della terapia farmacologia; dunque l'ipotesi formulata dal ricorrente costituisce una congettura priva di alcuna conferma ed estranea all'evidenza probatoria del processo che anzi mostra l'esistenza di una situazione di sostanziale compenso durata circa quindici anni pur con periodici episodi di rottura di questa situazione di equilibrio.
Il giudizio controfattuale non va dunque compiuto, come implicitamente richiede il ricorrente, dando per avvenuta una condotta impeditiva che non c'è stata e chiedendosi se, posta in essere la medesima, l'evento sarebbe ugualmente avvenuto in termini di elevata credibilità razionale. Ma chiedendosi se, ipotizzando non avvenuto il mutamento del trattamento farmacologico, si sarebbe ugualmente verificato il processo patologico che ha condotto il paziente allo scompenso conclamato cui è riconducibile l'aggressione a C..
E su quale debba essere la risposta a questo quesito la Corte di merito ha fornito la motivata e non illogica risposta cui si è più volte fatto cenno.
E' infatti possibile che, se la terapia non fosse mutata, si sarebbero potuti verificare in futuro altri episodi di scompenso; ma lo scompenso che si è in concreto verificato è stato eziologicamente ricollegato - in base all'evidenza disponibile ed in particolare agli accertamenti peritali - al mutamento terapeutico, si è manifestato come conseguenza prevista e prevedibile di questo mutamento e non costituisce quindi uno degli episodi statisticamente possibili di inefficacia del farmaco.
E quindi possibile dare una risposta al quesito formulato nel capitolo precedente: l'evento hic et nunc verificatosi è causalmente ricollegabile alla condotta dell'imputato in termini di elevata credibilità razionale e l'ipotesi alternativa formulata è fondata su una mera congettura che peraltro neppure potrebbe essere presa in considerazione nel giudizio di legittimità.
Ed è ora possibile dare anche una risposta al quesito posto in precedenza e relativo alla verifica dell'esistenza dei presupposti di natura soggettiva per la verifica in concreto dell'ammissibilità del concorso colposo nel delitto doloso: sull'imputato gravava una posizione di garanzia di protezione a tutela del paziente e la regola cautelare violata dal dott. P. era finalizzata anche ad evitare eventi del tipo di quello in concreto verificatosi. Con la conseguenza che, anche sotto questo profilo, la responsabilità dell'agente nella causazione dell'evento non può essere esclusa.
14) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali oltre alle pronunzie sull'azione civile di cui al dispositivo.
P.Q.M
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La condanna altresì a rifondere alle parti civili le spese sostenute dalle medesime per il presente grado di giudizio; spese che liquida in complessivi Euro 3.000,00 per la parte civile B.I. e in complessivi Euro 3.600,00 per le parti civili B.M. e C.A.; oltre, per tutte le medesime parti civili, I.V.A. e C.P.A. e spese generali come per legge.
Così deciso in Roma, il 14 novembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2008