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Cassazione Civile, Sez. Lavoro, Sent. 27 maggio 2008, n. 13816
lunedì 16 giugno 2008 - Pubblicazione a cura di Angela Lorusso

Lavoro - Retribuzione - Modalità di pagamento - Prassi aziendale - Modifiche
Al fine di modificare le modalità di pagamento delle retribuzioni osservate per prassi aziendale recepita nei contratti individuali ai sensi dell'art. 1340, C. C., il consenso delle parti è necessario solamente per effettuare modifiche peggiorative, non invece qualora l'innovazione introdotta dal datore di lavoro sia più favorevole ai lavoratori rispetto alla precedente prassi.


CASSAZIONE CIVILE, SEZ. LAVORO, 27 maggio 2008, n. 13816
 
SCIARELLI Guglielmo - Presidente
IANNIELLO Antonio - Estensore
SALVI Giovanni - P.M.
B. M. c. ENEL PRODUZIONE S.P.A.
 
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 18 aprile 2001, il Tribunale di Rovigo, adito quale giudice del lavoro, aveva accolto le domande proposte dai nominativi in epigrafe indicati, tutti dipendenti della s.p.a. ENEL, di accertamento dell'illegittimità dell'iniziativa della datrice di lavoro, adottata a partire dal mese di gennaio 1997, di pagare le retribuzioni mensili del personale non più a mezzo di assegni circolari, ma mediante bonifici bancari sul conto corrente bancario di ciascuno dei dipendenti, ordinando conseguentemente alla società di provvedere al pagamento delle retribuzioni secondo le modalità precedenti.
A seguito dell'appello proposto dalla società, la sentenza del Tribunale è stata riformata dalla Corte d'appello di Venezia con sentenza depositata il 17 luglio 2004, la quale ha respinto le domande svolte dai lavoratori col ricorso ex art. 414 c.p.c..
Pur ritenendo sussistente un precedente uso aziendale nel senso del pagamento dello stipendio mediante assegni circolari, penetrato nei contratti di lavoro dei dipendenti ENEL a norma dell'art. 1340 cod. civ. e pertanto modificabile solo col consenso delle parti del singolo contratto, la Corte territoriale ha ritenuto che tale consenso sia necessario unicamente nel caso in cui si tratti di modiche in pejus ed ha valutato quella operata dalla società come arrecante ai dipendenti un disagio minore della precedente prassi.
Avverso tale sentenza propongono tempestivo ricorso per cassazione i dipendenti in epigrafe indicati con un unico motivo.
Resiste alla domanda la società con un proprio rituale controricorso contenente altresì ricorso incidentale avverso la sentenza, con un unico motivo e depositando successivamente una memoria difensiva ai sensi dell'art. 378 c.p.c..
 
MOTIVI DELLA DECISIONE
I due ricorsi, principale ed incidentale vanno riuniti attenendo alla impugnazione della medesima sentenza.
Col ricorso principale, i dipendenti in epigrafe indicati deducono l'omessa e contraddittoria motivazione della sentenza circa punti decisivi nonchè la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2099 e 1340 cod. civ..
Censurano come contraddittorio il passaggio della sentenza in cui gli usi aziendali vengono ritenuti derogabili unilateralmente in melius e inoltre e comunque sostengono che la modifica era nel caso in esame peggiorativa.
Col ricorso incidentale, la società deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1340 e 2697 cod. civ. nonchè l'omessa e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo.
In primo grado la società aveva fatto presente che la prassi indicata dai ricorrenti non esisteva, in quanto al dicembre 1996 più del 90% dei dipendenti percepiva lo stipendio mediante accredito in conto corrente, come sarebbe stato confermato dai testi escussi. La Corte territoriale aveva accertato siffatta realtà, ma l'aveva erroneamente interpretata come il risultato della somma di modificazioni della precedente prassi concordate a livello individuale con la maggior parte dei dipendenti.
Inoltre, la società ha dedotto che i ricorrenti non avrebbero assolto all'onere di provare l'esistenza di un uso aziendale nel senso da loro indicato.
Ma anche a voler ritenere che la prassi di pagare la retribuzione mediante assegni circolari fosse esistita in passato, l'ENEL assume che essa si sarebbe modificata nel tempo, fino a essere sostituita da quella relativa all'accredito bancario, anche perchè si tratterebbe di una modificazione in melius. Da qui la ritenuta valenza normativa della modifica in senso più favorevole della prassi precedente.
Il ricorso principale è infondato con conseguente venir meno dell'interesse all'accoglimento di quello incidentale, da ritenere pertanto assorbito.
Come accennato, in ambedue i gradi di giudizio le parti ed i giudici hanno valutato che la materia del contendere coinvolga la tematica dei cd. usi aziendali e la loro eventuale rilevanza sul piano della disciplina dei rapporti di lavoro.
Il dato di partenza di tale tematica, di origine giurisprudenziale, è costituito dall'esigenza di chiarire la qualificazione giuridica e gli effetti, sul piano della disciplina dei rapporti di lavoro istaurati nell'ambito di una medesima azienda, della reiterazione da parte del datore di lavoro, senza che ciò costituisca adempimento di un obbligo legale o contrattuale preesistente, di un comportamento favorevole nei confronti della generalità o comunque di una pluralità omogenea di lavoratori da esso dipendenti.
Già questo dato di connotazione della fattispecie, implicante un trattamento (economico o normativo) per i dipendenti più favorevole rispetto a quello previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale, dovrebbe indurre a ritenere che nel caso in esame siamo al di fuori di essa, quale che sia la sua disciplina giuridica.
Il giudizio verte infatti sul tema dei limiti di modificabilità di una prassi relativa alle modalità di erogazione della retribuzione mediante assegni circolari, prassi di cui non è indicato nè è percepibile in che senso essa sia più favorevole rispetto alla legge o alla contrattazione collettiva.
In realtà, il fenomeno qui considerato trova la sua specifica disciplina nell'art. 2099 cod. civ., secondo cui la retribuzione deve essere corrisposta "con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito ", pertanto secondo l'uso locale di fatto che si forma al di fuori del contratto di lavoro del quale costituisce in materia fonte eteronoma, il cui contenuto si modifica col modificarsi dei comportamenti relativi a livello locale.
Ne consegue che nel caso in esame, in cui è pacifico che localmente, aziendalmente e addirittura in maniera generalizzata a livello nazionale (come costituente sostanzialmente fatto notorio) le prassi prevalenti sono diventate da tempo quelle del pagamento delle retribuzioni mediante accredito su conto corrente bancario, il ricorso si appalesa infondato.
Le conclusioni così raggiunte non mutano peraltro ove si ragioni in termini di usi aziendali, al livello attuale in cui è giunta l'elaborazione teorica relativa.
Questi hanno infatti posto alla giurisprudenza l'interrogativo del meccanismo giuridico del loro divenire norma disciplinante anche per il futuro i rapporti di lavoro dei soggetti beneficiari, ma anche, eventualmente, i rapporti di altri che vengano a far parte della categoria beneficiata in un momento successivo.
Abbandonata la tesi che aveva qualificato la fattispecie in termini di uso normativo (di cui all'art. 8 preleggi e art. 2078 cod. civ., tesi seguita ad es. da Cass. 17 aprile 1984 n. 2498) - come tale, inserito in tutti i contratti di lavoro dell'azienda ai sensi dell'art. 1374 cod. civ. -, in quanto della consuetudine difettano i necessari caratteri della generalità e dell'opimo iuris et necessitatis e divenuta recessiva quella degli usi interpretativi rilevanti ex art. 1368 c.c. (cfr. Cass. 13 aprile 1993 n. 4365) in quanto riferibile ad una problematica diversa da quella in esame, si era affermato come prevalente in giurisprudenza l'orientamento che ritiene l'uso aziendale espressivo di un uso negoziale o di fatto, pertanto chiamato dall'art. 1340 cod. civ. ad integrare le clausole del contratto di lavoro, in difetto della contraria volontà delle parti (cfr., per tutte, Cass. S.U. 1 aprile 1994 n. 3224 e 17 marzo 1995 n. 3101).
Come è noto, gli usi negoziali o di fatto sono quelli praticati in maniera costante e generalizzata da una determinata cerchia di contraenti per regolare in maniera uniforme gli affari tra di loro correnti.
Proprio perchè normali in una certa zona o in un certo settore di affari, essi si inseriscono automaticamente nei contratti stipulati nell'ambito di quella determinata cerchia di contraenti, salvo che i singoli contraenti lo escludano espressamente o per fatti concludenti.
Secondo la giurisprudenza che qualifica le prassi aziendali come usi negoziali, questi potrebbero formarsi anche solo nell'ambito di una azienda nei confronti della totalità o di una pluralità di dipendenti; per la loro formazione sarebbero irrilevanti i requisiti dell'uso normativo e non assumerebbe rilievo neppure l'intenzione dell'autore della reiterazione di comportamenti di modificare o integrare per tale via i contratti individuali di lavoro (cfr. Cass. 18 agosto 2004 n. 16171; 3 giugno 2004 n. 10591, 5 febbraio 2002 n. 1693, 2 agosto 2002 n. 11607, 25 luglio 2000 n. 9764).
Requisito indefettibile della fattispecie degli usi aziendali, come sottospecie di quelli negoziali, sarebbe rappresentato unicamente dall'assenza di un obbligo legale o contrattuale di cui il comportamento reiterato costituisca adempimento e la conseguente spontaneità di quest'ultimo, risultante a posteriori dall'apprezzamento globale della prassi già consolidata (Cass. 17 maggio 2002 n. 7200).
Divenendo clausola del contratto individuale, l'uso potrebbe derogare alla disciplina del contratto collettivo solo in melius (Cass. S.U. 23 agosto 1990 n. 8573 e 3101/95, cit. nonchè, più recentemente, 2 agosto 2000 n. 10150, 12 agosto 2000 n. 10783, 11 agosto 2000 n. 10642) e la relativa disposizione potrebbe essere modificata in peius solo per effetto di un patto individuale contrario, restando viceversa insensibile alle modifiche peggiorative della contrattazione collettiva e a maggior ragione a quelle unilaterali del datore di lavoro (Cass. 25 gennaio 1993 n. 823).
Tutti i passaggi argomentativi di tale costruzione sono stati vivacemente contestati dalla dottrina pressochè unanime.
In particolare, le critiche si sono appuntate sulla pretesa di configurare le prassi formatesi nell'ambito di una unica azienda nei termini considerati dall'art. 1340 c.c. e comunque è stato rilevato che il richiamo a tale norma del codice civile non appare in grado di spiegare in maniera ragionevole gli effetti dell'uso aziendale sui contratti di lavoro già in corso al momento della sua formazione (sull'argomento cfr. Cass. n. 9660/96).
E' stato altresì rilevato che il requisito della mera spontaneità richiesto per la formazione dell'uso aziendale, ove letto in termini di mera mancanza di un obbligo, finisca per creare confusione con la fattispecie di indebito, quantomeno con riferimento ai primi atti che concorrono alla progressiva formazione dell'uso. Col risultato paradossale che questi primi atti comporterebbero la possibile ripetizione di quanto con essi erogato come indebito e insieme concorrerebbero a formare un uso che si farà norma per i destinatari che verranno.
Considerando allora la spontaneità come liberalità, sorgerebbe l'ulteriore difficoltà di spiegare, sul piano dogmatico, come un atto di liberalità si trasformi nel tempo automaticamente in atto dovuto (ma distingue tra spontaneità e liberalità, ad es., Cass. 2 settembre 1996 n. 8027).
Infine l'assoluta impermeabilità delle prassi aziendali alle vicende della contrattazione collettiva anche aziendale e insieme la possibilità per il datore di lavoro, a norma dell'art. 1340 c.c., di evitarne l'automatica inclusione nella disciplina dei futuri contratti di lavoro finisce, secondo la dottrina, per tradire l'originaria ispirazione di favorire la necessaria uniformità di trattamento dei rapporti di lavoro all'interno dell'azienda.
Per sfuggire ad alcune di tali contraddizioni, una autorevole dottrina ha tentato una spiegazione del fenomeno in termini di tacita proposta di contratto o di modifica contrattuale con obbligazioni per il solo preponente, accettata altrettanto tacitamente o non rifiutata dai singoli beneficiari, secondo il meccanismo di cui all'art. 1333 cod. civ..
Col vantaggio di un approfondimento nella ricerca dell'effettiva volontà del proponente espressa nella prassi nonchè con un'adeguata considerazione dell'affidamento che in buona fede tale prassi è idonea a determinare.
Ma la tesi non evita la permanente incongruenza di consentire radicate disparità di trattamento tra vecchi e nuovi assunti (con riguardo a questi ultimi essendo possibile all'imprenditore escludere l'offerta dell'obbligazione derivante dalla prassi) tanto più con riferimento ad un comportamento imprenditoriale fino ad un certo momento diretto alla collettività aziendale o ad un segmento omogeneo di essa.
Quest'ultimo rilievo, in particolare, ha determinato nel tempo la crescita di un orientamento giurisprudenziale che era minoritario (cfr. Cass. 6 novembre 1996 n. 9690 e le sentenze ivi citate in motivazione), ma che recentemente sembra prendere il sopravvento su quello in precedenza maggioritario (cfr., ex plurimis, Cass. 13 dicembre 2007 n. 26107, 11 luglio 2007 n. 15489, 20 maggio 2004 n. 9626, 10 novembre 2000 n. 14606 ed estesamente Cass. 17 febbraio 2000 n. 1773) e che questo Collegio condivide, il quale valorizza esplicitamente la dimensione collettiva del fenomeno considerato, emancipandolo dal richiamo alle categorie civilistiche e dalla prospettiva puramente negoziale e individuale, per attingere ai principi propri dell'ordinamento del lavoro.
Per spiegare pertanto l'efficacia normativa dell'uso aziendale nei confronti dei singoli contratti di lavoro in tutte le ipotesi possibili (comportamento generalizzato o viceversa ristretto ad alcune categorie omogenee di dipendenti dell'azienda o al verificarsi di eventi determinati, nei confronti di beneficiari attuali e anche di quelli futuri ipotetici, ancorchè non ancora assunti) si ricorre alla tesi della inclusione dell'uso aziendale tra le cd. fonti sociali eteronome del rapporto di lavoro, il quale - come i contratti collettivi ma anche l'unilaterale regolamento d'azienda -, essendo diretto a conseguire una disciplina uniforme dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori dell'azienda, agisce sul piano dei singoli rapporti di lavoro allo stesso modo e con la stessa efficacia del contratto collettivo aziendale.
Valorizzando il significato collettivo della reiterazione di comportamenti favorevoli, tale orientamento riconduce l'uso aziendale nell'ambito di una corretta dinamica delle relazioni industriali all'interno di una singola azienda, coi vantaggi di un controllo più efficace della uniformità dei trattamenti considerati e di una loro evoluzione integrata nel complesso delle materie appartenenti al naturale ambito delle trattative sindacali.
La natura di fonte sociale dell'uso aziendale (fatto-fonte, secondo Cass. n. 1773/1773, cit., mentre, in maniera più pertinente, Cass. 15489/07 e 9626/04 cit. ritengono che per la realizzazione della fattispecie sarebbe altresì necessario uno specifico intento negoziale) implica la sua modificabilità ad opera delle fonti collettive sopraordinate, come i contratti collettivi anche aziendali, secondo le regole in materia di successione degli stessi mentre esclude la modificabilità in peius ad opera di un uso successivo, soprattutto "perchè la nozione ontologica di uso aziendale presuppone un trattamento di maggior favore" (Cass. n. 1773/00 cit.), per cui solo un uso successivo più favorevole ai lavoratori si sostituisce a quello precedente.
Applicando i principi indicati al caso di specie, va richiamata la valutazione operata dal giudice di appello, relativa alla natura di maggior favore dell'uso successivo, congruamente motivata sia in termini di generalizzata diffusione del nuovo comportamento datoriale che in ragione del contenuto dello stesso, indicato in maniera dettagliata, valutazione di merito pertanto incensurabile in questa sede, in quanto priva di incongruenze o vizi logici.
Anche sotto l'aspetto considerato, di comportamento datoriale valutabile alla stregua della disciplina degli usi aziendali, il ricorso principale appare pertanto infondato e va respinto.
Resta assorbito l'esame del ricorso incidentale.
La problematicità dell'istituto oggetto della materia del contendere e l'alternanza di soluzioni in primo e secondo grado di merito consigliano l'integrale compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio di Cassazione.
 
P. Q. M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale; compensa integralmente tra le parti le spese di questo giudizio.