sabato 21 giugno 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli
Usare software senza licenza negli studi professionali costituisce reato e non mero illecito amministrativo. Secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte, a seguito della riforma della legge sul diritto d'autore, per integrare il reato non è più necessaria la sussistenza del "fine di lucro", essendo sufficiente il "fine di trarne profitto". Va dunque ritenuto responsabile il titolare dello studio professionale anche qualora i software senza licenza vengano utilizzati esclusivamente per scopi professionali interni allo studio medesimo.
Cassazione - Sezione terza - sentenza - 19 giugno 2008, n. 25104
Presidente Altieri - Relatore Amoresano Pm conforme - Ricorrente M.
Osserva
1) Con sentenza del 25.6.2007 il GUP del Tribunale di Lecco applicava a M. Giorgio, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche e ritenuta la diminuente per la scelta del rito, la pena concordata ex art. 444 c.p.p. di euro 9.400,00 di multa (di cui euro 5.400,00 in sostituzione di mesi 4 di reclusione) per il reato di cui all'art. 171 bis comma 1 L. L.633/1941, come modif. dalla L.248/2000, per avere, al fine di trarne profitto, duplicato e riprodotto programmi software, di proprietà della società Microsoft Italia spa ed Autodesk inc, Adobe System Incorporeted, Symantec Corporation, senza averne acquistato la licenza d'uso.
Propone ricorso per cassazione il M. , a mezzo del difensore, per violazione di legge (art.606 comma 1 lett. b) in relazione alla mancata applicazione dell'art. 129 c.p.p. stante l'insussistenza dell'ipotesi contestata a carico del ricorrente (dallo stesso tenore letterale dell'art. 171 bis L. 633/41 risulta che la norma mira a colpire esclusivamente l'illecita riproduzione di software finalizzata al commercio, mentre il M. si avvaleva degli stessi nello studio privato e per scopi professionali interni allo studio medesimo); in via gradata era configurabile un'ipotesi di responsabilità ex art. 174 ter comma 1 L. 633/41, che punisce con la sola sanzione amministrativa l'abusivo utilizzo, per esclusivi fini professionali, di prodotti informatici, privi della licenza d'uso.
Con il secondo motivo denuncia il difetto di motivazione in ordine al dolo specifico richiesto dalla norma, essendosi il GUP limitato a richiamare il fatto materiale dell'assenza di alcune licenze di software, attribuendo una sorta di responsabilità oggettiva al titolare dello studio.
2) Va premesso che l'applicazione della pena su richiesta delle parti è un meccanismo processuale in virtù del quale l'imputato ed il pubblico ministero si accordano sulla qualificazione giuridica della condotta contestata, sulla concorrenza di circostanze, sulla comparazione delle stesse, sull'entità della pena, su eventuali benefici. Da parte sua il giudice ha il potere-dovere di controllare l'esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta e di applicarla dopo aver accertato che non emerga in modo evidente una della cause di non punibilità previste dall'art. 129 c.p.p. Ne consegue che, una volta ottenuta l'applicazione di una determinata pena ex art. 444 cpp, l'imputato non può rimettere in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie perché essi sono coperti dal patteggiamento.
Con il ricorso per cassazione, pertanto, possono essere fatti valere errores in procedendo ed il mancato proscioglimento ex art. 129 c.p.p. È giurisprudenza consolidata di questa Corte che nell'ipotesi di concordato di applicazione pena ex art. 444 c.p.p. o ex art. 599 c.p.p. la motivazione del giudice sull'assenza dei presupposti che legittimano l'operatività di una delle cause di non punibilità previste dall'art.129 c.p.p. può essere anche meramente enunciativa o implicita. Il giudice è tenuto, cioè, a controllare l'inesistenza di una delle cause di non punibilità, ma può enunciare , con motivazione anche implicita, che è stata compiuta la verifica richiesta dalla legge (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 2 n. 14023 del 3.2.2004; conf. Cass. en. sez.6 n. 41712 del 2.10.2006).
2.1) Tanto premesso, osserva il Collegio che i motivi di ricorso appaiono manifestamente infondati, avendo il giudice, nell'applicare la pena concordata, congruamente, nei termini sopra indicati, e correttamente motivato in ordine alla insussistenza delle condizioni per l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. Per la configurabilità del reato del reato di cui all'art. 171 bis non è richiesto, infatti, che la riproduzione dei software sia finalizzata al commercio, essendo sufficiente il fine di profitto, come contestato, né il dolo specifico del fine di lucro.
Ha più volte affermato questa Corte che, a seguito della modifica del primo comma dell'art. 171 bis L. 27 aprile 1941 n. 633 (apportata dall'art. 13 L. 18 agosto 2000 n. 248), non è più previsto il dolo specifico del "fine di lucro" ma quello del "fine di trarne profitto"; si è, quindi, determinata un'accezione più vasta che non richiede necessariamente una finalità direttamente patrimoniale ed amplia quindi i confini della responsabilità dell'autore (cfr. ex multis Cass. pen. sez. 3, del 6.9.2001 n. 33303; Cass. pen. sez. 3, 9.1.2007 n. 149).
La detenzione e l'utilizzo di numerosi programmi software, illecitamente riprodotti, nello studio professionale rende manifesta la sussistenza del reato contestato, sotto il profilo oggettivo e soggettivo.
Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento della somma che pare congruo determinare in euro 1.500,00 (art. 616 c.p.p.).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento alla cassa delle ammende della somma di euro 1.500,00.