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Sezione di Barletta

 
   
sabato 23 novembre 2024 - ore 17:18
Cassazione – Sezione prima civile – sentenza 15 febbraio 2008, n. 3794.
martedì 20 maggio 2008 - Pubblicazione a cura di

Pegno irregolare ed adempimento del terzo

 
 
Qualora un fideiussore, a garanzia di altrui debiti già scaduti nei confronti di una banca, dia in pegno una somma di danaro o un libretto di deposito al portatore emesso dalla banca medesima, la possibilità di qualificare tale negozio come pegno irregolare dipende dagli accordi intercorsi tra le parti ed, in particolare, dal fatto che, in base a tali accordi (da interpretare ed eseguire secondo buona fede), sia stata concessa alla banca anche la facoltà di immediatamente disporre della somma ricevuta o di quella depositata sul libretto, e che resti escluso l'intento di estinguere subito il debito e di provocare la conseguente surrogazione del fideiussore nel diritto della banca creditrice verso il debitore principale. Solo ove invece ricorra l'ipotesi da ultimo evocata, la consegna alla banca delle somme o del libretto di deposito assume immediata funzione solutoria e perciò preclude alla banca medesima di ulteriormente pretendere l'adempimento dell'obbligazione da parte del debitore principale, impedendo che tale obbligazione possa continuare a produrre interessi a beneficio di detta banca.

 
 
 
Corte di Cassazione
Sezione I civile, 16 gennaio /15 febbraio 2008, n. 3794
Presidente Criscuolo – Relatore Rordorf
 
Svolgimento del processo
 
Con sentenza emessa il 9 aprile 1998 il Tribunale di Foggia, chiudendo dinanzi a sé un complesso contenzioso derivante dalla riunione di cinque cause diverse, accertò che un credito sorto in favore della Banca Commerciale Italiana s.p.a., conseguente alla revoca di precedenti affidamenti accordati alla società Del.Me. s.r.l., era stato estinto in quanto la creditrice si era soddisfatta sugli importi di due libretti di deposito al portatore dati in pegno dal fideiussore sig. Francesco Giannatempo. Il tribunale accertò anche che nulla era più dovuto neppure dagli altri fideiussori, sigg.ri Gaspare Marino e Maria Carbone, i quali a loro volta nulla dovevano all'avv. Raffaele Stoduto, che aveva costituito i pegni operando con provvista fornitagli dal sig. Giannatempo. Fu perciò dichiarata cessata la materia del contendere, con riguardo all'opposizione proposta dalla società debitrice avverso l'intervento della banca in una procedura esecutiva immobiliare a suo tempo iniziata da altri creditori, e furono revocati i decreti ingiuntivi in precedenza emessi. Con la stessa sentenza il tribunale rigettò, infine, anche una domanda di risarcimento dei danni, che era stata proposta dalla Del.Me. nei confronti della stessa banca creditrice.
Tale pronuncia fu impugnata, in via principale, dalla Del.Me, ed, in via incidentale, dalla Banca Commerciale Italiana, successivamente divenuta Banca Intesa s.p.a.; ma la Corte d'appello di Bari, con sentenza depositata il 28 gennaio 2002, rigettò entrambi i gravami.
La corte pugliese, dopo aver disatteso alcune eccezioni di carattere processuale che ora più non rilevano, affermò anzitutto di condividere l'opinione del primo giudice secondo cui il pegno di libretto di deposito al portatore equivale ad un pegno irregolare, avente ad oggetto il denaro depositato sul libretto, ogni qual volta questo sia stato emesso dalla stessa banca titolare del credito che si intende così garantire, ed è invece da considerare come pegno regolare qualora il libretto risulti emesso da una banca diversa. Nella fattispecie in esame uno dei due libretti costituiti in pegno era stato emesso da un'altra banca, ma era stato poi sostituito da un deposito in denaro, effettuato direttamente presso la Banca Commerciale, dalla quale era stato emesso il secondo libretto. Sin dalla data del deposito del denaro sostitutivo dell'un libretto e dell'emissione dell'altro libretto la medesima Banca Commerciale aveva quindi avuto la disponibilità di somme sufficienti a soddisfare il credito fin allora maturato nei confronti della debitrice principale: di talché, pur non potendosi affermare che quest'ultima fosse stata liberata dall'obbligazione in virtù della semplice dazione dei pegni, gli interessi passivi a suo carico avevano cessato sin da quel momento di maturare, con la conseguenza che il successivo formale incameramento delle somme ricevute in pegno da parte della banca risultava idoneo a coprire per intero l'esposizione debitoria della Del.Me., per capitale ed interessi, restando esclusa ogni maggiore pretesa.
La corte d'appello reputò poi infondata la domanda di risarcimento dei danni proposta dalla società debitrice. Secondo detta corte, infatti, la revoca degli affidamenti bancari con un solo giorno di preavviso, contrattualmente consentita, non si poneva in contrasto con il dovere di buona fede della banca verso il cliente, atteso l'anomalo svolgimento del rapporto e la crisi di fiducia ingenerata dal recesso del fideiussore più importante; né comunque era provato che ne fosse derivato per la Del.Me. un danno risarcibile, considerata anche la situazione patrimoniale in cui essa già versava. Del pari infondate furono giudicate le pretesa risarcitorie per l'intervento dispiegato dalla banca nella procedura esecutiva cui la Del.Me. era stata assoggettata e per la richiesta di decreti ingiuntivi nei confronti di quest'ultima: perché detta procedura esecutiva era stata promossa da altri creditori e la Banca Commerciale, per consentirne l'estinzione, aveva rinunciato al proprio intervento a brevissima distanza dalla rinuncia degli altri, mentre i decreti ingiuntivi non potevano aver costituito un fattore di discredito per la società ingiunta non essendo conoscibili da chiunque.
Per la cassazione di tale sentenza la Del.Me. ha proposto ricorso, articolato in tre motivi ed illustrato poi con memoria.
La Banca Intesa - ora Intesa San Paolo - s.p.a. si è difesa con controricorso, formulando altresì due motivi di ricorso incidentale, corredato poi anch'esso da memoria, al quale la Del.Me. ha ribattuto depositando a propria volta un controricorso.
Nessuno degli altri intimati ha spiegato difese in questa sede.
 
Motivi della decisione
 
1. I ricorsi proposti avverso la medesima sentenza debbono essere preliminarmente riuniti, come dispone l'art. 335 c.p.c.
2. Il ricorso principale consta di tre motivi, il cui comune denominatore è l'asserita responsabilità della Banca Commerciale (poi Banca Intesa ed ora intesa San Paolo) per violazione dei doveri di correttezza e buona fede.
2.1. Nel primo motivo, in cui si denuncia la violazione di molteplici norme del codice civile, oltre che vizi di motivazione dell'impugnata sentenza, vengono anzitutto enunciati i comportamenti che la banca avrebbe tenuto in contrasto con i suddetti doveri di correttezza e buona fede: a) la revoca ingiustificata ed improvvisa delle linee di credito delle quali la Del.Me. godeva; b) l'infondata segnalazione alla Centrale rischi della Banca d'Italia di debiti insoluti della medesima Del.Me.; c) l'occultamento degli atti con cui il fideiussore, sig. Giannatempo, aveva estinto le passività della società; d) l'intervento nella procedura esecutiva intrapresa da terzi ed il mantenimento in vita di tale procedura ad opera di detta banca, benché il credito fosse ormai estinto.
La ricorrente lamenta che la corte d'appello non abbia vagliato tutti tali comportamenti, al fine di affermare la responsabilità della banca e di condannarla al richiesto risarcimento dei danni, o che non li abbia adeguatamente e motivatamente valutati.
2.2. Il secondo motivo di ricorso si sofferma, in modo particolare, sull'ultimo dei tre addebiti sopra menzionati e, denunciando ulteriori violazioni di legge e difetti di motivazione del provvedimento impugnato, lo critica nella parte in cui ha escluso l'esistenza di un possibile nesso di causalità tra il comportamento imputato alla banca ed il discredito che l'odierna ricorrente assume di aver subito in conseguenza del protrarsi della procedura esecutiva dianzi richiamata.
2.3. Sostanzialmente non dissimile è il tenore del terzo motivo di ricorso, nel quale si insiste ancora sulla necessità di una valutazione complessiva del comportamento tenuto dalla banca nel corso dell'intera vicenda, si sottolinea coma tale comportamento sia stato almeno una concausa del pregiudizio arrecato alla normale attività economica della ricorrente e si lamenta che la corte territoriale non abbia dato corso alle istanze istruttorie, tra cui la richiesta di espletamento di una consulenza tecnica, volte a quantificare il danno.
3. I surriferiti motivi di ricorso possono essere esaminati congiuntamente, attesa la loro intima connessione, passando in rassegna i diversi addebiti che - come sopra riferito - la ricorrente muove al comportamento della controparte per farne discendere la responsabilità risarcitoria di quest'ultima.
3.1. In termini generali conviene però subito rilevare come nessuna delle censure formulate, benché argomentate anche in diritto, metta in realtà in luce le violazioni di legge denunciate nell'intestazione dei motivi di ricorso. I principi giuridici in tema di responsabilità ai quali la ricorrente fa riferimento - sia per quel che riguarda la violazione dei doveri di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei contratti (ed, in specie, nell'esercizio da parte della banca della facoltà di recedere dal contratto di apertura di credito in essere col cliente), sia per quel che riguarda l'uso indebito degli strumenti che il diritto processuale appronta a tutela dei diritti - non sono in realtà mai contraddetti o negati dall'impugnata sentenza, che non manca anzi di richiamarli. È l'esistenza, nel caso concreto, di situazioni di fatto in presenza delle quali quei principi dovrebbero applicarsi ad essere invece in discussione; sicché, in definitiva, le doglianze della ricorrente non evidenziano errores in iudicando del giudice di merito, ma investono il modo in cui detto giudice ha valutato (o eventualmente trascurato di valutare) le risultanze di causa ed il governo che egli ha fatto degli strumenti istruttori.
Ne consegue che, tenuto conto dei noti limiti del giudizio di legittimità, in questa sede siffatte doglianze possono essere prese in considerazione solo sotto il profilo dell'art. 360, n. 5, c.p.c., ossia solo nella misura in cui mettono capo alla denuncia di vizi di motivazione dell'impugnata sentenza. E, però, occorre ricordare come la deduzione di un vizio di motivazione del provvedimento impugnato non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale sottoposta alla sua attenzione, bensì la sola facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito d'individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando cosi liberamente prevalenza all'una o all'altra delle risultanze acquisite (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Sicché il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza o contraddittorietà della medesima, può dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d'ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (si vedano, tra le tante, Cass. 16 gennaio 2007, n. 828; e Cass. 7 marzo 2006, n. 4842). Pertanto, non vale ad integrare un vizio di motivazione, riconducibile alla previsione del citato art. 360, n. 5, la mera difformità del valore e del significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi da lui esaminati rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente: poiché, in quest'ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito e tenderebbe all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex multis, Cass. 5 marzo 2007, n. 5066) Cass 2 febbraio 2007, n. 2272; e Cass. 26 gennaio 2007, n. 1754). Né, comunque, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi in modo ben intelligibile le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con quelle (Cass. n. 2272/07, cit.).
3.2. Ciò premesso, e passando ora ad esaminare più da vicino i diversi profili in relazione ai quali si articolano le censure contenute nei motivi di ricorso, può dirsi subito che, per quel che riguarda la revoca degli affidamenti bancari di cui godeva la Del.Me., la corte d'appello ha espresso con assoluta chiarezza il proprio convincimento, secondo cui il comportamento tenuto nel caso di specie dalla banca non solo costituì manifestazione di una facoltà consentita dal contratto, ma neppure si pose in contrasto con gli obblighi di correttezza e buona fede comunque gravanti sulle parti del contratto medesimo, giacché non implicò alcuna arbitraria lesione delle legittime aspettative della controparte. Le ragioni di tale convincimento sono altrettanto chiaramente esposte nell'impugnata sentenza: l'irregolare andamento del rapporto rendeva giustificabile e prevedibile la revoca dell'affidamento! le condizioni patrimoniali della società debitrice si erano significativamente deteriorate; la stessa debitrice aveva emesso assegni privi di provvista ed era morosa persine nel pagamento di modesti debiti per forniture del servizio telefonico; il sig. Giannatempo era receduto dalla fideiussione in precedenza prestata, esplicitando così la propria sfiducia nella società, ed era prevedibile che altrettanto avrebbe fatto sua moglie, la quale del pari aveva prestato fideiussione, facendo così venir meno le garanzie su cui principalmente si fondava l'affidamento dell'istituto di credito.
La ricorrente solleva molteplici obiezioni, nessuna delle quali appare però decisiva.
L'obiezione secondo cui il recesso del fideiussore non giustificherebbe la revoca dell'affidamento bancario, in quanto il medesimo fideiussore restava comunque obbligato per i debiti esistenti sino a quel momento, non coglie nel segno, il comportamento del fideiussore è stato preso in considerazione dalla corte d'appello non per i suoi immediati effetti giuridici, ma per il segnale di sfiducia nel debitore principale che in esso era insito. Che poi la reazione della banca avrebbe potuto esser diversa, e che essa fosse o meno proporzionata al significato desumibile da siffatto segnale, involve una valutazione di merito: esula perciò dai limiti già ricordati del giudizio di cassazione, né il fatto che essa non sia condivisa dal ricorrente basta a dimostrare l'esistenza in proposito di un vizio di motivazione.
Altre obiezioni, per un verso, si rivolgono alla motivazione della sentenza di primo grado e, per altro verso, consistono in rilievi di mero fatto. Ma le prime non possono esser prese qui in considerazione, dal momento che la sentenza d'appello - la sola in questa sede valutabile - contiene una motivazione sua propria e richiama quella del tribunale solo per affermare di condividerla, ma mai in termini di motivazione per relationem. Né può dirsi che tale motivazione sia apodittica e non risponda in modo adeguato alle critiche che, in ordine ai medesimi punti di fatto, erano state mosse alla sentenza di primo grado. S'è già ricordato come non occorra che la motivazione si soffermi su ogni singola argomentazione di parte, volta che le ragioni del convincimento del giudice risultino espresse con sufficiente chiarezza, ed i passaggi attraverso i quali la corte d'appello è pervenuta a formare il proprio convincimento sul punto - già sopra richiamati - rispondono pienamente a tale esigenza.
L'accertamento della fondatezza e decisività dei rilievi in punto fatto (per esempio se e quali debiti della Del.Me. verso terzi preesistessero alla revoca dell'affidamento bancario, o quale fosse la causa del protesto degli assegni emessi dalla medesima società) non sarebbe d'altronde possibile se non a patto di una nuova verifica delle risultanze istruttorie del giudizio di merito, che però esula dai poteri della Cassazione.
3.3. Il secondo profilo di responsabilità addebitato alla banca riguarda la comunicazione delle insolvenze delle Del.Me. alla Centrale rischi della Banca d'Italia.
La censura prospettata dalla ricorrente a tal proposito appare, però, inammissibile.
Nella sentenza impugnata non si fa cenno a tale questione, né si riferisce che essa sia stata mai sollevata nel corso dei due gradi del giudizio di merito. È però evidente che solo se la Del.Me. avesse espressamente posto anche una siffatta causa petendi a fondamento della propria pretesa risarcitoria il tribunale, prima, ed eventualmente la corte d'appello, poi, avrebbero avuto l'obbligo di esaminarla ed, avendo rigettato la domanda, di motivare la propria decisione anche sotto questo specifico profilo. Per potersi configurare un vizio di motivazione dell'impugnata sentenza sul punto, perciò, sarebbe stato necessario che il ricorrente - sul quale incombeva il relativo onere - avesse indicato in modo puntuale e specifico, come gli imponeva il principio di autosufficienza del ricorso, se ed in quale sua difesa egli aveva sollevato la questione nel corso del giudizio di merito. Nel ricorso, invece, si fa unicamente cenno ad un provvedimento d'urgenza richiesto al fine di far eliminare la segnalazione dell'insolvenza alla Centrale rischi della Banca d'Italia ed al giudizio che ne è seguito (evidentemente diverso da quello che ha dato origine al presente ricorso per cassazione), ma nulla si dice in ordine alla trattazione del medesimo tema nel giudizio d'appello conclusosi con la sentenza qui impugnata. La quale, perciò, non appare sotto questo aspetto censurabile.
3.4. Gli ulteriori addebiti che la Del.Me. ha mosso alla banca creditrice a sostegno della propria pretesa risarcitoria attengono al comportamento da detta banca tenuto nel corso della fase contenziosa del rapporto.
Il lamentato occultamento di atti solutori posti in essere da un fideiussore, che avrebbero dovuto far considerare estinto il debito della Del.Me. verso la banca già prima che quest'ultima intraprendesse e proseguisse le sue iniziative giudiziarie, è enunciato dalla ricorrente come un fattore di responsabilità distinto da quello consistente nell'assunzione e nella prosecuzione ingiustificate di quelle medesime iniziative. In realtà, i due profili s'identificano in quanto il danno che la ricorrente lamenta di aver patito è, in entrambi i casi, costituito dal discredito che la società avrebbe sofferto in conseguenza di dette iniziative (in particolare del pignoramento dell'azienda), oltre che dai disagi e per dagli oneri che ne sarebbero derivati.
Se la Banca Commerciale, pur dopo aver acquisito il pegno offerto dal fideiussore sig. Giannatempo, avesse o meno titolo per intraprendere e proseguire le proprie iniziative di recupero del credito nei confronti della Del.Me. è questione su cui ci si dovrà soffermare in seguito, esaminando il ricorso incidentale. È tuttavia possibile - ed utile, per ragioni di economia processuale - decidere sin d'ora sulle riferite doglianze della ricorrente principale, perché esse non appaiono accoglibili neppure ove si volessero tener fermo il presupposto dal quale muove l'impugnata sentenza in ordine alla sopravvenuta estinzione del credito vantato dalla banca.
3.4.1. La corte territoriale - come s'ò detto - ha ritenuto che nessuna pretesa creditoria potesse più vantare la banca nei confronti della Del.Me. a partire dal momento in cui il fideiussore sig. Giannatempo (per il tramite dell'avv. Stoduto) aveva costituito in pegno (pegno irregolare) un libretto di deposito al portatore emesso dalla stessa banca ed aveva convertito in denaro un ulteriore pegno avente ad oggetto altro libretto originariamente emesso da un diverso istituto di credito. Nondimeno, il fatto che la Banca Commerciale avesse insistito nel pretendere il pagamento dalla società debitrice principale, proseguendo a tal fine nelle proprie iniziative giudiziarie, è stato ritenuto dalla medesima corte territoriale insufficiente a giustificare l'accoglimento della domanda di risarcimento dei danni proposta da detta società E ciò per una ragione decisiva: per la mancata prova di un qualsiasi danno subito dalla Del.Me., sia in conseguenza dell'intervento della banca in una procedura di pignoramento immobiliare intrapresa da altro creditore, sia in conseguenza dei ricorsi per decreto ingiuntivo dalla stessa banca proposti. La corte d'appello ha infatti considerato che nessun esborso è stato comunque sostenuto dalla società, a fronte dei debiti da essa contratti, ed ha ritenuto che l'ipotetico discredito derivante dall'esecuzione forzata non fosse imputabile ad un creditore intervenuto a pignoramento già avvenuto, tanto più che la banca aveva poi rinunciato al proprio intervento quando anche gli altri creditori si erano fatti indietro, mentre nessun discredito poteva esser derivato alla Del.Me. dall'emanazione di decreti ingiuntivi, non essendo tali provvedimenti soggetti a pubblicità.
A quest'ultimo rilievo la ricorrente non oppone alcuna specifica censura.
Quanto all'altro aspetto, le doglianze contenute nel ricorso muovono dal presupposto secondo cui le stesse considerazioni in base alle quali la corte di merito ha ritenuto di dover accertare l'insussistenza del credito per il quale la banca ha inteso agire esecutivamente varrebbero a dimostrare la potenzialità dannosa del comportamento illegittimamente posto in essere dalla stessa banca, tenuto conto degli effetti che una procedura esecutiva di tal fatta è idonea a produrre a scapito di chi la subisca. Al che, tuttavia, occorre obiettare che, in una causa in cui non è stata formulata una domanda di condanna generica al risarcimento dei danni, bensì di condanna al risarcimento di danni da accertare e liquidare nel medesimo giudizio, l'onere dell'attore non si esaurisce nell'allegare e nel dimostrare l'esistenza di una mera potenzialità di danno subito, ma postula che sia fornita la prova certa e concreta di tale danno, così da consentirne la liquidazione, oltre che la prova del nesso causale tra il danno stesso ed i comportamenti illegittimi addebitati alla controparte (potendosi far ricorso alla liquidazione in via equitativa, quando sussistano i presupposti indicati dall'art. 1226 c.c., solo a condizione che l'esistenza del danno sia comunque dimostrata e pur sempre sulla scorta di elementi idonei a fornire parametri plausibili di quantificazione).
Per il resto, le critiche che nel ricorso vengono rivolte alla decisione impugnata nuovamente si risolvono in un'inammissibile richiesta di riesame del giudizio di merito sul punto. Esse essenzialmente sono tese a sostenere che la partecipazione della banca al processo esecutivo, promosso da altro creditore sui beni della Del.Me., avrebbe avuto un diverso e ben maggiore rilievo di quanto reputato dalla corte d'appello; ma ciò investe un profilo di valutazione precluso al giudice di legittimità e postula, per altro verso, una (almeno in parte) differente ricostruzione dei singoli passaggi del menzionato processo esecutivo. Presuppongono però, in tal modo, una revisione di accertamenti di fatto, o il loro compimento ex novo, che allo stesso giudice di legittimità non possono esser chiesti, non foss'altro perché non gli è consentito prendere conoscenza diretta delle risultanze documentali, ed istruttorie in genere, della causa di merito.
Il rilievo, poi, secondo il quale la partecipazione attiva della banca al menzionato procedimento esecutivo avrebbe dovuto esser considerato almeno quale concausa del danno sofferto dall'odierna ricorrente, la quale si sarebbe vista bloccare la propria attività aziendale ed avrebbe subito un grave discredito, non è condivisibile. Lo potrebbe forse essere solo a patto di postulare - e però difetta qualsiasi elemento per farlo - che nessuna delle azioni esecutive promosse da altri precedenti creditori avesse fondamento; ma, ove questo non sia, sul piano logico appare difficilmente contestabile l'affermazione della corte d'appello secondo la quale l'intervento di un ulteriore preteso creditore - sia pure in ipotesi non realmente titolare di alcun credito - nulla poteva concretamente aggiungere al discredito già subito dal debitore per effetto del pignoramento da altri promosso (né, ovviamente, all'effetto paralizzante già provocato alle attività aziendali da detto pignoramento), trattandosi di una conseguenza che non dipende dal moltiplicarsi delle iniziative dei diversi creditori, bensì dal nero fatto che un procedimento di tal genere sia stato posto in essere. Ragion per la quale appare logicamente corretta anche l'ulteriore considerazione della corte di merito che ha sottolineato come la Banca Commerciale ebbe a rinunciare al proprio intervento nel procedimento esecutivo a brevissimo intervallo di tempo da quando gli altri creditori precedenti avevano fatto altrettanto Infatti alla banca, nella situazione data, sarebbe stato in astratto possibile imputare unicamente gli effetti pregiudizievoli subiti dalla Del.Me. per il protrarsi del procedimento esecutivo in conseguenza della sola residua presenza attiva della medesima banca; ma il giudice di merito ha escluso in concreto che, considerata la brevità del tempo trascorso tra la rinuncia processuale degli altri creditori e quella della stessa Banca Commerciale, potesse nella specie configurarsi un danno risarcibile; e trattasi, ancora una volta, di una valutazione in punto di fatto, che non è in questa sede sindacabile.
Pertanto, appare chiaro come in siffatto contesto non possano trovare spazio neppure le doglianze della ricorrente concernenti la mancata ammissione di mezzi istruttori volti a determinare l'entità dei pretesi danni. Doglianze peraltro di per sé non ammissibili, in quanto non corredate dalla specifica Indicazione del tenore delle richieste istruttorie non accolte, onde questa corte non sarebbe comunque in grado di valutare se si tratta di richieste ammissibili e potenzialmente decisive ai fini della conclusione della causa, oppure inammissibili perché meramente esplorative.
3.5. Per tutte le suesposte ragioni, il ricorso principale deve, quindi, esser rigettato.
4. Occorre ora procedere all'esame del ricorso incidentale, che investe la statuizione con cui l'impugnata sentenza ha accertato l'estinzione totale del credito per capitale ed interessi vantato dalla banca ricorrente nei riguardi della società Del.Me., per effetto prima della costituzione di pegni irregolari, da parte del fideiussore sig. Giannatempo, con conseguente sospensione del corso degli interessi dovuti sul debito garantito, e poi dell'incameramento, ad opera della banca, di detti pegni, idonei a coprire l'ammontare del debito capitale e degli interessi fin quando maturati.
4.1. La ricorrente incidentale, col primo motivo, lamentando la violazione di molteplici disposizioni del codice civile e difetti di motivazione del provvedimento impugnato, contesta che il pegno di libretti di deposito al portatore possa essere, in alcun caso, considerato alla stregua di un pegno irregolare, attesa la natura giuridica di tali libretti che li rende irriducibili al semplice credito di restituzione delle somme in essi menzionate. Per la configurazione di un pegno irregolare - osserva ancora la ricorrente - è d'altronde necessaria non solo la mancata individuazione del denaro o dei titoli costituti in garanzia, ma anche il conferimento alla banca della facoltà di disporne, che nel caso di specie la corte d'appello ha del tutto omesso di accertare.
4.2. Nega comunque, la medesima ricorrente, dolendosi ancora nel secondo motivo della violazione dell'art. 1851 c.c. e di visi di motivazione della sentenza impugnata, che la dazione in pegno possa, in simili casi, avere effetti solutori - neppur solo condizionati - specie quando il pegno sia costituto da un garante terzo al quale un siffatto intento sia estraneo. A maggior ragione si dovrebbe quindi escludere che la dazione del pegno ad opera del terzo possa incidere sul decorso degli interessi passivi, destinati in ogni caso a maturare nei confronti del debitore fino alla data dell'effettiva estinzione del debito garantito.
5. Lo censure contenute nei due riportati motivi del ricorso incidentale appaiono logicamente tra loro connesse e possono quindi essere senz'altro esaminate congiuntamente.
5.1. Il ragionamento svolto dalla corte d'appello si articola in tra essenziali passaggi: 1) il pegno di cui si tratta è un pegno irregolare e perciò la banca creditrice ha acquisito immediatamente la proprietà del denaro depositato presso di lei; 2) la costituzione del pegno irregolare ha provocato (non già l'immediata estinzione dell'obbligazione gravante sul debitore principale, bensì) il congelamento del corso degli interessi afferenti al debito garantito, atteso che la banca ha potuto a propria volta godere di quelli che maturavano sulle somme acquisite per effetto del pegno; 3) quando detta banca ha anche formalmente incamerato le somme ricevute in pegno, il debito principale si è estinto completamente, in quanto quelle somme erano sufficienti a coprire l'importo del capitale e degli interessi maturati sino alla data della costituzione del pegno.
Le critiche della ricorrente incidentale investono, specificamente, i primi due passaggi del ragionamento appena sintetizzato e, nei termini di cui si dirà, appaiono fondate.
5.1.1. Nessuno degli argomenti offerti alla discussione induce a discostarsi dall'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la possibilità di configurare come irregolare un pegno avente ad oggetto un libretto di deposito al portatore non soltanto presuppone che questo sia stato emesso dalla stessa banca creditrice che lo riceve poi in garanzia (come in particolare sottolineato da Cass. 29 settembre 1997, n. 9528; e Cass. 13 aprile 1977, n. 1380), ma anche che il contratto di costituzione di pegno riconosca a detta banca il potere di immediatamente disporne. Non diversamente da quel che accade per la costituzione in pegno di somme di denaro, di titoli o di altri beni fungibili, insomma, il dato che rileva ai fini della configurabilità del pegno come irregolare non è solo costituito dalla natura del bene, ma anche e soprattutto dalla volontà delle parti di conferire al creditore la facoltà di disporre del bene stesso (o, nel caso si tratti di titolo di credito o documento di legittimazione, del relativo diritto) per soddisfare i propri crediti: facoltà di disposizione solo in presenza della quale la fattispecie esula dai confini del pegno regolare per rientrare, viceversa, nella disciplina prevista dall'art. 1851 c.c., con la conseguenza che il creditore acquisisce immediatamente la proprietà del denaro o dei beni, destinati poi, al momento dell'adempimento, ad essere restituiti in equivalente per intero, oppure, in caso d'inadempimento, nella sola misura eventualmente eccedente l'ammontare del credito garantito (si vedano Cass. 6 dicembre 2006, n. 26154; Cass. 20 aprile 2006, n. 9306; Cass. 10 marzo 2006, n. 5290; Cass. 16 giugno 2005, n. 12964; Cass. 24 maggio 2004, n. 10000; Cass 5 marzo 2004, n. 4507; Cass. 9 maggio 2000, n. 5845; Cass. 18 giugno 1996, n. 5592).
Giova aggiungere - perché ciò tocca anche il secondo dei due passaggi argomentativi dell'impugnata sentenza sopra richiamati - che la suaccennata facoltà per il creditore di disporre del denaro o degli altri beni fungibili costituiti in pegno irregolare non implica affatto che un tal genere di pegno abbia funzione solutoria, e perciò immediatamente satisfattiva (ancorché in un non recente passato ciò sia stato adombrato da autorevole dottrina e sia talvolta riecheggiato anche in qualche pronuncia di questa corte: si veda, ad esempio, Cass. n. 4507/04, cit.). Il pegno è ai preordinato ad assicurare la possibilità di futura soddisfazione del creditore, ma ciò non significa che questa si attui già con la sola costituzione del pegno medesimo, la cui finalità essenziale, regolare o irregolare che esso sia, è di garanzia. Ammettere che l'acquisto da parte del creditore della proprietà dei beni ottenuti in pegno implichi, di per se stesso, l'estinzione del debito garantito contrasta con la medesima nozione di garanzia, la quale necessariamente presuppone l'esistenza di un'obbligazione il cui adempimento si intende appunto garantire, e che invece, ove la dazione di pegno assumesse immediata funzione solutoria, paradossalmente resterebbe priva di oggetto proprio nel momento in cui è posta in essere. Né giova, al fine di eliminare tale contraddizione, ipotizzare che l'effetto solutorio sia sottoposto alla condizione risolutiva del successivo adempimento dell'obbligazione garantita. Costruzione, questa, non solo inutilmente complessa, e priva di alcun solido appiglio normativo, ma comunque insoddisfacente sul piano logico: perché, ove l'obbligazione principale davvero fosse estinta con la sola costituzione del pegno irregolare, mal si comprende come potrebbe poi ancora parlarsi del successivo adempimento di un débito ormai non più esistente (o, semmai, esistente non più nei confronti dell'originario avente diritto ma solo del terzo datore di pegno, surrogatosi nella posizione del creditore soddisfatto). Per non dire, poi, della difficoltà stessa di ammettere che un pagamento - ove si neghi la sua natura di atto negoziale - possa essere sottoposto a condizione.
In realtà la funzione solutoria non riguarda la costituzione del pegno, ma si verifica solo nella fase di escussione del pegno medesimo, allorché cioè il sopravvenuto inadempimento del debito principale alla scadenza autorizza il creditore ad incamerare in via definitiva il denaro o gli altri beni fungibili ricevuti in garanzia e quindi gli consente di "autosoddisfare" il proprio credito proprio attraverso questo meccanismo santificato, che lo sottrae alla necessità di procedere altrimenti in via esecutiva, salvo l'obbligo di restituire l'eccedenza, come previsto dal citato art. 1851 c.c. (si vedano anche, quanto al modo in cui opera il descritto meccanismo di soddisfazione del credito, conseguente all'incameramento del pegno irregolare, Sez. un. 14 maggio 2001, n. 202, e le - peraltro non in tutto coincidenti - pronunce di Cass 3 aprile 2003, n. 5111, e Cass. 5 novembre 2004, n. 21237).
5.1.2. Alcune considerazioni ulteriori però si rendono necessarie quando - come nel caso di specie è accaduto - la costituzione del pegno sia opera di un terzo e risulti essere intervenuta in un momento successivo alla scadenza dell'obbligazione principale.
Non sembra ragionevole dubitare che, in via di principio, una garanzia possa esser concessa in relazione ad un'obbligazione già scaduta (lo riconosce esplicitamente, del resto, l'art. 67 della legge fallimentare); e ciò anche indipendentemente dalla necessità di ipotizzare una contestuale dilazione della scadenza del debito garantito, giacché in tutti i casi è evidente l'interesse del creditore a veder rafforzate le probabilità di soddisfacimento delle proprie ragioni, fin quando ogni possibile prospettiva di adempimento tardivo dell'obbligazione da parte del debitore non sia definitivamente sfumata, senza per questo rinunciare a pretendere tale adempimento. In tal caso, però, il modo di operare del meccanismo di escussione della garanzia e l'individuazione del momento in cui esso può essere concretamente attuato non possono più evidentemente essere ancorati all'inadempimento del debito, ormai già verificatosi sin dalla precedente scadenza dell'obbligazione cui la garanzia accede. Li si deve invece necessariamente ricavare dal tenore degli accordi intercorsi tra il creditore e colui che costituisce la garanzia per il debito scaduto.
Solo la verifica dell'effettivo contenuto negoziale di detti accordi - tanto più quando al creditore siano stati consegnati denaro o altri beni fungibili ad opera di un terzo - consente, del resto, di affermare con certezza che davvero si e in presenza di un pegno. Non può infatti neppure escludersi, almeno in astratto, che la qualificazione giuridica data dalle parti all'operazione non corrisponda al suo effettivo contenuto, e che il giudice, cui in definitiva compete l'esatto inquadramento giuridico della fattispecie, possa viceversa individuare in essa, a seconda dei casi, gli estremi di una datio in solutum o di un adempimento del terzo, riconducibile alla previsione dell'art. 1180 c.c.. Né la circostanza che il terzo datore rivesta anche, al contempo, la qualifica di fideiussore - come appunto si verifica nel presente caso - muta i termini del problema: resta pur sempre da stabilire se egli abbia inteso solo aggiungere alla garanzia personale un'ulteriore garanzia pignoratizia di natura reale, o se abbia inteso eseguire un pagamento, come tale idoneo ad estinguere senz'altro l'obbligazione (anche su di lui gravante per effetto della prestata fideiussione), con conseguente sua surrogazione nei diritti del creditore a norma dell'art. 1949 c.c.
Non è peraltro superfluo aggiungere che il principio di buona fede, cui debbono essere ispirati tanto l'interpretazione quanto l'esecuzione dei contratti (artt. 1366 e 1375 c.c.) e che deve improntare anche gli accordi tra creditore e garante, impone pur sempre al medesimo creditore l'obbligo di tener conto degli altrui interessi, ove questi non siano incompatibili con altrettanto legittimi interessi propri, e perciò di prestare la propria collaborazione all'adempimento dell'obbligazione. Donde consegue che anche la scelta di quando e come avvalersi dal meccanismo satisfattorio, insito nell'escussione del pegno irregolare, non può reputarsi totalmente rimesso all'arbitrio del creditore: il quale sarà invece tenuto a darvi diligentemente corso ogni qual volta un'eventuale inerzia non trovi plausibile giustificazione e si risolva unicamente in un aggravio per il debitore (che potrebbe per questo veder ulteriormente lievitare gli interessi passivi conteggiati a suo carico) e di riflesso anche per il datore di pegno (che, correlativamente, potrebbe veder maggiorata l'entità del credito garantito e perciò ridotta la possibilità di recuperare il residuo valore del pegno).
5.1.3. A quest'ultimo proposito occorre infine considerare che, qualora il contenuto degli accordi intercorsi tra creditore e datore di pegno confermi che proprio della costituzione di un pegno (ancorché irregolare) si è trattato, appare priva di giustificazione l'affermazione della corte d'appello secondo cui la semplice costituzione di detto pegno renderebbe l'obbligazione principale improduttiva di ulteriori interessi. È vero, invece, che qualsiasi costituzione di garanzia - se tale è - rafforza il diritto del creditore ad ottenere l'adempimento dell'obbligazione, della quale non modifica però il regime giuridico. Non viene perciò meno l'obbligo di adempimento gravante sul debitore, né quindi si elide il titolo in base al quale ne possano scaturire obblighi accessori, ivi compresi quelli di corrispondere interessi legali o convenzionali. La circostanza che il creditore, avendo acquisito la disponibilità (e la proprietà) dei beni fungibili ottenuti in pegno si trovi, a propria volta, a godere dei frutti di tali beni - e quindi degli interessi, se si tratta di denaro - fa si che il ricavato debba essere imputato a deconto prima delle spese, poi degli interessi e poi del capitale dovuti dal debitore (come si argomenta dall'art. 2791 c.c), ma non sospende affatto automaticamente il corso degli interessi sul debito garantito, il cui tasso non necessariamente, del resto, corrisponde a quello degli interessi che maturano sulle somme date in pegno.
5.2. Alla stregua di tali considerazioni appare dunque evidente come il ragionamento svolto dalla corte d'appello sia affetto da un duplice errore: il primo - e decisivo - consiste nell'aver ritenuto l'indagine sulla natura dei beni oggetto della dazione di pegno sufficiente ad affermare che la banca creditrice acquistò l'immediata facoltà di disporre di tali beni e che, di conseguenza, si è trattato di pegni irregolari, e nell'aver omesso di procedere invece all'esame in concreto dell'effettiva volontà delle parti al riguardo, espressamente anzi dichiarando di reputare irrilevanti “eventuali diverse intese intercorse tra il garante e la banca stessa" (sentenza impugnata, pag. 28); il secondo risiede nella già criticata opinione secondo cui la mera dazione del pegno irregolare avente ad oggetto un libretto di deposito e la trasformazione in denaro del pegno (originariamente regolare) avente ad oggetto un ulteriore libretto avrebbero implicato il venir meno della produzione di interessi sul debito garantito.
5.3. S'impone, dunque, la cassazione dell'impugnata sentenza, limitatamente al punto investito dal ricorso incidentale, con conseguente rinvio della causa alla medesima Corte d'appello di Bari (in diversa composizione), affinché la riesamini alla luce del seguente principio di diritto:
“Qualora un fideiussore, a garanzia di altrui debiti già scaduti nei confronti di una banca, dia in pegno una somma di danaro o un libretto di deposito al portatore emesso dalla banca medesima, la possibilità di qualificare tale negozio come pegno irregolare dipende dagli accordi intercorsi tra le parti ed, in particolare, dal fatto che, in base a tali accordi (da interpretare ed eseguire secondo buona fede), sia stata concessa alla banca anche la facoltà di immediatamente disporre della somma ricevuta o di quella depositata sul libretto, e che resti escluso l'intento di estinguere subito il debito e di provocare la conseguente surrogazione del fideiussore nel diritto della banca creditrice verso il debitore principale. Solo ove invece ricorra l'ipotesi da ultimo evocata, la consegna alla banca delle somme o del libretto di deposito assume immediata funzione solutoria e perciò preclude alla banca medesima di ulteriormente pretendere l'adempimento dell'obbligazione da parte del debitore principale, impedendo che tale obbligazione possa continuare a produrre interessi a beneficio di detta banca".
6. Il giudice di rinvio provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione.
 
PQM
 
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta quello principale, accoglie l'incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia la causa alla Corte d'appello di Bari, in diversa composizione, demandandole di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.