“Cornuto ma non mazziato”: per chi è stato tradito c’è l’amara consolazione di trovare la strada spianata per ottenere, dal giudice, il cosiddetto addebito (ossia, la dichiarazione di responsabilità per il fallimento del matrimonio) a carico dell’ex coniuge. Infatti, quando viene dimostrata l’infedeltà, si presume sempre che essa sia stata l’effettiva causa della rottura del legame, salvo prova contraria fornita dalla controparte. Cerchiamo di comprendere meglio questo principio fissato da una recente sentenza del tribunale di Caltanissetta [Trib. Caltanissetta sent. del 3.12.2014]. Perché l’infedeltà possa essere causa di responsabilità e, quindi, di “addebito”, è necessario che essa sia stata il motivo principale a determinare la crisi coniugale. Se, invece, questa era già in atto e il rapporto adulterino è solo l’effetto di un’unione già sgretolatasi in precedenza, al coniuge fedifrago non può essere recriminato nulla: nessuno può essere obbligato a restare fedele a una persona che non lo ama più. Questa la regola generale. Ma vediamo come questa regola si applica concretamente in una causa. È la parte tradita che deve subito dimostrare l’infedeltà del coniuge. Fatto ciò, essa ha esaurito ogni onere a proprio carico poiché, solo per questo fatto, diventa automatica la condanna nei confronti del fedifrago. Infatti la legge presume già in partenza che l’infedeltà sia la causa della rottura, vista la gravità della condotta. La palla, quindi, passa all’altra parte. Se vuole evitare la condanna deve, a sua volta, dimostrare l’anteriorità della crisi rispetto all’accertata infedeltà [Cass. sent. n. 16172/2014], ossia la preesistenza di una crisi già irrimediabilmente in atto, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale. In mancanza di questa prova resta a suo carico l’addebito.
.
Redazione di LLpT