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Cassazione Penale, Sez. V, sent. 31/10/2007 (dep. 23/01/2008), n.3557
giovedì 15 maggio 2008 - Pubblicazione a cura di Francesco Morelli

La relazione di servizio del militare della Guardia di Finanza, anche se fuori servizio, costituisce atto pubblico e non una mera comunicazione interna; cosicché se vi è immutatio veri è ravvisabile il delitto di falso.

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE V PENALE
Sentenza 23 gennaio 2008, n. 3557
REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sez. III Penale
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
...omissis...
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
...omissis...
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Corte di Cassazione osserva :

D. N., guardia di finanza, veniva condannato nei due gradi di merito - sentenze del Tribunale di Viterbo, Sezione distaccata di Montefiascone, del 3 giugno 2003 e della Corte di Appello di Roma del 9 gennaio 2007 - anche al risarcimento dei danni, con provvisionale alla parte civile costituita, per i delitti di lesioni e minaccia in danno di Cozzolino Giovanni, perché all'uscita di una discoteca colpiva la parte lesa con schiaffi in faccia e con il calcio e la canna della pistola alla testa ed alla fronte, e di falso perché nella relazione di servizio inoltrata al suo comando riferiva fatti contrari al vero.

L'affermazione di responsabilità dell'imputato era fondata sulle dichiarazioni della parte lesa e su quelle di testimoni oculari, Vitali Danilo, sottufficiale dell'Esercito e Fabbri Domenico, agente della Polizia Penitenziaria, nonché sugli esiti della espletata perizia medico - legale.

Con il ricorso per cassazione D. N. deduceva la violazione di legge in ordine alla ritenuta sussistenza del reato di cui all'articolo 479 c.p. perché il D. il 24 giugno 2006 - rectius 2000 - non era in servizio trovandosi presso la discoteca Il Faro di Montefiascone come privato cittadino e perché di conseguenza la cd relazione di servizio altro non era che una mera comunicazione interna.

Il motivo di impugnazione è infondato perché i militari appartenenti alla Guardia di Finanza debbono essere considerati sempre in servizio, non cessando dalla loro qualità di pubblici ufficiali anche quando non sono comandati in servizio (così Cass. Pen. 5 febbraio 2003, Scaramuccia, in CED Cass. N. 224049 a proposito di appartenenti all'Arma dei Carabinieri).

Essi, infatti, al pari degli agenti di polizia e dei Carabinieri, anche se in congedo, in vacanza, in ferie o semplicemente liberi da impegni di ufficio per fine del servizio ( vedi Cass., Sez. I, 11 maggio 1971 - 30 settembre 1971, n. 452, in CPMA, 1972), hanno sempre il dovere di compiere gli atti compresi nel generico dovere di cooperare nel modo più efficace al conseguimento degli scopi del proprio ufficio, come quello, ad esempio, di sedare una lite, come è accaduto nel caso di specie ( Cass. 18 novembre 1982, Miele, in CP 84, 557).

Non sono stati indicati dal ricorrente argomenti che possano indurre a mutare siffatto consolidato indirizzo, valido anche nei confronti dei finanzieri, avendo la Suprema Corte sin dal lontano 1954 affermato che la guardia di finanza in licenza non cessa di essere pubblico ufficiale ( Cass. 14 gennaio 1954, Pappalepore, in GP, 54, II, 587).

La soluzione adottata consente di risolvere agevolmente anche il secondo problema posto concernente la natura della relazione di servizio.

Dal momento che il finanziere è considerato sempre in servizio non vi è dubbio che le relazioni di servizio siano atti pubblici fidefacienti ( così Cass., Sez. V penale, 18 settembre 1991, depositata il 29 novembre 1991, n. 12065, in CP 93, 303 ). con esse, infatti, il pubblico ufficiale attesta una certa attività da lui espletata, ovvero che determinate circostanze sono cadute sotto la sua diretta percezione e vengono così rievocate ( Cass., Sez. V penale, 7 febbraio 1992 16 marzo 1992, n. 2889, in CP 93, 1430. vedi anche Cass., Sez. V penale, 15 ottobre 2004, Liggi, a proposito della relazione di servizio di un agente di polizia stradale).

In virtù di tale indirizzo giurisprudenziale non è possibile affermare, come ha fatto il ricorrente, che la relazione di servizio costituisce una mera comunicazione interna trattandosi, invece, di un atto pubblico. cosicché se vi è immutatio veri è ravvisabile il delitto di falso di cui all'articolo 479 c.p., reato che è stato contestato nel caso di specie e che è certamente ravvisabile tenuto conto di quanto sul punto precisato dai giudici di merito e di quanto si dirà in seguito.

Né appare possibile in siffatta situazione invocare il principio del nemo tenetur se detegere. In effetti posto che la relazione di servizio di un pubblico ufficiale è, come già detto, atto pubblico per il quale si configura, in caso di falsità ideologica, il reato di cui all'articolo 479c.p., deve escludersi che la rilevanza penale del fatto possa venir meno in applicazione del principio nemo tenetur se detegere, posto che la finalità dell'atto pubblico, da individuarsi nella veridicità erga omnes di quanto attestato dal pubblico ufficiale, non può essere sacrificata all'interesse del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale (così Cass., Sez. V penale, 15 ottobre 2004 - 16 giugno 2005, Liggi, citata).

D'altra parte l'imputato aveva la scelta di rifiutarsi di redigere l'atto pubblico de quo, senza incorrere nel reato di cui all'articolo 328 comma I c.p., che presuppone il carattere indebito del rifiuto, facendo venir meno la inevitabilità del nocumento derivante da una relazione di servizio veritiera.

Con un secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto la mancanza e manifesta illogicità della motivazione in relazione alle prove testimoniali favorevoli all'imputato.

Il motivo di impugnazione si risolve in inammissibili censure di merito della decisione impugnata.

La motivazione impugnata è, infatti, corretta, dal momento che i giudici del merito hanno dato atto di avere esaminato tutte le prove testimoniali assunte e tutti i documenti acquisiti successivamente hanno esposto in modo del tutto ragionevole in base a quali elementi erano pervenuti alla affermazione di responsabilità dell'imputato.

Del resto la motivazione dei provvedimenti giudiziari assolve esattamente al compito di rendere edotti gli interessati delle ragioni che hanno determinato il convincimento del giudice.

Secondo il costante indirizzo della Suprema Corte, infatti, nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere una analisi approfondita di tutte le deduzioni di parte e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo, invece, sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di avere tenuto presente ogni fatto decisivo, dovendosi in ipotesi siffatte considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata ( vedi Cass. 10 novembre 2000, Gianfreda, in CP 02, 732 e Cass., Sez. IV, 24 ottobre 2005 - 13 gennaio 2006, n. 1149, in CED 233187).

Ebbene i giudici di merito hanno rispettato tali principi ed hanno spiegato con il dovuto approfondimento tutte le ragioni che militavano per una condanna del D., fondata in particolare, come già detto, sulle testimonianze assolutamente indifferenti del Vitali, sottufficiale dell'Esercito, e del Fabbri, agente della Polizia Penitenziaria.

Naturalmente non è possibile richiedere in sede di legittimità una rivalutazione delle prove assunte, essendo tale compito demandato in via esclusiva ai giudici dei primi due gradi di giurisdizione.

Ad analoghe considerazioni si deve pervenire per quanto concerne la valutazione della perizia tecnica compiuta dai giudici di merito.

Questi ultimi hanno ragionevolmente spiegato che dalla perizia risultava che le lesioni riscontrate sulla parte lesa erano compatibili con il tipo di corpo contundente utilizzato dal D..

Il ricorrente non può in sede di legittimità proporre al Collegio l'esame e la valutazione di una consulenza tecnica di parte che, a suo dire, contrasterebbe le conclusioni del consulente di ufficio.
Trattasi di censure di merito inammissibili in sede di legittimità.

Le ragioni indicate impongono il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente a pagare le spese del procedimento.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese processuali.
Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 31 ottobre 2007.