Col primo motivo il ricorrente lamenta la violazione di "norme di diritto" (in realtà dell'art. 6 I. 15 luglio 1966 n. 604) e vizi di motivazione, per avere la Corte d'appello ritenuto la decadenza dal diritto di impugnare il licenziamento pur avendo il lavoratore impugnante spedito la relativa lettera quindici giorni prima della scadenza del termine di sessanta giorni stabilito dall'art. 6 cit. Ad avviso del ricorrente la non imputabilità a lui del ritardo nel recapito comporterebbe la necessità di considerare l'atto di impugnazione come non ricettizio, vale a dire di connettere l'effetto impeditivo della decadenza all'emissione della dichiarazione di volontà invece che alla sua ricezione da parte del destinatario. La diversa interpretazione, adottata dalla Corte d'appello, configgerebbe col principio di ragionevolezza di cui all'art. 3, capoverso, Cost.
Il motivo è fondato.
La questione della natura, ricettizia o no, dell'atto di impugnazione del licenziamento, assoggettato al termine di decadenza di sessanta giorni dall'art. 6 cit., venne risolta in tempo non recente dalle Sezioni unite di questa Corte, in sede di composizione di un contrasto giurisprudenziale, con la sentenza 18 ottobre 1982 n. 5395. Si trattava, più precisamente, di stabilire se l'impugnazione giudiziale impedisse la decadenza attraverso il deposito in cancelleria del ricorso o se questo dovesse anche essere notificato alla controparte entro i sessanta giorni.
Le Sezioni unite si espressero nel secondo senso onde "salvaguardare fondamentali esigenze di certezza" e per "evitare l'insorgere di controversie in epoca lontana dai fatti con le intuitive difficoltà che ne conseguono in materia di prova per l'una e per l'altra parte". A queste rationes decidendi si poteva già allora obiettare che le esigenze di certezza erano salvaguardate piuttosto dalla brevità del termine che dal carattere ricettizio dell'atto e che nel rito del lavoro la controversia, e quindi la necessità di raccogliere le prove, sorge già nel momento del deposito dell'atto introduttivo. Nel caso di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, poi, la lite giudiziaria poteva, e può, essere iniziata entro il più lungo termine di prescrizione (così la stessa sent. n. 5395 del 1982).
Non è, in definitiva, il più o meno breve spazio intercorrente fra emissione e ricezione della dichiarazione di volontà a pregiudicare la raccolta delle prove. La sentenza delle Sezioni unite venne seguita dalle conformi Cass. 2 marzo 1987 n. 2179, 17 marzo 1990 n. 2257, 6 aprile 1993 n. 4127, 29 gennaio 1994 n. 899, 21 settembre 2000 n. 12507, 13 dicembre 2000 n. 15696, 13 luglio 2001 n. 9554,21 giugno 2001 n. 8765,21 aprile 2004 n. 7625, 15 maggio 2006 n. 11116.
E' però sopravvenuta una dottrina che, nella materia della decadenza, segnala l'opportunità di attribuire rilevanza agli ostacoli non imputabili al soggetto onerato e propone rimedi, non soltanto de iure condendo, per le ipotesi in cui egli non abbia potuto, senza colpa, esercitare un potere nell'imminenza della scadenza del termine.
Questa dottrina ha verosimilmente influito sulla giurisprudenza costituzionale la quale, in materia di decadenza processuale da impedire attraverso la notificazione di un atto, ha espresso il principio generale, fondato sulla ragionevolezza e sul diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.), secondo cui il momento di perfezionamento della notifica per il soggetto onerato dalla comminatoria di decadenza deve distinguersi da quello di perfezionamento per il destinatario, a sua volta onerato da termini o da adempimenti: per il primo la decadenza è impedita attraverso la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario oppure all'agente postale, poiché sarebbe irragionevole imporgli effetti sfavorevoli di ritardi nel compimento di attività riferibili a soggetti diversi (Corte cost. 26 novembre 2002 n. 477, 23 gennaio 2004 n. 28, 12 marzo 2004 n. 97).
Questo principio di rilievo costituzionale può operare non solo nel campo processuale ma anche in quello del diritto sostanziale e conduce a rimeditare la sopra riportata soluzione, a suo tempo adottata dalle Sezioni unite. Anzi tanto più il principio deve operare nel diritto del lavoro, quando si tratti della tutela contro il licenziamento illegittimo, ossia contro un mezzo che può privare il lavoratore dei mezzi necessari ad assicurare al lavoratore ed alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa (art. 36, primo comma, Cost.).
Per queste ragioni l'art. 410, secondo comma, cod. proc. civ. - secondo cui la comunicazione della richiesta del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza - è stato interpretato dalla Corte nel senso che il termine di decadenza per l'impugnazione del licenziamento viene sospeso col deposito dell'istanza di tentativo di conciliazione, contenente la detta impugnativa, presso la commissione di conciliazione, mentre è irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l'ufficio
provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).
Questa decisione può essere generalizzata e può così enunciarsi la massima secondo cui l'impugnazione del licenziamento individuale è tempestiva, ossia impedisce la decadenza di cui all'art. 6 1. n. 604 del 1966, qualora la lettera raccomandata sia, entro il termine di sessanta giorni ivi previsto, consegnata all'ufficio postale ed ancorché essa venga recapitata dopo la scadenza di quel termine.
L'accoglimento del motivo di ricorso porta alla cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla corte d’appello di Genova che si pronuncerà uniformandosi al principio di diritto testé enunciato.
Col secondo motivo il ricorrente lamenta che la Corte d'appello non abbia accertato il danno ingiusto da lui sopportato e cagionato dal comportamento della datrice di lavoro, la quale lo assegnò dapprima alla manutenzione di autoveicoli e solo dopo il rientro da un grave infortunio gli assegnò le mansioni di raccoglitore di carta, più faticose e nocive alla salute. Il motivo non è ammissibile. Il ricorrente non indica alcuna norma di diritto su cui fondare la censura, così mancando di osservare l'art. 366 n. 4 cod. proc. civ. Egli inoltre si riferisce ad una molteplicità di fatti e di circostanze ma senza indicare una precisa lacuna oppure una contraddizione nella motivazione della sentenza impugnata bensì piuttosto "errata interpretazione delle risultanze istruttorie" (così a pag. 3 del ricorso) e sollecitandocela sostanza, da questa Corte una nuova, impossibile valutazione delle medesime risultanze.
Il giudice di rinvio provvedere anche sulle spese del giudizio di cassazione.