sabato 19 luglio 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli
Le Sezioni Unite hanno chiarito che "costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale", osservando in particolare che:
a) non è individuabile un "nesso di immediatezza tra la coltivazione e l'uso personale", ed è conseguentemente impossibile "determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione" (cfr. Corte cost. n. 360 del 1995): la fattispecie in esame ha, infatti, natura di reato di pericolo presunto, che fonda sulle "esigenze di tutela della salute collettiva", bene giuridico primario che "legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto";
b) il fatto che, anche dopo l'intervento normativo del 2006, gli artt. 73 co. 1-bis e 75 co. 1 d. P.R. n. 309 del 1990 non richiamino la condotta di << coltivazione >>, lascia ritenere, nel rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, che il legislatore ha inteso "attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale";
c) è arbitraria la distinzione tra << coltivazione in senso tecnico-agrario >> ovvero << imprenditoriale >> e << coltivazione domestica >>, non legittimata da alcun riferimento normativo, e superata dal rilievo che qualsiasi tipo di << coltivazione >> è caratterizzato dal dato essenziale e distintivo rispetto alla << detenzione >> di "contribuire ad accrescere … la quantità di sostanza stupefacente esistente".
A parere del Supremo Collegio, spetta inoltre al giudice "verificare se la condotta, di volta in volta contestata all'agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva"; peraltro, la condotta de qua è << inoffensiva >> soltanto "se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile".
N.B. si veda in proposito la sentenza n. 28605/2008 della Suprema Corte a Sezioni Unite Penali, depositata in pari data.
Suprema Corte di Cassazione
Sezioni Unite Penali
Sentenza n. 28606 del 24 aprile 2008
(depositata il 10 luglio 2008)
FATTO E DIRITTO
Il giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Savona, con sentenza del 9 novembre 2006, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di V. D., “perché il fatto non sussiste” in ordine (anche) al delitto di cui:
-- all’art. 73, commi 1 e 4, del D.P.R. n. 309/1990 [perché, in assenza della prescritta autorizzazione, coltivava n. 6 piante di cannabis indica (sostanza stupefacente rientrante nella tabella II di cui all’art. 14 del citato D.P.R.) – acc. in Savona il 5.9.2002],
disponendo la confisca e la distruzione delle piantine putrefatte in sequestro.
Ha osservato quel giudice che la consulenza tecnica tossicologica del P.M. non era riuscita a quantificare il principio attivo e la quantità della sostanza stupefacente sequestrata, in quanto le piantine erano state poste in sei sacchetti di cellophane ed erano pervenute allo stesso consulente tecnico completamente putrefatte, residuandone solo alcune foglie essiccate nelle parti fuoriuscite dai sacchetti da cui si era potuto desumere la presenza di principi di canapa indiana (marijuana). L’impossibilità di determinare il peso a secco della sostanza attiva e, in relazione ad esso, di valutare il contenuto di THC non consentiva di “pervenire ad una dichiarazione di responsabilità di illecita detenzione a fini di spaccio della sostanza stupefacente”, e detta carenza probatoria appariva non colmabile nell’eventuale futuro dibattimento.
Avverso tale sentenza di proscioglimento, pronunciata ai sensi dell’art. 425 c.p.p., ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Genova, il quale lamenta:
-- motivazione erronea;
-- inosservanza o erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale ex artt. 606 e 608 c.p.p.: in particolare, degli artt. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e 14 della tabella II allegata.
Prospetta il P.G. ricorrente che, in relazione alla coltivazione illegale di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, la totale assenza od insufficienza di principio attivo nelle sostanze sequestrate è irrilevante e, per aversi responsabilità penale, è sufficiente che le piante siano astrattamente idonee a produrre quantitativi non minimali di stupefacenti.
Irrilevante deve altresì considerarsi l’eventuale destinazione del raccolto all’uso personale, essendo configurabile il reato anche in presenza della coltivazione di una sola piantina.
Nella fattispecie in esame il G.U.P. avrebbe comunque dovuto disporre procedersi al futuro dibattimento, poiché il quadro probatorio offerto a sostegno dell’accusa formulata non era inficiato da insanabile contraddittorietà degli elementi emersi né dalla loro conclamata insufficienza a confortare l’accusa: la prospettazione di insufficienza probatoria, peraltro, non risultava in alcun modo specificata, essendo stata argomentata unicamente attraverso una rassegna di massime giurisprudenziali.
A seguito dell’udienza camerale del 7 febbraio 2008, nel corso della quale il pubblico ministero aveva concluso per il rigetto del ricorso, il Collegio della IV Sezione di questa Corte Suprema, con ordinanza depositata il 7 marzo 2008, ha rilevato la permanenza di un contrasto giurisprudenziale in ordine alla questione relativa alla configurabilità del delitto contestato all’imputato e conseguentemente ha trasmesso il ricorso al Primo Presidente, a norma dell’art. 618 c.p.p.
Il Primo Presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione l’odierna camera di consiglio.
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1. La questione controversa sottoposta all’esame delle Sezioni Unite consiste nello stabilire “se la condotta di coltivazione di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, sia penalmente rilevante anche quando sia realizzata per destinazione del prodotto ad uso personale ”.
2. In relazione a tale questione esiste effettivamente un contrasto nella giurisprudenza di legittimità.
2.1 L’orientamento prevalente ritiene che la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti sia penalmente illecita, quale che sia la destinazione del raccolto.
La destinazione ad uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perché difetta il nesso di immediatezza della coltivazione con l’uso personale, sia perché non può determinarsi a priori la potenzialità della sostanza stupefacente ricavabile (vedi Cass., Sez. IV, 23.3.2006, n. 10138, Colantoni).
In tal senso – all’esito del referendum abrogativo del 1993 – si è pronunciata, per la prima volta, la Sez. IV con la sentenza 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli, affermando il principio secondo il quale “l’attività di coltivazione costituisce reato a prescindere dall’uso che il coltivatore intende fare della sostanza ricavabile, dal momento che la coltivazione e la detenzione costituiscono due condotte del tutto distinte e l’art. 75 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, come modificato dal D.P.R. 5 giugno 1993, n. 171 in applicazione dell’esito del referendum, non fa alcun riferimento all’attività di coltivazione” (principio ribadito dalla stessa Sez. VI con le sentenze 5.1.1997, n. 100, Garcea e 5.4.2000, n. 4209, P.G. in proc. Reile).
Ai fini della verifica circa la sussistenza del reato di coltivazione abusiva non rilevano la quantità e qualità delle piante, la loro effettiva tossicità o la quantità di sostanza drogante da esse estraibile, poiché la previsione incriminatrice è rivolta a vietare la produzione di specie vegetali idonee a produrre l’agente psicotropo, indipendentemente dal principio attivo estraibile (Cass., Sez. IV, 29.9.2004, n. 46529, Aspri ed altro).
La modesta estensione della coltivazione, la qualità delle piante ed il loro grado di tossicità possono al più rilevare solo ai fini della considerazione della gravità del reato e della commisurazione della pena (vedi Cass.: Sez. IV, 6.2.2004, n. 4836, Felsini e Sez. VI, 9.6.2004, n. 31472, De Rimini).
Ancora la IV Sezione, con la sentenza 5.2.2001, n. 4928, Croce, ha osservato che il differente trattamento riservato alla coltivazione rispetto alla mera detenzione si fonda sulla valutazione di maggiore pericolosità ed offensività insita nell’essere la coltivazione, la produzione e la fabbricazione di sostanze stupefacenti (sempre penalmente sanzionate ancorché non qualificate da una precisa finalità di commercio) attività che sono tutte rivolte alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute e incolumità.
Il legislatore – delimitando i confini della liceità giuridica in base al criterio dell’impiego dello stupefacente per il proprio esclusivo bisogno soltanto a quelle determinate forme di condotta che sono menzionate nell’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 (le quali, se connotate dal fine di uso personale della sostanza, restano fuori dal campo di repressione penale) – non ha voluto sottrarre alla generale disciplina proibizionistica il fatto di chi, invece, coltiva e fabbrica la droga e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, indipendentemente dall’accertamento dell’esclusività della destinazione all’uso personale che alle stesse venga data, per l’immanente pericolo, non altrimenti controllabile, di dilatazione e propagazione del degenerativo ed antisociale fenomeno delle tossicomanie.
Alla stregua delle considerazioni anzidette è stata disattesa la tesi della equiparabilità della c.d. “coltivazione domestica” alla detenzione per uso personale, poiché le due condotte sono “ontologicamente distinte sul piano della stessa materialità” ed è stato affermato che, stante la natura di reato di pericolo del correlato delitto, la coltivazione, intesa in senso ampio, purché idonea alla produzione di sostanze con effetti stupefacenti, si differenzia nettamente dalle condotte colpite da sanzioni di natura amministrativa, indicate nell’art. 75.
Tali affermazioni sono state comunque “temperate” – tenuto conto delle considerazioni svolte dalla giurisprudenza costituzionale, di cui si darà conto di seguito – dalla specificazione che, ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, ben può il giudice di merito escludere l’offensività in concreto e ritenere la condotta non punibile (così Cass., Sez. IV: 13.4.2001, n. 15688, Vicini; 7.11.2002, n. 37253, Cantini; 30.5.2003, n. 23842, Morrone; 6.2.2004, n. 4836, Felsini; 8.3.2006, n. 8142, P.G. in proc. Fanfani; nonché Sez. VI, 6.6.2005, n. 20938, Bortoletto).
Sempre la IV Sezione, con la sentenza 10.6.2005, n. 22037, Gallob, ha rilevato che, pure alla stregua del letterale disposto dell’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990, non è dato distinguere tra una coltivazione “di tipo tecnico-agrario” ed una coltivazione “domestica”. Viene osservato, al riguardo, che è vero che l’art. 27 dello stesso D.P.R. fa riferimento anche alle “particelle catastali” ed alla “superficie del terreno sulla quale sarà effettuata la coltivazione”, ed i successivi artt. 28, 29 e 30 richiamano, oltre che le modalità di vigilanza, raccolta e produzione delle “coltivazioni autorizzate” e le eccedenze di produzione “sulle quantità consentite”, le sanzioni in caso di mancata autorizzazione; tali prescrizioni, però, riguardano la “autorizzazione alla coltivazione” e sono indicative, cioè, dei requisiti richiesti per ottenere detta autorizzazione. Del tutto configgente con la ratio normativa sarebbe la conclusione che, in mancanza della prescritta autorizzazione, concedibile solo in presenza dei requisiti indicati dalla legge, sarebbe in ogni caso consentita la coltivazione di piante di sostanze stupefacenti, quale che sia la loro quantità, purché non messe a dimora in un terreno identificabile nelle sue particelle catastali e secondo le altre prescrizioni al riguardo indicate dalla legge.
L’orientamento maggioritario, di cui si è dato conto dianzi, è stato ribadito – successivamente all’entrata in vigore dalla legge 21.2.2006, n. 49 (di conversione del D.L. 30.12.2005, n. 272) – dalla Sez. IV, con le sentenze 7.12.2006, n. 40295, Quaquero ed altro; 10.1.2008, n. 871, Costa e dalla Sez. VI, con le sentenze 23.3.2007, n. 12328, P.G. in proc. Fiorillo; 24.5.2007, n. 20426, Casciano; 28.9.2007, n. 35796, Franchellucci).
2.2 Un diverso (e minoritario) orientamento, affermatosi nella giurisprudenza più recente, ritiene, al contrario, che la c.d. “coltivazione domestica” non integri gli estremi della fattispecie tipica della “coltivazione” oggetto di incriminazione nell’ambito dell’art. 73, comma primo, del D.P.R. n. 309 del 1990, ma costituisca species del più ampio genus (di chiusura) della “detenzione”, di cui al 1° comma del successivo art. 75, risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all’esclusivo uso personale, e ciò anche alla luce del regime normativo introdotto dalla legge n. 49 del 2006.
La prima affermazione di principio in tal senso si rinviene in Cass. Sez. VI, 30.5.1994, n. 6347, Polisena, secondo la quale “una volta abrogato il divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti … ed una volta che il discrimine fra gli illeciti penale ed amministrativo resta fissato soltanto nella destinazione della sostanza al consumo personale, l’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento per condotte [caratterizzate] dal medesimo fine e quindi di interpretare l’art. 75 in senso conforme alla Costituzione impone in modo più stringente di estendere tale discrimine anche alla coltivazione. E tale risultato può essere agevolmente realizzato attraverso un’interpretazione estensiva dell’espressione “comunque detiene” di cui al testo del primo comma dell’art. 75, in modo da comprendervi anche quelle attività che, come appunto la coltivazione, implichino comunque la detenzione della sostanza stupefacente prodotta” (principio affermato in relazione alla detenzione-coltivazione di due piantine di canapa indiana).
Nel medesimo senso si pose Cass. Sez. VI, 13.9.1994, n. 3353, Gabriele, caratterizzata inoltre dal tentativo di precisare la nozione normativa di “coltivazione”. Tale decisione ritenne la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171 del 1993, nella parte in cui affermava la non punibilità del tossicodipendente per detenzione, acquisto ed importazione della sostanza stupefacente per uso personale, e ne prevedeva invece la punizione nel caso che si fosse procurato la droga mediante coltivazione domestica, osservando che l’ipotesi normativa di coltivazione evocherebbe, in realtà, la disponibilità di un terreno ed una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto ecc.), quali si evincono dagli artt. 27 e 28 del D.P.R. n. 309 del 1990. Così intesa la coltivazione di sostanze stupefacenti e psicotrope penalmente rilevante, considerata la diversità dei presupposti ed avuto riguardo alla complessa attività svolta dal tossicodipendente per procurarsi la droga – qualunque sia il fine cui essa è rivolta – si ritenne ragionevole la diversità della disciplina normativa ad essa riservata rispetto alle altre ipotesi singolarmente contemplate dall’art. 75, relativamente alle quali è stata esclusa l’illiceità penale delle condotte, quando la droga sia destinata all’uso personale.
L’orientamento, dopo l’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995, fu abbandonato per oltre un decennio, ed è stato solo recentemente riproposto, successivamente all’entrata in vigore della legge n. 49 del 2006, da Cass., Sez. VI, 10.5.2007, n. 17983, Notaro, le cui argomentazioni sono state richiamate da quattro successive decisioni conformi della stessa Sezione (3.8.2007, n. 31968, P.M. in proc. Satta; 31.10.2007, n. 40362, P.G. in proc. Mantovani; 6.11.2007, n. 40712, Nicolotti ed altro; 19.11.2007, n. 42650, P.G. in proc. Piersanti).
La sentenza n. 17983/07, Notaro, nel riepilogare l’evoluzione storica della normativa del settore, ha evidenziato che, nell’originaria formulazione del T.U. sugli stupefacenti n. 309/1990, l’art. 75 sanzionava come illecito amministrativo la condotta di chiunque, per farne uso personale, “importava, acquistava o comunque deteneva” sostanze stupefacenti, senza menzionare la condotta di coltivazione, in quanto quella normativa ricollegava la destinazione all’uso personale al non superamento della “dose media giornaliera”, dato quantitativo ontologicamente incompatibile con il concetto di coltivazione. Una volta espunto però, dal D.P.R. 5.6.1993, n. 171, all’esito del referendum abrogativo del 1993, il riferimento alla “dose media giornaliera”, deve ritenersi possibile far rientrare la coltivazione c.d. domestica (per il solo consumo personale) nell’ambito della detenzione pura e semplice riconducibile all’espressione “comunque detiene” tuttora presente nella vigente previsione di cui al 1° comma dell’art. 75.
L’analisi storicizzata dell’espressione “o comunque detiene” conduce a ritenere che essa si riferisca ad un comportamento descrittivo formulato in termini di sintesi, dato che tutte le condotte previste dall’art. 73 del D.P.R. n. 309/1990 sembrano comunque presupporre una forma di detenzione.
Il D.L. 30.12.2005, n. 272, convertito dalla legge 21.2.2006, n. 49, ha adottato un modello repressivo apparentemente in grado di sottrarre la coltivazione dal regime di chi comunque detiene sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’art. 14 [opportunamente ‘rimodernata’ con la previsione alla lettera a), n. 6, fra l’altro, proprio della cannabis indica, e dei prodotti da essa ottenuti, nonché dei tetraidrocannabinoli, dei loro analoghi naturali, delle sostanze ottenute per sintesi o semisintesi che siano ad essi riconducibili per struttura chimica o per effetto farmaco- tossicologico; v. anche il n. 7 della stessa lettera a)]; ma ciò non deve far trascurare che l’art. 75, comma 1, reiterando l’espressione “o comunque detiene”, consente di ricomprendere nel lessico di genere anche la coltivazione, come sintesi di tutte le condotte richiamate dall’art. 73 nel suo integrale contesto, ben potendosi ritenere compatibile con l’attuale regime una coltivazione che “per le altre circostanze dell’azione”, appare destinata ad un uso non esclusivamente personale.
D’altro canto – sempre secondo la sentenza Notaro – il regime dell’equiparazione quoad poenam della repressione delle attività illecite concernenti gli stupefacenti (vedi il richiamo dell’art. 73 all’art. 14) conduce ad escludere che un legislatore (non tanto razionale, quanto) ragionevole possa aver previsto la pena da anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa ad anni venti di reclusione ed euro 260.000,00 di multa [nella compresenza delle circostanze richieste dall’art. 73, comma 5, per la configurazione dei “fatti di lieve entità”, da un anno di reclusione ed euro 3.000,00 di multa ad anni sei di reclusione ed euro 26.000,00 di multa] per la coltivazione di un numero circoscritto di piante di marijuana (dotate di effetto drogante) per chi non intenda fare commercio del risultato della coltivazione, ma coltivi la cannabis per uso personale (consumo voluttuario o curativo, studio, etc.).
Viene ripresa la distinzione tra la nozione di “coltivazione c.d. domestica” e quella di “coltivazione in senso tecnico” (che si afferma dover assumere rilievo anche a seguito della legge n. 49 del 2006): la prima configurabile quando il soggetto agente mette a dimora, in vasi detenuti nella propria abitazione, alcune piantine di sostanze stupefacenti. Tale condotta rientrerebbe nel più ampio genus della detenzione, con la conseguenza che, ove si accerti la destinazione esclusiva del prodotto all’uso personale della sostanza, essa risulterebbe depenalizzata.
Un solido fondamento di tale assunto viene individuato nella disciplina amministrativa complementare (artt. 26 e segg. del D.P.R. n. 309 del 1990) che regola le procedure per il rilascio dell’autorizzazione ministeriale alla “coltivazione” e le modalità con le quali tale attività può essere lecitamente svolta: il concetto tecnico-giuridico di “coltivazione” di piante contenenti principi attivi di sostanze stupefacenti penalmente rilevante comprenderebbe soltanto la coltivazione in senso tecnico-agrario ovvero imprenditoriale, che è caratterizzata da una serie di presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la presenza di locali destinati alla raccolta dei prodotti, laddove, al contrario, la coltivazione c.d. domestica rientrerebbe nell’ambito della nozione di “detenzione”.
Rileva ancora la sentenza n. 17983/07 che la conclusione contraria – che fa ricadere in ogni caso le condotte di “coltivazione” nell’area del penalmente rilevante, negando l’autonomo rilievo della nozione di detenzione-coltivazione – non fa che trasferire un dato di inferenza probatoria (quale è quello della destinazione della sostanza stupefacente) nella ratio del precetto, “tanto da assegnare al contesto di scoperta forza dirimente ai fini della identificazione della fattispecie”. Ed infatti, sul presupposto che la detenzione per uso personale è penalmente irrilevante, il tema probatorio costituito dall’uso personale finisce col coincidere con la stessa struttura della norma, nel senso che, una volta accertato l’uso personale, la sua forza esimente è affidata al contesto in cui il fatto è accertato. Nel caso in cui il prodotto della coltivazione sia stato già raccolto, viene meno il pericolo astratto della condotta di coltivazione, fino a consentire l’utilizzazione di strumenti di verifica del pericolo effettivo, e se, invece, la coltivazione è ancora in corso, tale accertamento resta precluso, perché del tutto irrilevante ai fini dell’identificazione dell’ipotesi di reato e della sua punibilità. Se poi solo una parte di quanto coltivato è stato raccolto, per questa sola parte cessa il pericolo del pericolo ed è possibile verificare, con il pericolo concreto, anche il pericolo astratto per la salute, secondo un canone del tutto inidoneo a discriminare la detenzione per il consumo personale dall’esito della coltivazione, come tale non punibile, dalla detenzione-coltivazione di quanto ancora non raccolto, come tale punibile. L’irragionevolezza di siffatte conseguenze finirebbe col dipendere dalla scelta di affidare la definizione del fatto al momento in cui si apprende la notitia criminis”.
3. La Corte Costituzionale, con la decisione n. 443 del 1994, dichiarò inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 28, 72, 73 e 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificati dal D.P.R. n. 171/1993 (che aveva recepito l’esito della precedente consultazione referendaria, sopprimendo il riferimento al concetto di “dose media giornaliera” quale parametro fisso ed inderogabile, sintomatico della destinazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope all’uso personale), sollevata per la prospettata violazione dei principi di parità di trattamento e di ragionevolezza della norma penale incriminatrice, nella parte in cui le disposizioni anzidette non escludevano la illiceità penale delle condotte di coltivazione o fabbricazione di sostanze stupefacenti o psicotrope univocamente destinate all’uso personale proprio.
Rilevò in quell’occasione il Giudice delle leggi che il remittente [anche quella volta il G.I.P. del Tribunale di Savona] aveva del tutto omesso la previa verifica della possibilità di una esegesi adeguatrice delle norme impugnate, non essendosi posto il problema “se, proprio alla luce, e nel quadro del riferito ius superveniens, l’operata depenalizzazione della condotta di chi … comunque detiene sia già interpretativamente estensibile alle condotte di chi coltiva e fabbrica (le sostanze in oggetto per il fine indicato) quale previste dalla normativa denunciata); ciò “a fortiori quando, come nella specie, i primi interventi giurisprudenziali e dottrinali già risultino orientati proprio nel senso della interpretazione conforme al precetto costituzionale”.
Venne suggerita così la possibilità di ritenere che le condotte di coltivazione per uso personale potessero essere sottratte, unitamente a quelle di importazione, acquisto o detenzione per il medesimo fine, alla sfera dell’illiceità penale.
Questa Corte di Cassazione, però, solo qualche mese dopo tale decisione – con le sentenze della IV Sezione 4.12.1993, n. 11138, Gagliardi e 5.5.1995, n. 913, P.G. in proc. Paoli – ritenne di non adeguarsi a tale interpretazione adeguatrice, argomentando essenzialmente sulla natura di reato di pericolo della “coltivazione” e sulla non assimilabilità della coltivazione stessa alla “detenzione”, così contrastando le aperture che avevano invece caratterizzato la giurisprudenza di merito. Venne dunque riproposta la questione di legittimità costituzionale dell’art. 75 del D.P.R. n. 309 del 1990, come modificato dal D.P.R. n. 171/1993, sollevata in relazione agli artt. 3, 13, 25 e 27 della Costituzione, e la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 1995 – alla luce dell’interpretazione restrittiva fornita da questa Corte di legittimità – ne dichiarò l’infondatezza.
La Consulta ritenne la questione non fondata, evidenziando l’insussistenza della denunciata disparità di trattamento in ragione della non comparabilità della condotta delittuosa di “coltivazione”, prevista dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, con alcuna di quelle allegate dal giudice remittente come tertia comparationis ed argomentò, in particolare, che “la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso, e ciò rende non irragionevole un atteggiamento meno rigoroso del legislatore nei confronti di chi, ponendo in essere una condotta direttamente antecedente al consumo, ha già operato una scelta che, ancorché valutata sempre in termini di illiceità, l’ordinamento non intende contrastare nella più rigida forma della sanzione penale, venendo in rilievo, in un contesto emergenziale di contingente aggravamento delle conseguenze delle tossicodipendenze, il rischio alla salute dell’assuntore ove ogni condotta immediatamente antecedente al consumo fosse assoggettata a sanzione penale. Invece, nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore, rientrando nella discrezionalità del legislatore anche la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di sostanze stupefacenti per uso personale. Per altro verso la scelta della non criminalizzazione del consumo in sé (che rappresenta una nota costante di tale disciplina di settore, pur nelle alterne formulazioni ispirate a maggiore o minor rigore) implica necessariamente anche, in qualche misura, la non rilevanza penale di comportamenti immediatamente precedenti, essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione. La linea di confine di queste condotte che, per il fatto di approssimarsi all’area di non illiceità penale (quella del consumo), si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza, è stata segnata prima dalla modica quantità, poi dalla dose media giornaliera, infine dall’uso personale; ma si tratta pur sempre di una sorta di cintura protettiva del nucleo centrale (id est il consumo) per evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti – che il legislatore ha ritenuto da ultimo di contrastare appunto con la comminatoria di sanzioni solo amministrative per le condotte ritenute più immediatamente antecedenti – possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. La coltivazione invece è esterna a quest’area contigua al consumo e ciò già di per sé rende ragione sufficiente di una disciplina differenziata. Né va taciuto che la stessa destinazione ad uso personale si presta ad essere apprezzata in termini diversi nelle situazioni qui comparate. Infatti nella detenzione, acquisto ed importazione il quantitativo di sostanza stupefacente è certo e determinato e consente, unitamente ad altri elementi attinenti alle circostanze soggettive ed oggettive della condotta, la valutazione prognostica della destinazione della sostanza. Invece, nel caso della coltivazione, non è apprezzabile ex ante con sufficiente grado di certezza la quantità di prodotto ricavabile dal ciclo più o meno ampio della coltivazione in atto, sicché anche la previsione circa il quantitativo di sostanza stupefacente alla fine estraibile dalle piante coltivate, e la correlata valutazione della destinazione della sostanza stessa ad uso personale, piuttosto che a spaccio, risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili; e ciò ridonda in maggiore pericolosità della condotta stessa, anche perché – come ha rilevato la stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione – l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili e quindi ha una maggiore potenzialità diffusiva delle sostanze stupefacenti estraibili”.
La sentenza n. 360 del 1995 evidenziò altresì che la persistente illiceità penale della coltivazione, anche qualora univocamente destinata all’uso personale ed indipendentemente dalla quantità di principio attivo prodotto, resisteva anche alla verifica condotta (ex artt. 25 e 27 Cost.) alla stregua del principio di offensività, rilevando che “la verifica del rispetto del principio dell’offensività come limite di rango costituzionale alla discrezionalità del legislatore ordinario nel perseguire penalmente condotte segnate da un giudizio di disvalore implica la ricognizione della astratta fattispecie penale, depurata dalla variabilità del suo concreto atteggiarsi nei singoli comportamenti in essa sussumibili. Operata questa astrazione degli elementi essenziali del delitto in esame, risulta una condotta (quella di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti) che ben può valutarsi come pericolosa, ossia idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga; tanto più che – come già rilevato – l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo, connotato dalla necessaria offensività proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica – sottesa alla astratta fattispecie criminosa – di attentato al bene giuridico protetto. E – come già questa Corte ha avuto occasione di rilevare (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991; ma cfr. anche sentenza n. 62 del 1986) – non è incompatibile con il principio di offensività la configurazione di reati di pericolo presunto; né nella specie è irragionevole od arbitraria la valutazione, operata dal legislatore nella sua discrezionalità, della pericolosità connessa alla condotta di coltivazione. Diverso profilo è quello dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata; ove questa sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato (come nel caso – prospettato dal giudice rimettente – della coltivazione in atto, e senza previsione di ulteriori sviluppi, di un’unica pianta da cui possa estrarsi il principio attivo della sostanza stupefacente in misura talmente esigua da essere insufficiente, ove assunto, a determinare un apprezzabile stato stupefacente), viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta, proprio perché la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile (art. 49 cod. pen.). La mancanza dell’offensività in concreto della condotta dell’agente non radica però alcuna questione di costituzionalità, ma implica soltanto un giudizio di merito devoluto al giudice ordinario (sentenze n. 133 del 1992 e n. 333 del 1991 già citate)”.
Pur dopo avere ammesso espressamente la configurabilità della condotta di “coltivazione” anche in relazione alla coltivazione domestica di un’unica pianta, la Corte costituzionale precisò che “costituisce poi questione meramente interpretativa, rimessa altresì al giudice ordinario, la identificazione, in termini più o meno restrittivi, della nozione di coltivazione che, sotto altro profilo, incide anch’essa sulla linea di confine del penalmente illecito”.
Alle valutazioni svolte nella sentenza n. 360 del 1995 si sono poi riportate le successive decisioni in tema (ordinanze n. 150 e n. 414 del 1996), in difetto di argomenti nuovi o di nuovi profili di censura. Con la sentenza n. 296 del 1996, la Corte costituzionale ha avuto ancora modo di evidenziare che dal novero delle condotte contemplate dall’art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, il successivo art. 75 ne estrapola tre – l’importazione, l’acquisto e la detenzione – per riferirle ad una finalità specifica dell’agente, che è quella di farne uso personale. Per effetto dell’esito referendario “le tre condotte contemplate dall’art. 75, ove finalizzate all’uso personale, sono state interamente attratte nell’area dell’illecito amministrativo, divenendo estranee all’area del penalmente rilevante; in tal modo è risultata anche in parte modificata la stessa strategia di (confermato) contrasto della diffusione della droga nel senso che è stata isolata la posizione del tossicodipendente (e anche del tossicofilo) rendendo tale soggetto destinatario soltanto di sanzioni amministrative – significative peraltro del perdurante disvalore attribuito alla attività di assunzione di sostanze stupefacenti – ma non anche di sanzione penale. Ciò però non sulla base soggettiva dell’autore della condotta, quasi si trattasse di una immunità personale, bensì sulla base oggettiva della condotta stessa (quale specificata nell’art. 75 nelle tre ipotesi suddette) e dell’elemento teleologico (della destinazione della droga ad uso personale). In tal modo – come questa Corte ha già puntualizzato (sentenza n. 360 del 1995) – ne risulta tracciata una cintura protettiva del consumo, volta ad evitare il rischio che l’assunzione di sostanze stupefacenti possa indirettamente risultare di fatto assoggettata a sanzione penale. In quest’area di rispetto ricadono comportamenti immediatamente precedenti essendo di norma la detenzione (spesso l’acquisto, talvolta l’importazione) l’antecedente ultimo dell’assunzione; ed è l’elemento teleologico della destinazione della droga all’uso personale ad assicurare (secondo l’id quod plerumque accidit) tale nesso di immediatezza. Ove invece non ricorra l’elemento oggettivo (di una delle tre condotte tipizzate nell’art. 75 cit.) o quello teleologico (appena ricordato) si ricade nell’area dell’illecito penale. Ciò anche nell’ipotesi di una condotta, quale quella della coltivazione di piante da cui si possono estrarre i principi attivi di sostanze stupefacenti al fine di fare uso personale delle stesse, che si approssima notevolmente a tale cintura protettiva, ma ne rimane pur sempre all’esterno, mancando la puntuale e rigorosa identificazione di uno dei due requisiti prescritti: condotta questa la cui perdurante rilevanza penale è stata ritenuta proprio per tale ragione non illegittima da questa Corte nella citata sentenza n. 360 del 1995”.
4. Tenuto conto delle argomentazioni del Giudice delle leggi dianzi compendiate ed a fronte dei due orientamenti della giurisprudenza di legittimità dianzi illustrati, ritengono queste Sezioni Unite di affermare il principio secondo il quale costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.
Valgono, al riguardo, le seguenti considerazioni:
a) Devono ribadirsi anzitutto gli argomenti svolti dalla Corte Costituzionale, nella sentenza n. 360 del 1995, con riferimento alla mancanza di nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale ed alla impossibilità di determinare “ex ante” la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, così da rendere ipotetiche e comunque meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione.
Non appaiono condivisibili, in proposito, le riflessioni della sentenza Notaro (n. 17983/07), che considerano “improprie” le argomentazioni anzidette, perché perverrebbero “ad una scelta ermeneutica … sulla base di un assetto interpretativo non proprio corrispondente agli effettivi risultati cui era giunta la giurisprudenza ordinaria”, per di più in contrasto con le conclusioni della stessa giurisprudenza costituzionale “in tema di differenza tra reati di pericolo astratto e reati di pericolo concreto”.
La Corte Costituzionale, infatti – come si è illustrato dianzi, al paragrafo 3 – tenne ben presente, al momento della decisione, sia la esistenza di un orientamento giurisprudenziale orientato a ritenere la coltivazione per uso personale depenalizzata all’esito del referendum del 1993 ed assoggettabile pertanto alle sole sanzioni amministrative, sia la diversa interpretazione restrittiva privilegiata da questa Corte di Cassazione.
Quanto poi alla valutazione della esposizione a pericolo degli interessi oggetto di tutela, la giurisprudenza costituzionale è ferma nel ritenere che i reati di pericolo presunto non sono astrattamente incompatibili con il principio di offensività.
La condotta di coltivazione (punibile fino dal momento di messa a dimora dei semi) si caratterizza, rispetto agli altri delitti in materia di stupefacenti, quale fattispecie contraddistinta da una notevole “anticipazione” della tutela penale e dalla valutazione di un “pericolo del pericolo”, cioè del pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti. In tale prospettiva, anche qualora si ritenga che la salvaguardia immediata della “salute individuale” costituisca, all’esito del referendum abrogativo del 1993, un aspetto della tutela penale in parte ridimensionato, la pericolosità della condotta di coltivazione si correla, nella valutazione della Corte Costituzionale, alle esigenze di tutela della “salute collettiva” connesse alla valorizzazione del “pericolo di spaccio” derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo dell’autorità.
La “salute collettiva” è bene giuridico primario che, anche secondo l’elaborazione dottrinale, legittima sicuramente il legislatore ad anticiparne la protezione ad uno stadio precedente il pericolo concreto.
Questa Corte Suprema, inoltre, a Sezioni Unite (Cass., Sez. Unite, 21.9.1998, Kremi), ha rilevato che i beni oggetto di tutela penale da parte delle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 73 del T.U. n. 309/1990 sono individuabili, oltre che nella salute pubblica, anche nella sicurezza e nell’ordine pubblico (in tal senso si è pure espressa la Corte Costituzionale con la sentenza n. 333/1991), nonché nella salvaguardia delle giovani generazioni, e può sicuramente affermarsi che l’implemento del mercato degli stupefacenti costituisce anche causa di turbativa per l’ordine pubblico e di allarme sociale.
b) Va evidenziato poi che la condotta di “coltivazione”, anche dopo l’intervento normativo del 2006, non è stata richiamata nell’art. 73, comma 1bis, né nell’art. 75, comma 1, ma solo nel comma 1 dell’art. 73 del novellato D.P.R. n. 309/1990.
Il legislatore, pertanto, ha voluto attribuire a tale condotta comunque e sempre una rilevanza penale, quali che siano le caratteristiche della coltivazione e quale che sia il quantitativo di principio attivo ricavabile dalle parti delle piante da stupefacenti.
Imprescindibile è, al riguardo, il rispetto delle garanzie di riserva di legge e di tassatività, tenuto conto che il c.d. problema della droga presenta il pericolo effettivo che la carica ideologica ad esso inerente, in senso vuoi libertario vuoi conservatore e repressivo, induca a risolverlo con schemi di ampliamento e dilatazione ovvero per contro riduttivi. Deve essere pertanto circoscritta al legislatore e ad esso soltanto la responsabilità delle scelte circa i limiti, gli strumenti, le forme di controllo da adottare.
c) E’ agevole ricavare dall’art. 75 del D.P.R. n. 309/1990 (ed in claris non fit interpretatio) l’esclusione dal regime dell’uso personale di tutte le altre condotte previste dall’art. 73, ad eccezione dell’importazione, acquisto o comunque della detenzione; vale a dire le condotte di chiunque “coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, esporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo”.
Il precedente art. 28, del resto, prevede espressamente l’assoggettabilità alle sanzioni anche penali stabilite per la fabbricazione illecita di chiunque, senza essere autorizzato, “coltiva le piante indicate nell’art. 36”.
d) Arbitraria deve ritenersi la distinzione tra “coltivazione in senso tecnico-agrario” ovvero “imprenditoriale” e “coltivazione domestica” ed essa non è legittimata dal dato letterale della norma, che non prevede alcuna specificazione del termine lessicale.
L’art. 26 del D.P.R. n. 309/1990 (sotto il capo “Della coltivazione e produzioni vietate”) pone il divieto generale ed assoluto di coltivare le piante comprese nella tabella I di cui all’art. 14 (fra le quali è annoverata anche la cannabis indica), salvo il potere del Ministro della salute di autorizzare “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca alla coltivazione delle piante … per scopi scientifici, sperimentali e didattici”.
Deve ritenersi vietata, pertanto, qualunque forma di coltivazione delle piante stupefacenti indicate nella tabella I – non necessariamente connotata (poiché la legge non lo prevede) da aspetti di imprenditorialità ovvero dalle caratteristiche proprie della coltivazione “tecnico-agraria” – fatta eccezione soltanto per quella “per scopi scientifici, sperimentali e didattici” assentibile con autorizzazione in favore di “istituti universitari e laboratori pubblici aventi fini istituzionali e di ricerca”.
Il fatto che nei successivi artt. 27-29 e 30 d.P.R. n. 309 del 1990 siano previste norme particolari per la concessione delle autorizzazioni alla coltivazione (quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti) non può essere interpretato nel senso che le attività di coltivazione che non abbiano requisiti siffatti non siano soggette ad autorizzazione, e quindi siano lecite, ma solo che l’autorizzazione, per usi di ricerca o didattici, può essere concessa esclusivamente in presenza di questi elementi, sicché mai potrebbe essere autorizzata una coltivazione domestica per uso personale.
e) Qualsiasi tipo di coltivazione è caratterizzato da un dato essenziale e distintivo rispetto alle fattispecie di detenzione, che è quello di contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente, sì da meritare un trattamento sanzionatorio diverso e più grave.
La coltivazione, inoltre, presenta la peculiarità ulteriore di dare luogo ad un processo produttivo astrattamente capace di “autoalimentarsi” attraverso la riproduzione dei vegetali.
Con tali affermazioni non si opera “una confusione del fine nella struttura del precetto penale” né si accentra l’esame sul profilo teleologico, per poi pervenire, proprio attraverso di esso, alla ricostruzione strutturale della coltivazione (come viene contestato nella sentenza Notaro), ma si dà esclusivamente conto della ratio del diverso trattamento sanzionatorio, in un contesto normativo nel quale neppure appaiono condivisibili le considerazioni svolte nella sentenza medesima circa la “indeterminatezza della natura dell’offesa”.
Nel caso, poi, in cui il coltivato (o parte di esso) sia stato raccolto, la successiva detenzione del prodotto della coltivazione per finalità di uso personale non comporta la sopravvenuta irrilevanza penale della precedente condotta di coltivazione, con inammissibile “assorbimento” nella fattispecie amministrativa dell’illecito penale, che è autonomo anche sotto il profilo temporale.
5. Residua un’ultima notazione circa la necessità, in ogni caso, della verifica – demandata al giudice del merito – dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata.
Il principio di offensività – in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (“nullum crimen sine iniuria”) – secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, opera su due piani, “rispettivamente, della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo, o comunque la messa in pericolo, di un bene o interesse oggetto della tutela penale (offensività in astratto), e dell’applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato” (così testualmente Corte Cost. n. 265/05 e, in senso conforme, vedi pure le decisioni nn. 360/95, 263/00, 519/00, 354/02).
Nella specie la Corte Costituzionale, come già si è detto, con la sentenza n. 360 del 1995, ha ritenuto che la condotta di coltivazione di piante da cui sono estraibili i principi attivi di sostanze stupefacenti integra un tipico reato di pericolo presunto, connotato dalla necessaria offensività della fattispecie criminosa astratta.
In ossequio, però, al principio di offensività inteso nella sua accezione concreta, spetterà al giudice verificare se la condotta, di volta in volta contestata all’agente ed accertata, sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva.
La condotta è “inoffensiva” soltanto se il bene tutelato non è stato leso o messo in pericolo anche in grado minimo (irrilevante, infatti, è a tal fine il grado dell’offesa), sicché, con riferimento allo specifico caso in esame, la “offensività” non ricorre soltanto se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile.
6. Il ricorso del P.G., per tutte le argomentazioni dianzi svolte, deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere annullata, con rinvio per nuova deliberazione al Tribunale di Savona ai sensi dell’art. 623, lett. d), c.p.p.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,
visti gli artt. 608, 611 e 623, lett. d), c.p.p.,
annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Savona per nuova deliberazione.
Così deliberato in camera di consiglio, il 24 aprile 2008
Il Consigliere estensore Il Presidente
(Aldo Fiale) (Vincenzo Carbone)