venerdì 6 giugno 2008 - Pubblicazione a cura di Tommaso Divincenzo
OSSERVAZIONI SUL DECRETO LEGGE N. 92/2008 IN MATERIA DI SICUREZZA
I
Le disposizioni di diritto penale
1. La previsione delle misure di sicurezza.
Il decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, contenente “Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica”, rappresenta un ennesimo intervento ‘manifesto’, estemporaneo ed emergenziale, che non solo tradisce, ancora una volta, l’ormai improcrastinabile necessità di avviare riforme organiche e strutturali nel settore della giustizia penale, ma che questo tradimento consuma attraverso scelte segnate da una preoccupante caratterizzazione in senso autoritario ed illiberale, qualificate da una logica puramente repressiva, che si mostra cedevole ad inquietanti tentazioni di un diritto penale del tipo d’autore.
L’art. 1 del d.l. n. 92/2008 apporta significative modifiche a disposizioni del codice penale, di parte generale e di parte speciale.
Due sono le linee direttrici che informano le scelte politico-criminali adottate dal governo, peraltro attraverso il (mai tanto) deprecato strumento della decretazione d’urgenza. Esse riguardano l’inasprimento del trattamento sanzionatorio nei confronti: 1) degli stranieri autori di reato; 2) dei soggetti in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope autori dei reati di omicidio colposo o di lesioni personali colpose, commessi con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale.
Nei confronti degli stranieri autori di reato, l’inasprimento del regime sanzionatorio viene attuato attraverso due strumenti, quelli delle misure di sicurezza e delle circostanze aggravanti.
Sul primo versante, l’art. 1, lett. a) e b), del d.l., sostituendo il testo degli artt. 235 e 312 c.p., prevede:
- l’ampliamento delle ipotesi in cui è consentita, a norma dell’art. 235 c.p., l’inflizione della misura di sicurezza dell’espulsione dallo Stato dello straniero extracomunitario (che diventa applicabile in caso di condanna alla reclusione superiore a due anni, e non già «non inferiore a dieci anni», come disponeva l’originario testo dell’art. 235 c.p.);
b) l’introduzione della misura di sicurezza dell’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino appartenente ad uno Stato membro dell’Unione europea che abbia riportato – per qualsiasi tipo di delitto – condanna alla reclusione per un tempo superiore a due anni, ovvero che sia stato condannato ad una pena restrittiva della libertà personale per uno dei delitti contro la personalità dello Stato (artt. 241-311 c.p.) previsti dal Titolo I del Libro II del codice penale (cfr. il nuovo testo dell’art. 312 c.p.). A tutela della effettività di queste sanzioni, vengono contemplate – rispettivamente, nel secondo comma degli artt. 235 e 312 c.p. – due figure di reato che puniscono (entrambe con la reclusione da uno a quattro anni) la trasgressione dell’ordine di espulsione (del cittadino extracomunitario) o di allontanamento (del cittadino dell’U.E.) emanato dal giudice ai sensi degli artt. 235, co. 1 e 312, co. 1 c.p.
E’ il caso di osservare, al riguardo, che – in seguito all’abrogazione dell’art. 204 c.p. ad opera dell’art. 31, legge 10 ottobre 1986 n. 633 (ma cfr., pure, Corte Cost. n. 58/95) e, dunque, alla eliminazione di tutte le fattispecie di pericolosità sociale presunta – anche le misure di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero extracomunitario e dell’allontanamento dal territorio stesso dello straniero comunitario (cioè del cittadino di altro Stato dell’U.E.) sono applicabili esclusivamente qualora il giudice accerti in concreto la pericolosità sociale del reo, cioè la probabilità che questi commetta in futuro nuovi reati (accertamento che deve essere effettuato al momento della condanna nonché, in base all’art. 679 c.p.p., al momento dell’esecuzione della misura che, a norma dell’art. 211, co. 1 c.p., ha luogo dopo che la pena detentiva è stata scontata o si è altrimenti estinta).
Inoltre, l’applicazione della nuova misura di sicurezza dell’allontanamento dal territorio dello Stato del cittadino di altro Stato membro dell’U.E. deve ritenersi soggetta ad un ulteriore condizione (pena l’illegittimità costituzionale dei novellati artt. 235 e 312 c.p., per contrasto con l’art. 117 Cost.): il rispetto degli (stretti) vincoli imposti dal diritto comunitario alla potestà degli Stati membri dell’Unione europea di limitare la libertà di circolazione di un cittadino dell’Unione stessa o di un suo familiare (anche se extracomunitario); vincoli stabiliti (oltre che dagli artt. 48 e 56 del Trattato CEE) dalla “Direttiva 2004/38/CE”, alla quale è stata data attuazione con il recente d.lgs. 6 febbraio 2007 n. 30.
2. L’aggravante della clandestinità
Per quanto riguarda, invece, il piano delle circostanze aggravanti, l’art. 1 lett. f) del d.l. in esame, inserendo nell’art. 61 c.p. il numero 11-bis, ha previsto una nuova circostanza aggravante che consiste nella commissione del fatto da parte di un soggetto che si trovi “illegalmente sul territorio nazionale”. Qualora il reato (qualsiasi reato!) venga commesso da un soggetto che versi in tale condizione – è bene ribadire: lo straniero clandestino (cioè il cittadino non italiano -extracomunitario o comunitario - che si trovi sul territorio nazionale in violazione delle disposizioni che regolano il soggiorno in Italia) - la penaè aumentata fino a un terzo.
L’art. 61 n. 11-bis c.p. si ispira chiaramente ad una ideologia punitiva orientata alla neutralizzazione del clandestino/nemicopericoloso (secondo il paradigma del ‘diritto penale del nemico’, in anni recenti elaborato da Günther Jakobs e intorno si è alimentato un ampio dibattito, tuttora vivo, nella dottrina penalistica europea e statunitense) che viene immesso in un circuito di commisurazione sanzionatoria parallelo a quello ordinario, caratterizzato da un maggiore tasso di rigore repressivo.
Nella stigmatizzazione punitiva della irregolarità del soggiorno in sé, l’ordinamento mostra ancora una volta di distorcere la funzione dello strumento penale, piegato a sottolineare disvalori soggettivi anzicchè la maggiore rilevanza negativa di forme di aggressione a beni giuridici.
In buona sostanza, la previsione di aumenti di pena ancorati alla mera condizione di irregolarità finisce col trasformare l’irregolare in una tipologia di autore valutato meritevole di un trattamento differenziato in senso repressivo; ma, in tal modo, il fulcro del giudizio penale si sposta dal “fatto” all’”autore”, con conseguente rottura dell’equilibrio politico-criminale imposto dalla dimensione costituzionalmente orientata del diritto penale, in cui – com’è noto, il disvalore oggettivo (nei suoi aspetti del disvalore di azione e/o di evento) segna un’antecedenza assiologia rispetto al disvalore soggettivo, costituito dai criteri personali della imputazione di responsabilità.
La norma solleva, allora, seri dubbi di legittimità costituzionale in rapporto al principio di uguaglianza/ragionevolezza (art. 3 Cost.).
Il medesimo fatto di reato, anche se privo di collegamento con la situazione di clandestinità, viene infatti considerato dalla legge più grave – e di conseguenza punito più severamente – se commesso da uno ‘straniero irregolare’, anziché da un cittadino italiano o da uno ‘straniero regolare’. Questa disparità di trattamento sembra risolversi in una irragionevolediscriminazione fra persone, in base alla loro origine nazionale e condizione personale (vietata dagli artt. 2 e 7 della Dichiarazione universale, dall’art. 14 della CEDU e dall’articolo 26 del Patto internazionale sui diritti civili e politici).
Il carattere irragionevole di una simile discriminazione – e, pertanto, la contrarietà all’art. 3 Cost. della disposizione qui in rilievo – fonda sul dato che la pena più severa prevista per i reati commessi dagli stranieri irregolari non trova alcuna apprezzabile giustificazione, nel quadro dei valori e principi di una democrazia personal-solidaristica a forte impronta pluralista e multietnica.
Di sicuro, tale giustificazione non è ravvisabile in ragione di una presunta maggiore lesività dei fatti o, quantomeno, di una connessione con le ragioni costitutive dell’offesa al bene giuridico, tutelato dalla norma che incrimina il reato-base: sarebbe stata, ad esempio, più opportuno circoscrivere la differenziazione del trattamento a determinate tipologie di fatti, selezionati sulla base di nuclei criminologici di dannosità sociale espressivi del disvalore di azione e/o di evento.
La diversa opzione del decreto-legge, invece, non lascia emergere alcun nesso tra l’indistinta massa dei reati che il clandestino può commettere e il sottostante giudizio di maggiore pericolosità presunta, a cui è affidata la funzione di giustificare il surplus di pena previsto.
A ben vedere poi, la recrudescenza sanzionatoria non trae fondamento neppure da una ipotetica peculiare, e più intensa, capacità a delinquere del reo, da ragioni cioè che – ove prospettabili – potrebbero giustificare il più grave regime punitivo nell’ottica di maggiori ‘bisogni rieducativi’ dell’autore.
E’ difficilmente plausibile, infatti, e – di certo – empiricamente non accertato, l’assunto secondo cui la condizione di persona illegittimamente presente sul territorio dello Stato incrementi, ex sé, le probabilità che egli commetta in futuro reati, come attesta, a tacer d’altro, il gran numero di stranieri irregolari che vivono nel nostro PaeUè e che non sono dediti ad attività criminose.
Né in favore della legittimità dell’art. 61 n. 11-bis c.p. varrebbe obiettare che il codice penale vigente già prevede aggravanti ricollegabili a condizioni personali, come quella dell’art. 61, n. 6 c.p. che configura una fattispecie circostanziale per l’ipotesi che il reato sia commesso durante lo stato di latitanza.
La similitudine è solo apparente e, quindi, il suo richiamo finisce per svolgere una funzione meramente suggestiva. E’ indubbio, infatti, che tale aggravante presenta una duplice connotazione di disvalore, l’una di natura oggettiva, l’altro rilevante sul piano della evidente maggiore pericolosità soggettiva dell’autore.
Sotto il primo profilo, il reato commesso da chi si trova in stato di latitanza determina una incidenza pregiudizievole dell’interesse pubblico alla esecutività dei provvedimenti giudiziari che dispongono misure detentive; quanto al secondo aspetto, poi, è indubbio che il fatto criminoso, realizzato da chi si sottrae al potere coercitivo dello Stato, lasci emergere una più intensa riprovevolezza personale, destinata ad influenzare il giudizio normativo di colpevolezza orientato in funzione degli scopi preventivi della pena.
In effetti, nell’ipotesi considerata dall’art. 61, n. 6, c.p., a differenza di quanto è previsto nella nuova figura dell’art. 61 n. 11-bis c.p., interviene la mediazione di un provvedimento giudiziale; questfonda,o fonda, da un lato, un collegamento con i reati precedentemente commessi e, dall’altro, evidenzia una più spiccata pericolosità soggettiva dell’autore, ancorata a ragionevoli generalizzazioni del senso comune.
3. La nuova disciplina dei reati in materia di circolazione stradale.
Il decreto-legge prevede, come si è detto, anche l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i fatti di omicidio colposo, e di lesioni personali colpose, commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale, da parte di persone in stato di ebbrezza dovuta all’assunzione di bevande alcoliche, ovvero sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 1 lett. c e d, del d.l. n. 92/2008 che apporta plurime modifiche agli artt. 589 e 590 c.p.).
In particolare, la disciplina dell’omicidio colposo (art. 589 c.p.) viene modificata nei seguenti termini: 1) aumento da cinque a sei anni della pena massima comminata dall’art. 589, co. 2 c.p. in relazione alla circostanza aggravante della commissione del fatto con violazione delle norme sulla circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; 2) introduzione del nuovo art. 589, comma 3 c.p., che configura una circostanza aggravante, speciale rispetto a quella di cui al secondo comma dello stesso art. 589, nel caso in cui il fatto è commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale da parte di: a) un soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’art. 186, co. 2, lett. c) codice della strada – cioè dal conducente di un veicolo rispetto al quale sia stato accertato un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l; b) un soggetto sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. In tali casi, la pena minacciata per l’omicidio colposo è quella della reclusione da tre a dieci anni; 3) aumento da dodici a quindici anni del limite massimo di pena che il giudice, in base all’attuale quarto comma dell’art. 589 c.p. (già terzo comma, prima della riforma in esame) può infliggere al reo in caso di pluralità di eventi lesivi (in ipotesi cioè di morte di più persone, ovvero di morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone).
Anche la disciplina delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) viene modificata, inserendo nell’art. 590, co. 3 un secondo periodo che – analogamente a quanto previsto in relazione all’omicidio colposo dal nuovo art. 589, co. 3 c.p. – contempla una circostanza aggravante, speciale rispetto a quella già delineata dal primo periodo dello stesso art. 590, comma 3, per il caso in cui autore del fatto di lesioni personali colpose commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale sia: a) un soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’art. 186, co. 2, lett. c) c. strad. - cioè il conducente di un veicolo rispetto al quale sia stato accertato un valore corrispondente a un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l; ovvero b) un soggetto sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. In questi casi la pena per le lesioni gravi è della reclusione da sei mesi a due anni; la pena per le lesioni gravissime è della reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni.
Le modifiche apportate alla disciplina dell’omicidio colposo e delle lesioni personali colpose si completano con l’introduzione, da parte dell’art. 1 lett. e) del d.l. n. 92/2008, del nuovo art. 590-bis c.p.(‘computo delle circostanze’).
Tale disposizione, in deroga alla disciplina dell’art. 69 c.p., stabilisce un divieto di equivalenza o prevalenza delle concorrenti circostanze attenuanti - diverse da quelle previste dagli artt. 98 (fatto commesso dal minore imputabile) e 114 c.p. (contributo di minima importanza del concorrente nel reato; minorazione psichica della persona determinata a cooperare nel reato) - rispetto alla circostanza aggravante «di cui all’articolo 589, terzo comma, ovvero di cui all’articolo 590, quarto comma».
Si tratta delle circostanze aggravanti relative ai fatti commessi con violazione delle norme sulla circolazione stradale da soggetto in stato di ebbrezza, oltre la soglia alcoolemica di 1,5 g/l, ovvero sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope. Per espressa previsione normativa – fermo restando il divieto per il giudice di considerare le concorrenti attenuanti equivalenti o prevalenti sulle suddette aggravanti – le diminuzioni di pena per effetto di circostanze attenuanti (non ritenute minusvalenti) vanno operate sul quantum di pena determinato ai sensi delle aggravanti medesime.
Con riferimento al divieto di equivalenza o prevalenza delle circostanze, si osserva che la scelta di comprimere gli spazi di discrezionalità giudiziale appare ampiamente censurabile, perché inficiata da manifesta irragionevolezza desunta dai principi generali di un sistema sanzionatorio orientato al finalismo rieducativi e, dunque, a sceltre punitive che, in concreto, vanno commisurate ai bisogni individuali di risocializzazione.
4. Il nuovo delitto di cessione di immobile a straniero irregolare.
Il decreto legge in esame contiene anche una modifica del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286; l’art. 5 aggiunge, infatti, all’art. 12 il comma 5-bis, che punisce con la reclusione da sei mesi e tre anni, salvo che il fatto costituisca più grave reato, “chiunque cede a titolo oneroso un immobile di cui abbia la disponibilità ad un cittadino straniero irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato”.
La condanna con provvedimento irrevocabile comporta, inoltre, la confisca dell’immobile, salvo che appartenga a persona estranea al reato.
La ratio dell’intervento legislativo risiede nell’esigenza di completare il sistema di disposizioni penali aventi funzione di contrasto all’immigrazione clandestina.
In effetti, per fatti rientranti nell’odierna previsione, la giurisprudenza escludeva la generalizzata ricorrenza del delitto di favoreggiamento alla permanenza di extracomunitari clandestini, stabilito e punito dal comma 5 dell’art. 12, per mancanza del richiesto dolo specifico, consistente nella finalità di trarre ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero clandestino.
Secondo la Cassazione, infatti, la condotta di chi fornisce alloggio a cittadini extracomunitari clandestini integrerebbe il delitto previsto dall’art. 12, comma 5, d.lgs. n. 286 del 1998, solo se “dalla stipula del contratto l’imputato intenda trarre un indebito vantaggio dalla condizione di illegalità in cui si trova lo straniero, sempre in relazione a quel particolare rapporto sinallagmatico” (Cass. pen., Sez. I, 29 novembre 2006, n. 40398).
La condotta incriminata non pone particolari problemi esegetici.
Soggetto attivo può essere anche un soggetto diverso dal proprietario dell’immobile, come dimostrano sia il riferimento alla “disponibilità” – e non alla “proprietà” - dell’immobile, sia la previsione del secondo periodo del comma 5-bis, che, in caso di condanna, esclude la possibilità di confisca dell’immobile se questo appartiene a persona estranea al reato.
Inoltre, il reato non sussiste se la cessione dell’immobile avviene a titolo gratuito; in ogni caso qualora formalmente risulti la cessione di un immobile, ad esempio, a titolo di comodato gratuito ma, nei fatti, lo straniero clandestino ha comunque effettuato un esborso economico per ottenere la disponibilità dell’alloggio, il reato sarà pienamente integrato.
Va poi sottolineato che la norma non fa riferimento allo straniero che abbia fatto ingresso nello Stato in maniera clandestina, bensì al «cittadino straniero irregolarmente soggiornante nel territorio dello Stato». Il che significa che quella condizione può verificarsi durante la locazione dell’immobile, come nel caso in cui allo straniero sia annullato o revocato il permesso di soggiorno. In tale ipotesi, peraltro, solo a partire da quel momento potrà configurarsi l’elemento oggettivo del reato, mentre, con riguardo all’elemento soggettivo, il dolo sarà configurabile solo quando l’agente sarà venuto a conoscenza della nuova condizione di illegalità dello straniero.
La finalità cui si ispira la norma è chiara: combattere il fenomeno dell’immigrazione clandestina colpendo la condotta di chi, fornendo a titolo oneroso l’alloggio agli stranieri irregolari, favorisce il consolidamento sul territorio della situazione di clandestinità, a sua volta strumentale al pericolo per la sicurezza urbana.
Si è chiaramente al cospetto di un reato-ostativo, vale a dire di una ipotesi delittuosa che incrimina condotte prodromiche alla realizzazione dei comportamenti che effettivamente ledono o pongono in pericolo il bene oggetto finale di tutela, vale a dire la sicurezza urbana nei confronti della street criminality.
Tramite la minaccia della sanzione penale per chi offre un soggiorno ai clandestini, il legislatore ha ritenuto di frapporre un impedimento al compimento di efferati delitti da parte degli stessi.
L’ammissibilità di siffatte fattispecie, per loro stessa natura più compatibili con tecniche di controllo sociale di tipo amministrativo – in ossequio al canone della extrema ratio dell’intervento penale – in un diritto penale ispirato al principio costituzionale di offensività dovrebbe essere circoscritta a casi eccezionalissimi, in cui il bene finale da salvaguardare sia di elevato rango (preferibilmente primario), sempre a condizione che l’effettiva idoneità preventiva della fattispecie non sia presunta, ma empiricamente suffragabile.
Quanto alla previsione della confisca, non può non rilevarsi la sua sproporzione rispetto all’entità del fatto incriminato.
A ben vedere, infatti, si tratta di fumo negli occhi.
Di fatto, l’apparato sanzionatorio appare privo di reale efficacia preventivo-integratrice e di una effettiva capacità dissuasiva, in quanto con questa disposizione si andrebbe solo ad istituzionalizzare l’intermediazione nelle locazioni e, quindi, un sistema di ulteriore sfruttamento nei confronti degli immigrati; non dei veri delinquenti, ma di tutti quei migranti deboli che sono in condizione irregolare, così come le badanti o i lavoratori nei cantieri edili o in agricoltura, le cui prestazioni vengono quasi sempre remunerate a nero.
Se si prevede e si regolamenta una sanzione di questo tipo per l’affitto a stranieri irregolari, è chiaro che si costringe ulteriormente lo straniero irregolare a doversi avvalere di un intermediario che funga da prestanome/titolare del contratto di locazione, che sia italiano o straniero regolarmente soggiornante e che immancabilmente non esiterà ad applicare un sovrapprezzo per il rischio e comunque per il servizio che presta.
Di conseguenza la sicurezza urbana non ne esce rafforzata, il fenomeno dell’immigrazione non viene efficacemente combattuto e si crea una situazione ancora più gravosa per gli irregolari vittime dei prestanome.
In definitiva, appaiono prospettabili fondati dubbi di legittimità costituzionale in ordine a questa ipotesi delittuosa: da un lato, perché in contrasto con i principi materiali della strategia penalistica ad orientamento costituzionale (offensività, sussidiarietà, effettività del sistema complessivo di giustizia penale); dall’altro, perché in violazione del principio di proporzionalità, in quanto il suo regime edittale non è messo in relazione al grado dell’offesa tipica anche, e soprattutto, a causa della mancanza del dolo specifico presente, invece, nel reato di cui al comma 5 dell’art. 12.
Non ci si può esimere, poi, dall’osservare che, in una materia come questa, ricca di complesse implicazioni burocratico-amministrative – quindi dalla disciplina extrapenale, sottesa all’incriminazione, di difficile conoscibilità – è facilmente ipottizzabile l’errore sulla norma extrapenale che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 47 c.p., determina un errore sul fatto, escludendo quindi il dolo.
Basta pensare a chi, errando nell’interpretazione delle disposizioni amministrative in materia di rinnovo del permesso di soggiorno, ritenga che lo straniero, a cui abbia ceduto a titolo oneroso un appartamento, sia presente sul territorio dello Stato in maniera regolare. Una simile condotta dovrebbe, strictoiure, andare incontro ad un giudizio di non punibilità, per non essere configurabile il criterio soggettivo richiesto per l’integrazione della tipicità.
Non ci si può nascondere, tuttavia, il rischio che si possano affermare orientamenti volti a negare l’efficacia scusante dell’errore sulla norma extrapenale, tenuto conto che la giurisprudenza tende ad attrarre la disciplina dell’errore su norma extrapenale nell’orbita dell’art. 5 c.p.
Questo paventato approdo deriverebbe dalla preoccupazione politico-criminale di far prevalere il principio di obbligatorietà incondizionata dalla legge penale, onde evitare il rischio di un indebolimento della tenuta del sistema punitivo.
In questo modo, però, si verrebbe a configurare un’ipotesi di responsabilità oggettiva (occulta), di sicuro incompatibile con la personalità della responsabilità penale, cosi come intesa dalla Corte costituzionale, nella nota sentenza 364/1988.
In breve, la tecnica di incriminazione impiegata rischia di collidere anche con il principio costituzionale di colpevolezza.
II
Le disposizioni sul processo penale
1. - Nessuna delle "disposizioni processuali" previste dal decreto legge pare essere in sintonia con i fini emergenziali esposti nella relazione, piuttosto si sono inserite in un piccolo omnibus misure destinate a realizzare l'equazione processo uguale carcere oltre che la esecuzione di pene accessorie di natura reale ... prima della condanna.
La condizione di detenuto diviene non solo priorità per la celebrazione del processo ma presupposto per un rito semplificato, meno garantito.
Si complicano tempi e modalità per la celebrazione dei processi in grado di appello.
Si estende il numero dei reati che rendono obbligatoria la detenzione inframuraria come modalità di espiazione della pena.
Del resto il rinchiudere gli esseri umani che per condizione o condotta versano in contrasto con le regole del consorzio sociale, è obbiettivo non nascosto dell'attuale compagine governativa se è vero come è vero che nel disegno di legge di iniziativa governativa "collegato" al presente decreto, si prevede l'internamento per la durata di anni 1 e mesi 6 di soggetti nei confronti dei quali siano in corso accertamenti per la identificazione, tempo questo pari a quello massimo previsto per la custodia cautelare in carcere intrafasica in relazione ai più gravi reati previsti dal codice penale ed in luoghi che Amnesty International ha definito nei suoi recenti rapporti annuali come strutture ben peggiori del carcere.
2. - Con la novella introdotta dalla lettera a) dell'art. 2 che aggiunge i commi 3bis e 3ter all'art. 260 del codice di rito si consente la distruzione delle merci sequestrate; il provvedimento dell'Autorità Giudiziaria può intervenire anche su richiesta di un organo diverso dalla Polizia Giudiziaria. Non solo. Se il procedimento è a carico di ignoti la distruzione può intervenire ad iniziativa della stessa Polizia Giudiziaria che è organo che decide sulla eventualità di conservare campioni.
Tale ultima previsione è destinata a condizionare l'accertamento probatorio poiché proprio in materia di contraffazione di merci decisiva si palesa la natura e la qualità dei materiali, il tipo dei segni e le loro caratteristiche, tutti dati che non possono essere demandati all'eventuale accertamento preventivo ma necessariamente apprezzati dal Giudice della decisione.
3. - Alle lettere c) d) e f) g) h) dell'art. 2 del D.l. si prevede un accesso inutilmente privilegiato al dibattimento di procedimenti che presentano caratteristiche le quali, in generale,
dovrebbero agevolare i riti speciali connotati dalla rinuncia proprio di tale fase.
Infatti, nelle situazioni nelle quali vi è stato arresto in flagranza, vi è confessione o la prova della responsabilità è evidente, il contraddittorio funge più da garanzia di legalità che da metodo di acquisizione e formazione della prova
Fuori dai casi di pregiudizio per le investigazioni il Pubblico Ministero è tenuto a procedere nelle forme del direttissimo in presenza dei presupposti tipici del rito. Dunque vi è un importante valorizzazione di una modalità di giudizio che è sicuro residuo inquisitorio ove non esiste discovery ed anzi i testi vengono indicati al dibattimento, anche dalla Polizia giudiziaria.
Il giudizio immediato, contrassegnato invece dalla assenza di contraddittorio investigativo (rectius nella fase precedente al giudizio), determina una semplificazione della attività del solo Ufficio del Pubblico Ministero. Ciò che più importa è, però, che con l'obbligo di procedere nelle forme del giudizio immediato nell'attualità della misura cautelare personale, si introduce un improprio criterio di valutazione per il giudizio di revoca della misura: il Giudice saprà che se revoca la misura cautelare collocherà quel procedimento fuori dalla corsia preferenziale.
Atteso il disfacimento organizzativo, la scarsità e il cattivo impiego delle risorse che contraddistinguono l'organizzazione degli Uffici giudiziari, è prevedibile che verranno celebrati, in massima parte, solo i processi ove l'imputato risulti detenuto...
Dunque l'attualità della misura non più come criterio di priorità per la celebrazione dei processi bensì come condizione per il giudizio.
4. - Del tutto incomprensibile, nella linea politica di riduzione dei tempi del processo penale, è l’abrogazione del patteggiamento in appello (art. 599 c.p.p.).
L’istituto ha un fondamento ben preciso: nei casi in cui imputato, pubblico ministero e giudice sono d’accordo che la pena inflitta in primo grado è eccessiva e quindi, nell’osservanza della legge, deve essere ridotta, tale provvedimento va adottato in camera di consiglio senza dover celebrare il giudizio d’appello nelle forme ordinarie.
Ciò consente una drastica riduzione dei tempi e delle risorse processuali.
La disposizione abrogativa contenuta nel D.L. è irragionevole e avrà come conseguenza un tale ulteriore appesantimento dei giudizi d’appello, al punto da comprometterne radicalmente la funzionalità.
Disposizioni di questo genere, che sembrano approssimativamente rispondere a un malinteso senso comune di una giustizia lassista, minano ulteriormente l’efficienza degli apparati giudiziari.
La norma è per di più incostituzionale perché adottata con decreto legge senza che ricorrano i requisiti della straordinarietà, necessità e urgenza (art. 77 cost.).
Roma, 4 giugno 2008
La Giunta